Quel che sarà del futuro dei lavoratori italiani
Chi ha avuto tempo e disponibilità per leggere, anche su questo blog, qualche mio precedente contributo, sul merito delle politiche attuate dalle compagini governative che si sono alternate negli ultimi trent’anni nel nostro Paese, sa bene che sono sempre stato molto critico nei loro confronti; in particolare, per la vera e propria “controriforma” realizzata in tema di legislazione del lavoro.
In questo senso, credo si possa sostenere, senza tema di smentite, che, a partire dal Berlusconi II ( con un separazionista leghista sulla poltrona che fu di Brodolini e Giugni) – senza che ciò, naturalmente, rappresenti un’assoluzione per quanto prodotto nel corso del suo primo mandato – e, continuando, fino all’ex presidente della Lega delle Cooperative, passando attraverso la “ministra piangente”, si sia realizzato, nel nostro Paese, un disegno politico teso a ridurre, con sistematicità e perfida determinazione, quei diritti e quelle tutele che i lavoratori avevano conquistato, con il sostegno delle tre maggiori Confederazioni sindacali, attraverso decenni di lotte.
Si è trattato, in effetti, di un lungo processo rispetto al quale, a onore del vero, eravamo stati in pochi a paventare e denunciare preoccupanti “precedenti”.
Dal c.d. “avviso comune” di Cisl e Uil con Confindustria, sul recepimento della Direttiva Ue in materia di lavoro a tempo determinato, all’accordo separato, del luglio 2001, per il rinnovo contrattuale dei metalmeccanici. Rientrava nella stessa logica, anche il “Patto per l’Italia”, su lavoro, fisco e Mezzogiorno, del luglio 2002, che, in seguito, sarebbe stato contestato anche dagli stessi sottoscrittori (Cisl e Uil).
Successivamente, infatti, è stata varata una lunga serie di provvedimenti tesi, in sostanza, a “demolire” le previgenti normative; fino a quello che può essere considerato l’atto finale: gli otto decreti legislativi che costituiscono il c.d. Job act. di Renzi.
Naturalmente, non deve sfuggire che, il tutto, è stato reso possibile solo grazie alla supina accondiscendenza di Cisl e Uil – nei confronti di Berlusconi prima e Monti poi – e allo sconsiderato stato di “surplace” della Cgil (su esiziale indicazione del Pd); in particolare, ma non solo, nei confronti del governo Monti.
In questo senso, basti pensare, ad esempio, agli interventi in tema di:
- Contratto di lavoro a termine,
- Part-time,
- Appalto e sub-appalto,
- Somministrazione a tempo indeterminato,
- Demansionamento e trasferimenti,
- Contratto a tutele crescenti (che non ha nulla a che vedere con il contratto a tempo indeterminato di vecchia data),
- Licenziamenti individuali (senza più la garanzia della c.d. “giusta causa”) e collettivi,
- Riforma “Fornero”, per le pensioni di anzianità,
per rendersi pienamente conto dell’entità delle numerose contro-riforme che hanno caratterizzato il pesante attacco sferrato, dalle forze padronali, ai diritti dei lavoratori!
È stato in questo contesto che, in sostanza, si è sviluppata la campagna elettorale conclusasi il 4 marzo scorso.
L’esito della stessa ha, in pratica, prodotto il successo di due compagini che – solo in apparenza, a mio avviso – sembravano alquanto lontane dal classico schema della forma “partito”; almeno rispetto a quelli che hanno fatto la storia del nostro Paese.
La Lega, quale forza di carattere “localistico”, con l’aspirazione di assumere una veste di segno definitivamente pluri-regionale, se non proprio nazionale, che, con la gestione Salvini, aveva tentato di liberarsi dell’etichetta di movimento separatista per apparire garante di una politica capace di recepire istanze di carattere universale.
Il Movimento 5 Stelle, quale nuova istanza “di base”, i cui massimi dirigenti amavano, in primis, qualificarsi non appartenenti né alla destra, né alla sinistra e votati, innanzi tutto, a infrangere lo “spirito di corpo” degli eletti alle cariche istituzionali; abolendone i privilegi e le rendite di “casta”!
Sappiamo tutti bene come si è chiusa la partita.
L’Italia può contare su di un Premier che, eufemisticamente e benevolmente, potremmo definire “di rappresentanza” e su due vice che – per usare un termine calcistico molto in voga fino a qualche decennio fa – lo marcano “a uomo”.
Ciò, però, in definitiva, potrebbe anche contare poco e incidere altrettanto, in termini formali, se in quello che è stato, pomposamente, definito “Contratto di governo per il cambiamento”, fossero stati indicati punti di particolare rilievo ed interesse in tema di legislazione e mercato del lavoro.
Purtroppo, al riguardo, da quanto dichiarato da Conte, all’atto della richiesta della fiducia, da parte dei due rami del Parlamento, si evincono poche ma significative cose; tutt’altro che condivisibili.
A cominciare dal reale significato da assegnare alla dichiarazione secondo la quale: “Questo governo si propone di recuperare in forme nuove e più efficaci il dialogo sociale con le varie associazioni rappresentative dei lavoratori e delle imprese”.
Ciò come si concilia con l’intenzione di Di Maio, più volte espressa, circa la necessità di riformare il Sindacato?
Quale senso assegnare, oggi, alla promessa elettorale di procedere all’abrogazione della famigerata legge “Fornero” – vero e proprio “cavallo di battaglia” della Lega – dopo l’assordante silenzio di Conte a tale riguardo?
Quanto toccherà attendere affinché si concretizzi la chimera rappresentata dall’istituzione del c.d. “Reddito di cittadinanza”?
Dalle parole del Premier pare di capire che l’attesa sarà, per lo meno, “non breve”, in quanto il governo si propone, in una prima fase, di riformare e potenziare i Centri per l’Impiego.
Solo successivamente a questo sarà possibile “assicurare un sostegno al reddito a favore delle famiglie più colpite dal disagio socio-economico”; come dire: “Campa cavallo …!”
Naturalmente, così come ampiamente previsto da qualche malpensante (io, tra loro) nella comunicazione di Conte alle Camere non c’è traccia della promessa dei 5S di procedere alla cancellazione del Job-act e alla reintroduzione dell’art. 18 dello Statuto.
Si trattava, quindi, di evidenti “promesse da marinaio!”
Non meno sconfortante, è la presa d’atto che il Presidente del Consiglio, nel corso della sua prolusione – durata ben 75 minuti – non abbia mai accennato a termini quali “scuola”, “cultura” e “istruzione”.
A me spiace, in particolare, per quei milioni di soggetti, tra cui tantissimi lavoratori, che, delusi e amareggiati dalla shoccante esperienza vissuta nel Pd – un partito che ha portato a compimento, in tema di lavoro, tutto quanto di più negativo Berlusconi aveva appena cominciato ad abbozzare e Monti ad avviare – avevano immaginato e voluto fortissimamente credere che, all’interno del M5S sarebbe stato possibile ritrovare un “clima” a loro più favorevole.
Tutto ciò, nonostante i numerosi segnali contrari che, oggettivamente, sul delicato tema delle “agibilità sindacali”, i vertici del M5S avevano, più volte, già trasmesso alla pubblica opinione.
Qualcuno potrebbe ancora, legittimamente, essere dell’idea di aspettare i primi atti di questo governo, prima di esprimere un qualsiasi giudizio di merito.
Personalmente, a valle dei temi che hanno caratterizzato la lunga campagna elettorale, dei motivi di confronto/scontro che hanno contraddistinto i due mesi che hanno preceduto la formalizzazione del “duo” di governo prima e del Premier incaricato dopo(!), nonché della “valutazione” dei singoli ministri – con particolare riferimento a quelli del Lavoro, Interni e Famiglia, per quanto di mio particolare interesse – mi permetto di esprimere la più ampia riserva ed il massimo possibile delle perplessità circa la possibilità che questa modesta compagine governativa possa produrre alcunché di positivo per il futuro del nostro Paese.
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro.
Collaboratore redazionale del periodico cartaceo Lavoro e salute
12/6/2018
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