Reddito di inclusione: il governo dei poveri, altro che lotta alla povertà
I numeri sono impietosi. Contro la povertà il governo Gentiloni ha stanziato 1,2 miliardi di euro per il 2017 e 1,7 per il 2018. Per istituire un sussidio strutturale contro la «povertà assoluta» che in Italia colpisce 4,6 milioni di persone sarebbero necessari 7 miliardi. All’anno. Questo elemento è stato trascurato nell’analisi del documento di economia e finanza (Def), forse a causa del clima pasquale. Se a questo si aggiunge la lettura del «memorandum» siglato dal governo con l’«Alleanza contro la povertà» – il cartello di associazioni e sindacati che sostengono l’istituzione del «reddito per l’inclusione sociale» – c’è poco da festeggiare. Il testo chiarisce che «nel decreto attuativo non sarà possibile definire i tempi della progressione graduale verso una misura pienamente universale, per necessità legate all’esigenza di reperire le adeguate coperture finanziarie» Il compito di reperirle è lasciato al governo. Troppo poco, considerate le arcigne esigenze dell’austerità del bilancio e le necessità di tappare i buchi creati dalla dissennata politica renziana dei bonus volti a gonfiare i consumi. Costo: 21 miliardi.
Risultato: i consumi non aumentano, la povertà resta «stabile», cresce la «deprivazione materiale» in cui vivono l’11,9% delle famiglie, 7 milioni e 209 mila persone censite dall’Istat. alle commissioni Bilancio di Camera e Senato, ieri Roberto Morducci, dirigente dell’Istat, ha sostenuto che l’indice è peggiorato tra il 2015 e il 2016 tra gli anziani over 65 e nelle famiglie con disoccupati. Nel 2016 i minori che risultavano in condizione di «grave deprivazione» sono 1 milione e 250 mila (il 12,3% della popolazione). A sud l’indice del disagio economico è triplo rispetto alla media nazionale nelle famiglie con un solo genitore. E non accenna a diminuire la disoccupazione e l’inattività tra i giovani. Tra i pochi che riescono a trovare un lavoro (precario), il 41,9% lo deve alla rete degli amici e conoscenti, non al faraonico e illusorio sistema prefigurato dal Jobs Act e incentrato sull’agenzia nazionale delle politiche attive (Anpal) ancora fermo ai blocchi di partenza, fautrice tra l’altro di un discutibile sistema di «workfare» per di più limitato dalle competenze concorrenti tra Stato e regioni.
In questa situazione si fa ancora il discorso sulla «politica dei due tempi»: un classico italiano da 20 anni a questa parte. Prima la si è fatta sulla precarizzazione del lavoro, rinviando sine die l’istituzione di moderne tutele per i periodi senza reddito. Oggi la si ripete sulla povertà. Con lentezza il governo è arrivato a provvedimenti «storici», ma nei fatti ha escluso la promessa di renderla «universale», rinviando l’aumento delle risorse e l’ampiamento della platea a un dopo che non arriverà. Nel 2018 ci saranno le elezioni politiche. E poi si ripartirà con un altro governo. La creazione di un reddito almeno «minimo» è lontanissima. Con la Grecia, l’Italia è l’unico paese Ue a non averlo. Costo: tra 14 e 21 miliardi all’anno.
Tra i pochi a denunciare l’inadeguatezza delle risorse, e la loro incertezza nel futuro, ci sono gli oppositori interni ed esterni a Renzi. Francesco Laforgia, capogruppo degli scissionisti Mdp dal Pd, invita a superare l’approccio «compassionevole» da stato conservatore liberale e a stanziare subito risorse anche più ampie dei 7 miliardi. Il candidato alle primarie, e governatore della Puglia, Michele Emiliano sostiene che Gentiloni vada nella direzione giusta «ma molti poveri ne sono rimasti esclusi perché le risorse messe a disposizione non sono sufficienti». E ricorda di avere fatto modificare in Puglia i criteri Isee (inferiore ai 3 mila euro) troppo selettivi e l’importo inadeguato di quello che, in maniera infondata, definisce «reddito di dignità» (uno scippo lessicale a «Libera» di Don Ciotti, e nulla di più). Una modifica auspicata nel memoradum con il governo che intende superare l’uso esclusivo dell’Isee per accedere al reddito di inclusione ed evitare di imprigionare gli esclusi nella «trappola della povertà».
Al netto delle molteplici partite elettorali che si stanno giocando sulle spalle dei poveri – le primarie del Pd e le elezioni politiche nel 2018 – l’approccio resta unico. Si confonde il governo neoliberale dei poveri con il contrasto alle povertà. E si vincola il reddito all’accettazione di un lavoro purchessia da parte del soggetto. Si ritiene, da tutte le parti, che il riconoscimento di un reddito come misura universale a tutela della persona e della forza lavoro che essa esprime, sia una “misura assistenzialistica” se non accompagnata dall’obbligo di accettare un lavoro qualsiasi. Dunque, non una misura universale, ma condizionata all’obbligo di rispettare i parametri della burocrazia. Lo scenario è I, Daniel Blake – il film di Ken Loach – non quello della liberazi one dal ricatto.
Roberto Ciccarelli
20/4/2017 https://ilmanifesto.it
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