RECOVERY PLAN. Un recupero piano, lento e povero per arrivare dove serve

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Intorno al Recovery Plan si è andata costruendo una retorica caratterizzata da continui richiami emergenziali intorno alla necessità di non mancare l’”appuntamento con la storia”. Alcuni economisti però (come ad esempio Riccardo Realfonzo) sostengono che le risorse disponibili non saranno sufficienti per innescare una vera ripresa. In ogni caso il percorso di definizione degli obiettivi è stato blindato all’interno dell’area dei “tecnici” di governo. Se ci fermiamo al capitolo salute, quale è la tua valutazione in merito al percorso seguito e alla quantità di risorse dedicate?

Sulla quantità delle risorse dedicate vi erano delle condizioni dettate dagli accordi europei tali da non rendere possibile una inversione sufficiente rispetto, nel caso italiano, al definanziamento dell’ultimo decennio valutato in 37 miliardi. Quanto disponibile (tra i 15 e i 19 miliardi a seconda del raggruppamento dei diversi fondi e prestiti disponibili dentro e fuori il recovery fund). Nessuno si aspettava una bacchetta magica di finanziamenti ma un mirato utilizzo dei fondi disponibili sugli aspetti che la sindemia ha reso evidenti anche ai miopi può costituire un importante cambio di passo, ad esempio, passando dall’ospedalocentrismo ad un ritorno e potenziamento della medicina territoriale.

La discussione sui finanziamenti nel campo della salute, una volta chiuso il capitolo del PNRR, ritornerà presto sull’utilizzo dei fondi dedicati del MES (che sono integralmente “a debito”). Su questo occorre essere chiari, prima di parlare di ulteriori prestiti su un bene comune come la salute/sanità occorre, anche per un intervento non solo di breve termine, ripensare il sistema della fiscalità generale (leggasi giustizia contributiva e lotta alla evasione) e alla discriminazione delle spese dello Stato (leggasi, per esempio, riduzione delle spese militari). Va detto che il percorso utilizzato appare molto simile a quello di una monarchia illuminata.

Non si è voluto il confronto con le realtà sociali per indirizzare e riempire di contenuti il piano ma vi è stata la “furbizia” di introdurre nel piano, sia in termini di obiettivi che di “capitoli” di spesa che riprendevano richieste “dal basso”. Solo una attenta disanima fa emergere, nel caso della sanità ma anche in quello ambientale, formulazioni tali, che saranno svelate solo successivamente, per cui quasi ogni proposta riesce a dirigersi potenzialmente in direzioni opposte. Sull’ambiente basti pensare alla questione dell’idrogeno che non viene volutamente ben focalizzato (blu, grigio o verde) o anche ad affermazioni che collidono tra loro.

Per esempio, per necessità, si pone particolare attenzione alle iniziative di riduzione degli impatti ambientali delle attività industriali ed umane, ma dall’altro vi è un “menù” di proposte che non va in quella direzione accompagnate da una proposta di “riforma” di norme di tutela, come quelle sulla valutazione di impatto ambientale, al fine di “velocizzare e semplificare” anziché rendere maggiormente efficaci e in linea con lo scopo per cui sono state introdotte, che è la tutela dell’ambiente e della salute delle popolazioni, non un mero passaggio burocratico tra il progetto di una “grande” opera e la sua realizzazione. In sintesi, se pensiamo al rapporto tra entità del finanziamento, le “missions” e le relative articolazioni siamo spesso davanti a un libro dei sogni ma in qualche caso con incubi inclusi.

Mentre si evoca il Recovery, a volte quasi come un feticcio, l’emergenza sanitaria ha finito per accelerare il processo di liberalizzazione e finanziarizzazione del welfare pubblico. Chi ha pensato a una maggiore coscienza politica verso un ruolo insostituibile dello Stato in settori nevralgici come sanità ed istruzione si deve ricredere. Qual’è la tua valutazione di questo “abbaglio”, in che modalità si ripresenta il (nostro) Stato oggi?

E’ un abbaglio che ha scavato in profondità fino ad arrivare ai sindacati tramite la sottoscrizione, nei contratti nazionali, di accordi per il “welfare aziendale” sotto forma di prestazioni sanitarie conformate in modo tale che spingono verso prestazioni erogate da soggetti privati. Si è deviato da un sistema di rimborso di prestazioni a quello in cui si indirizza il lavoratore verso determinati erogatori di prestazioni. Negli anni ’70 il sindacato era in prima fila per superare un sistema diseguale basato su mutue e assicurazioni per un servizio sanitario universalistico, gratuito (fiscalità generale), basato sulla prevenzione e la partecipazione, oggi tiene cordone a pratiche che vanno esplicitamente nella direzione opposta. E appare, se non in alcune sue parti critiche, monoliticamente a difesa di questo approccio e impermeabile alle sollecitazioni che vengono da più parti.

Questo “abbaglio” è stato coscientemente perseguito quasi subito dopo la riforma del 1978 impedendone la piena attuazione e smantellando via via quanto di buono si è riuscito a fare, quando Giorgetti, per esempio, ha dichiarato bellamente che i medici di famiglia non servivano più e il paziente poteva avere più agevolmente un consulto telematico ha espresso un concetto oramai silentemente accolto (ricevendo ben poche obiezioni). Vi è stata una sorta di “mitridatizzazione” della opinione pubblica.

Ma anche nei “particolari” le vicende non sono andate per il meglio, per esempio le malattie professionali anziché essere riconosciute dalle USSL/ASL come previsto, sono riconosciute dallo stesso ente assicuratore che poi dovrà pagare le rendite, ovvero l’INAIL, un conflitto di interesse grande come un palazzo.

Questo abbaglio quasi generale è costato un numero di decessi aggiuntivi (si veda in particolare la Lombardia, esemplare di privatizzazione e ospedalocentrismo) non solo per l’impreparazione (generalizzata vista l’inesistenza di un piano pandemico degno di questo nome) ma per una risposta alla pandemia che ha fatto delle strutture sanitarie i principali focolai di diffusione nella prima fase arrivando poi, nonostante queste evidenze, ad essere ancora insufficientemente preparata nella “seconda ondata”. Il PNRR non esclude (nessuna valutazione del rapporto pubblico-privato) e quindi consente senza alcuna limitazione l’azione privata che non attende altro che buttarsi sul “tesoro” a breve disponibile. La vicenda Covid-19 non sembra aver costituito una lezione adeguata oltre la retorica iniziale nei confronti degli operatori sanitari pubblici accompagnata, come nel caso sempre della Lombardia, dal ringraziamento ai privati “che hanno aperto le loro stanze per i ricchi anche ai poveri” .

Veniamo al merito. Per quanto ti è dato di conoscere, che valutazione dai degli assi di intervento governativi relativi alla salute nel Recovery? C’è, secondo te, l’intenzione di uscire da una logica di gestione in cui anche nel pubblico bisogna obbedire a metodologie orientate al risultato economico piuttosto che a reali obiettivi di salute?

Le diverse versioni del PNRR che si sono succedute si presentano, sul tema della salute, in modo suadente almeno ai nostri occhi : si parla di ritorno/incremento della medicina territoriale mediante le “case di comunità”, la domiciliarizzazione della cura per anziani e disabili (medicina di prossimità) fino ad arrivare ad accennare a norme in cui far “parlare” di nuovo le istituzioni sul tema dell’ambiente (ministeri della sanità e dell’ambiente), improvvidamente separate dal referendum del 1992 (referendum che ha “spacchettato” le competenze ambientali delle allora USSL al sistema attuale delle Arpa).

Sono temi che richiamano parole d’ordine costanti nella nostra storia quali le “case della salute” nella elaborazione di Maccacaro prima ancora della riforma sanitaria del 1978, di deistituzionalizzazione della cura con un approccio che appare più vicino a quello olistico che considera la persona nel suo intero percorso di vita (di lavoro e di ambito residenziale e ambientale) anziché quello della “riparazione” dell’organo malato per il rientro nella “attività” produttiva e sociale. Un approccio che vedeva nella partecipazione delle realtà locali un momento di proposta e di controllo democratico in grado di evitare derive tecniciste ed autoritarie con finalità, come oggi, del pareggio di bilancio e la soddisfazione del padrino politico del direttore generale di turno.

Ma se i “titoli” delle iniziative che si intendono finanziare con i fondi del recovery fund apparentemente accolgono proposte che sono arrivate anche da noi, il dietro le quinte appare ben diverso soprattutto leggendo tra le righe attentamente anche dichiarazioni al di fuori del PNNR.

Un primo segnale di allarme o perlomeno di inadeguatezza è elencare delle azioni senza “dichiarare” il contesto in cui si pongono, non si parla del rapporto pubblico-privato per la sanità e tra le tante mirabolanti riforme annunciate nel piano manca una “riforma della controriforma” degli ultimi decenni di smontaggio della L 833/1978. Senza una chiara inversione di tendenza ed un ritorno a quei principi, certo da attualizzare e rendere anche più agevoli con la telemedicina e le altre innovazioni tecnologiche, si rischia solo di riproporre l’attualità estendendo i terreni di caccia del privato (dalle RSA; per esempio, alla assistenza domiciliare) e quindi non permettendo un approccio olistico alla salute ma – al più – qualche aggiustamento sulla efficienza delle cure (non necessariamente per tutti). In tale direzione la palese contraddizione, particolarmente bruciante nella sanità, tra la dichiarazione di voler “superare i divari territoriali” espressa nel Piano e la conferma e ripresa, nel DEF, delle iniziative legislative di “autonomia differenziata” palesemente opposta. Solo se il SSN riuscirà a parlare con una “unica voce” (i livelli essenziali di assistenza ma anche un quadro normativo unitario) potrà tornare a garantire un accesso universale ed equo superando le sempre più evidenti e ampie differenze di accesso alle cure (per non parlare della prevenzione abbandonata e trasfigurata in qualche screening di massa, quindi, al più predittiva, di diagnosi precoce).

Negli scorsi mesi, in piena pandemia, Medicina Democratica ha iniziato un percorso partecipato di riflessione ed elaborazione intorno alla necessità di riformare il sistema sanitario nel nostro Paese. Ci vuoi descrivere quell’esperienza, che ancora una volta fa tesoro del lascito di Maccacaro e cerca di tradurlo in questa nostra epoca ad un tempo critica e rivelatrice?

Il percorso è iniziato nelle prime settimane della “fase 1”, ci siamo sentiti responsabili, per la nostra storia di movimento e l’elaborazione accumulata dal 1976 sui temi della salute quale bene primario di farci carico di inviare un messaggio e raccogliere le forze per ragionare per il “post covid” a partire dal rilancio della prevenzione ovvero a tutte quegli interventi che individuano nei determinanti (lavoro, ambiente, condizioni di vita) i fattori di “produzione” di salute in contrasto con quei fattori patogeni connessi con l’approccio produttivistico e di profitto del capitalismo.

Mettere a disposizione questa visione a quelle realtà che già agivano, direttamente o indirettamente, sui temi della salute (comitati, sindacati, associazioni) ma “specializzate” su temi particolari per ricondurle a una condivisione di un progetto che si è concretizzato con il “Manifesto la salute non è una merce, la sanità non è una azienda” (giugno 2020) del Coordinamento per il diritto alla salute-campagna Dico 32 che ha esteso e approfondito un approccio e degli obiettivi che erano in buona parte già proposti in particolare con la “carta di Bologna del 2014 e la campagna Dico32 del 2018. Il passo successivo è stato condividere i nostri temi e obiettivi con il più ampio movimento della “Società della cura” con le iniziative partite il 21 novembre 2020 e a seguire quelle successive e quelle in corso sia a livello locale e nazionale (tra queste ultime ricordo quelle del 7 aprile 2021 ove la giornata europea contro la commercializzazione della salute ha assunto ulteriori valenze a partire dal ri-lancio della campagna per la moratoria sui vaccini). In queste fasi Medicina Democratica è riuscita ad essere un punto di riferimento anche quotidiano (si veda per esempio l’Osservatorio Coronavirus condotto da Vittorio Agnoletto su Radio Popolare e i “manuali” per la sicurezza dei lavoratori a seguito dei protocolli tra le parti sociali per la “ripresa” produttiva).

La condivisione sui temi della salute e della “riforma della controriforma” della L 833/1978 che riteniamo il punto di riferimento da attualizzare per contrastare la deriva ospedalocentrica, l’abbandono della medicina territoriale, la “monarchizzazione” delle ASL, hanno trovato ascolto in molte altre realtà già sensibili a questi temi ma isolate, individuando nell’approccio neoliberista, ove il pubblico è stato indebolito dal definanziamento del SSN, da una “autonomia differenziata” già operativa da anni sulla sanità, dalle regole del profitto applicate alle attività di cura che producono una “salute di classe” ove il reddito è decisivo per la aspettativa e la qualità della vita.

In questo percorso siamo arrivati alla iniziativa europea per la moratoria sui brevetti dei vaccini, all’esame critico del PNRR, alla diffusione e sostegno di vertenze locali autoorganizzate per il miglioramento e l’estensione dei servizi, per una revisione radicale delle norme (ad esempio la “riforma Maroni” del 2015 in Lombardia) e il cammino continua.

La campagna noprofitonpandemic.eu/it (a cui MD partecipa) per dare vaccini e cure gratuite a tutte e tutti ha il merito di rendere evidente la dialettica perversa tra profitto e salute. Il cortocircuito plurimo tra scienza, politica ed economia delle scorse settimane ha forse distolto in parte l’attenzione delle persone, peraltro passivizzate da tempo, dal tema centrale della campagna. Quali passi si potrebbero fare, secondo te, per generalizzare ulteriormente l’ICE anche in vista del Vertice Mondiale della Salute del 21 maggio e, più in generale, per ricostruire soggettività politica consapevole?

La campagna, che mira a raccogliere oltre 1 milione di firme in tutta Europa, potrà porre la questione dei farmaci come beni comuni all’attenzione dei nostri rappresentanti nel Parlamento Europeo ma soprattutto accendere un faro ai danni che la privatizzazione della sanità produce ovunque. I vaccini anticovid rappresentano una situazione emblematica confermando i “precedenti” con esiti opposti : la poliomelite è stata eradicata nel mondo grazie alla rinuncia della brevettazione del vaccino Salk; per le cure per l’HIV, inizialmente con costi proibitivi per i paesi poveri, dopo l’intervento di Stati come il Sudafrica sono stati rimessi in discussione le “regole ferree” del commercio mondiale ottenendo risultati significativi per tutti. Non a caso anche oggi il Sudafrica è alla testa dei paesi che chiedono una moratoria sui brevetti dei vaccini anti-covid , lautamente finanziati direttamente dall’Europa e dagli USA, indirettamente sostenuti con l’utilizzo della ricerca di base pubblica e con una mercato garantito anche dalla riduzione dei tempi per l’autorizzazione all’utilizzo a fronte di una necessità mondiale e quindi necessari ovunque nell’interesse di i tutti (nessuno si salva da solo). La campagna ha già avuto un successo, oltre all’andamento delle sottoscrizioni, con le incrinature del fronte liberista dei paesi avanzati, inizialmente schierato a “garantire” gli interessi e i profitti (che non verrebbero comunque messi in discussione) delle grandi case farmaceutiche.

Tale obiettivo è ancora più importante considerata la prospettiva di un possibile passaggio da pandemia a endemia e quindi a ripetuti e periodiche necessità (od opportunità) di vaccinazione per le varianti del virus. Saremo presenti il 21 maggio a Roma con le altre associazioni per ricordarlo ai capi di Stato e ampliare il fronte di chi pretende che le criticità mondiali, sanitarie e ambientali, siano il vero tema di discussione a tutti i livelli.

Alberto Deambrogio

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

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