Quanto vale la felicità
Un po’ di anni fa, in piena lavorazione di un film documentario sul lavorare da casa (tema su cui mi sono a lungo soffermata) ho detto a voce alta la password del mio computer, la stessa da sempre: felicità.
Ricordo con esattezza il silenzio calato nella stanza e la regista con cui stavo collaborando dirmi senza pietà “sei un fumetto Burchi”. Non ha grande credito la felicità tanto più in certi ambienti in cui dichiararsi felici o anche solo desiderose di esserlo è considerato veramente troppo pop, quasi volgare, senz’altro mainstream.
Questa situazione, non proprio esaltante, mi è tornata alla mente quando mi è stato chiesto di scrivere un ‘messaggio in bottiglia‘. Ho pensato che avevo voglia di mettermi scomoda e provare a ragionare intorno a questa parola così difficile da pronunciare in tempi di naufragi.
Mi è venuto incontro un volume segnalatomi della mia amica Anastasia Barone con cui mi capita spesso di condividere letture e pensieri. Il volume raccoglie un dialogo tenutosi a Roma ormai più di 30 anni fa, nel 1992 tra Rossana Rossanda e Christa Wolf, due “giganti” come le nominava Alessandra Bocchetti, allora Direttora del centro Virginia Woolf di Roma che le aveva invitate, quasi convocate, proprio per parlare di felicità.
Nella conversazione, due donne in rapporto obliquo con il femminismo vengono sfidate a considerare la felicità una forza tanto dirompente da costituire una critica radicale a un sistema che già allora, prima della crisi climatica e di tutte le apocalissi cui ci stiamo abituando, sembrava irriformabile. Se la felicità… Per una critica al capitalismo a partire dall’essere donna, questo il titolo dell’incontro.
È un piccolo libro interessante e pieno di pensieri, emozionante per il modo in cui trascrive lo scorrere di un discorso in diretta, con tanto di fraintendimenti, piccoli bisticci, piccature. Sembra, leggendolo, di partecipare al tono attento delle tante donne che riempirono la grande sala che fu necessario trovare per l’occasione.
I libri di Christa Wolf grazie alle Edizioni e/o erano molto letti: Cassandra aveva avuto un enorme successo. Rossana Rossanda, da sempre molto seguita sulle pagine de Il Manifesto da qualche anno si era avvicinata al femminismo, partecipando a seminari, discussioni, convegni, anche alle attività del Virginia Woolf, come racconta Bocchetti nel presentarla.
Il dialogo non è lineare, il filo dei ragionamenti è preso e lasciato più volte, il discorso entra ed esce dal tema della felicità, per intrecciarsi con quello della politica, della libertà, della scrittura.
Bocchetti apre muovendo le sue carte: “non la lotta di classe ma la felicità delle donne per cambiare veramente”. L’accostamento non è casuale. Rimandi a questa possibile dicotomia hanno attraversato la storia del femminismo, anche prima degli anni Settanta.
Per ricostruire l’intera vicenda sono utili gli atti di una scuola estiva della società delle storiche di qualche anno fa, che ho ritrovato in rete: Felicità della politica, politica della felicità. Cittadinanza, giustizia, benessere in una visione di genere (Eut, 2017).
Le storiche ci spiegano bene che il rapporto del femminismo con l’idea di felicità segue quello di altri progetti utopici che hanno accompagnato lo sviluppo dalla modernità del Settecento fino alla stagione degli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ma questo rapporto ha dimostrato una particolare tenuta grazie a quanto ha di più specifico: l’apertura di uno spazio di azione e di immaginazione alternativo a quelli esistenti.
Il presentarsi nella storia di un soggetto imprevisto, incarnato, sessuato, capace di giocare sul piano pubblico le eccedenze, i bisogni e i desideri rimossi o negati, ha generato una rivoluzione lenta e profonda, mai definitiva, anche dei sentimenti ammessi in politica.
“Il femminismo è stata la mia festa” scriveva Carla Lonzi per raccontare con un’immagine il senso di apertura e di imprevista libertà. Anna Rossi-Doria, ricorda Raffella Baritono, nei suoi saggi sul femminismo italiano degli anni Settanta ha parlato di quel periodo come, per usare le sue parole, di “una rarissima stagione di felicità pubblica”, un pieno di politica che portava con sé un senso di trasformazione individuale e collettiva, frutto della risignificazione del rapporto tra pubblico e privato, e la rottura di confini che avevano un ruolo costitutivo e, per dirla con Ida Dominijanni, “auto-immunizzanti”. Pare si possa rintracciare uno dei contributi dei movimenti delle donne nel ridare senso all’espressione.
Questi passaggi hanno innervato la politica di un filo di felicità di cui oggi è più difficile riconoscere il senso e il valore. Che cosa sia la politica e che cosa intendiamo con questo nome non è più cosa che si possa dare per scontata. E la felicità? Che ne è di questa parola e come sta nelle nostre vite? E diventata un’altra parola gadget su cui investe il mercato?
Bocchetti, torno al mio volumetto, consegna un paradosso alle sue ospiti: “nonostante ogni donna sappia che senza la felicità, magari una briciola nascosta nell’angolo del cuore, non si potrebbe non solo vivere, neanche sopravvivere”, nel mondo si parla sempre e solo di infelicità femminile o di oppressione.
Una politica che parte dall’infelicità, che è un po’ la cifra della sinistra secondo Bocchetti, ha il respiro corto e non genera la forza necessaria per produrre un cambiamento all’altezza dei bisogni del mondo e dei desideri di ognuna.
Forse se le donne, praticando un materialismo estremo (oltre ogni sentimentalismo, idealizzazione o discorso edificante), si autorizzassero a parlare di felicità qualcosa potrebbe cambiare, cambiare veramente.
La sfida sembra interessante ma sia Wolf che Rossanda sembrano andare altrove. Fare della felicità un tema troppo apertamente politico, spiega Rossanda (che era una che le sfide le prendeva sul serio), significherebbe legittimare qualcuno a definire la felicità per tutti, e questa è proprio la cosa che non si deve fare.
Naturalmente con la sua proposta Bocchetti cercava di andare da tutt’altra parte, ma Rossanda, una volta di più, nomina la politica per come l’ha vissuta e conosciuta la sua generazione: qualcosa che si fa per gli altri e non per sé, un’organizzazione a cui si partecipa per cambiare la società.
La parola politica che Rossanda propone è libertà. La felicità può essere esperienza di ognuno e di ognuna, qualcosa di rubato all’esistenza, anche desiderato con forza, ma è la libertà che ha bisogno della politica perché esiste solo se riguarda tutti e tutte e per questo bisogna darsi molto da fare, incidere sulla realtà, cercare di cambiarla: “è la ragione per la quale io continuo a fare politica: perché penso che ci sia un’illibertà diffusa e che questa illibertà per le donne sia ancora maggiore. Occorre molto sforzo, molta capacità di costituirsi in soggetto autonomo per dichiararsi libere, per volersi libere, per sentirsi libere” scrive.
La ricerca e la conquista della libertà impongono spesso scelte che non hanno niente a che fare con la felicità. Si può avere voglia della libertà e lottare per essa sentendosi piene di paura, per sé e per gli altri, dice Wolf, ricordando i giorni e le notti delle grandi manifestazioni dell’89 a Berlino in Alexanderplatz.
La felicità dello sfilare insieme agli altri non le risparmiava le notti in bianco, le telefonate alle figlie, l’ansia per la violenza che avrebbe potuto abbattersi sui dimostranti, anche sui più piccoli, i bambini presenti con i loro striscioni. La caduta del muro si fa sentire nelle parole di Rossanda e Wolf – non solo è ancora molto vicina, tutt’e due, per motivi diversi, l’hanno vissuta come qualcosa di personale e di epocale insieme.
Obbligata a dare una definizione di felicità, Christa Wolf cede a questa: “essere viva con ogni fibra del mio corpo, della mia anima e della mia mente: questo è per me felicità”, una sensazione che si manifesta raramente, continua, che non gode della durata ma che si può raccontare come il contorno di alcuni giorni o forse alcuni attimi che hanno conquistato il titolo di indimenticabili.
Nessun legame con la politica, forse con l’agire, con l’agire nel mondo quando funziona senza scissioni, dilemmi e contorsioni : “agire, sentire, pensare, magari contemporaneamente, proprio questa è la felicità”. In una società che si fonda sulla logica dell’utile, prosegue Wolf, come singoli individui bisogna faticare parecchio per cavare un po’ di felicità, così tanto che forse è diventato necessario isolarsi per averne un po’, di soppiatto.
Nessun accenno al capitalismo o alla possibilità di sovvertirlo da parte di questa scrittrice così capace di raccontare figure femminili in conflitto profondo con l’ordine delle cose.
È giusto dire però che il modo in cui Wolf e Rossanda portano altrove la proposta di Bocchetti non ricalca lo schema che un tempo si sarebbe detto maschile, quello che separa il privato dal pubblico o il personale dal politico.
Entrambe sembrano più interessate ad altro, precisamente a non consegnare al loro attento pubblico un’idea consolatoria o troppo facile della felicità.
In qualche modo come la regista che contestava la mia password, ma un po’ meno sbrigative.
Entrambe difendono la felicità proprio evitando di costruire intorno ad essa dei confini precisi, staccandola dai rovesci e dalle ombre che porta con sé.
La felicità attraversa l’esperienza, è una cosa che accade e può accadere tra due persone o tra molte, che può rivelarsi nella solitudine. Sia Wolf che Rossanda sembrano decise a proteggere gli aspetti fragili, “creaturali” dice Wolf, della felicità, a non irrigidirla o farla esistere come qualcosa di troppo solido o evidente, qualcosa da celebrare come un risultato o da costruire interamente con le proprie forze, o direbbe qualcuno, i propri “meriti”.
La felicità, anche quella collettiva, è qualcosa che arriva, lasciando traccia di sé nel ricordo “del sangue che circola più alla svelta” (l’espressione è di Rossanda), nella sensazione condivisa con altri di poter riprendere in mano il destino, come è successo a Rossanda alla fine di una guerra e a Wolf al crollo di un regime – ma anche quelli sono momenti che passano veloci per lasciare il posto alla riflessione, alla preoccupazione.
La felicità non è una condizione, né tanto meno un punto di arrivo o il lieto fine di una storia, è qualcosa che attraversa l’esperienza, ma sia Wolf che Rossanda sono bene attente, una da scrittrice e una da pensatrice, a non farla somigliare a un obiettivo.
Sembra triste e invece è interessante e mi conferma nell’idea che ragionare di felicità abbia una qualche urgenza. Se, come sappiamo, il neoliberismo ha assorbito le critiche dei movimenti anticapitalistici degli anni Settanta, femminismo compreso, inserendo alcuni elementi sovversivi nelle logiche del profitto, forse possiamo provare a sfilarli uno ad uno dall’ingranaggio e riprenderceli.
Già questo, oggi, sarebbe liberatorio. Forse depotenziare, un’idea troppo compatta di felicità, come Rossanda e Wolf invitano a fare, è un buon suggerimento.
Staccare l’idea della felicità da quella di obiettivo, successo, di eccitazione, di godimento a tutti i costi, di risultato, di profitto.
Riportarsi a un’idea leggera e impermanente di felicità, qualcosa che ci sfugge e che tuttavia si riconosce per il particolare stato di grazia, per quel toccarci al di là dei nostri meriti. “Attimi di radianza” li nominava così Silvia Plath, “momenti di essere” Virginia Woolf, anime super inquiete che riuscivano a portare nella scrittura una luce che permetteva loro di combattere contro il buio in cui di tanto in tanto sprofondavano, infelici.
Riportare la felicità nell’ordine del sentire e del percepire, questo sì forse è un fatto che riguarda la politica, una politica che non si sogna di definire la felicità per tutti ma tiene aperto lo spazio della sua pensabilità e fa di tutto perché non diventi privilegio di pochi il solo pensare di potersi sentire anche felici.
Felici non come chi ottiene qualcosa – un riconoscimento, un premio, la vita che voleva – ma come chi ha preservato la sensibiltà per percepire la forza dei momenti pieni di esistenza.
Sandra Burchi
5/9/2024 http://www.ingenere.it
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Foto Credits Unsplash/Karsten Winegeart. Daniel Popper, Transmission. Joshua Tree, California
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