Referendum, un no per la democrazia

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«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»: un quesito chiaramente ammiccante, ovvero ingannevole, chiude il percorso di una riforma costituzionale che nelle sue forme stravolge il senso di ciò che è una revisione della Costituzione e nel suo contenuto concentra il potere nell’esecutivo depotenziando i contrappesi. Ad essere violata è l’essenza della Costituzione come patto sociale di tutti i cittadini e come strumento di limitazione del potere.

Molte sono le ragioni del “no” alla riforma, dalle forzature procedurali, alla ratiocomplessiva, alle falsità che l’accompagnano, alle specifiche incongruenze, contraddizioni, pasticci, complicazioni e confusioni (emblematica è la «semplificazione complicante», come l’ha definita Lorenza Carlassare, del procedimento legislativo).

Qui si vuole insistere su un “no” che muove da una lettura della riforma come disegno organico nel nome della verticalizzazione del potere, inserito in un processo più ampio di smantellamento della democrazia politica e sociale e di progressivo abbandono dell’orizzonte della Costituzione, in coerenza con la crescente pervasività della global economic governance.

La riforma interviene a suggellare a livello costituzionale il processo di degenerazione della democrazia che si può datare dagli anni Ottanta. È un attacco alla democrazia ad ampio spettro, che investe la democrazia politica, così come quella sociale, chiudendo spazi politici e liquidando il progetto di emancipazione sociale attraverso la feudalizzazione dei rapporti di lavoro, la dismissione e privatizzazione dei servizi sociali, l’aziendalizzazione dell’istruzione, spezzando il disegno armonico della Costituzione con l’introduzione del principio di pareggio di bilancio. La riforma costituzionale, cioè, completa, sul piano istituzionale, la concretezza di condizioni di lavoro sempre più servili e di servizi sociali sempre più assenti, accompagnando l’esclusione politica all’esclusione sociale, la verticalizzazione nel mondo del lavoro con la verticalizzazione nella sfera politica, assecondando le richieste della governance finanzcapitalista (Gallino) di risolvere il “problema” degli «esecutivi deboli» (J.P. Morgan).

Il mantra della governabilità travolge gli argini costituzionali che presidiano la concentrazione del potere. Non è vero, come il Presidente del Consiglio avrebbe voluto far emergere dal suo dibattuto con Gustavo Zagrebelsky, che non esistono norme che attribuiscono poteri al Presidente del Consiglio: tutto il testo della riforma mira a rafforzarlo, solo che agisce in maniera surrettizia, concentrando poteri nell’esecutivo attraverso il depotenziamento dei possibili contrappesi.

La revisione riguarda oltre 1/3 della Costituzione, toccando il Senato (composizione e funzioni); il rapporto Governo-Parlamento; il procedimento legislativo; i rapporti Stato-enti territoriali (Regioni e Province); gli organi di garanzia (Corte costituzionale, Presidente della Repubblica); lo statuto delle opposizioni parlamentari; la democrazia diretta; il CNEL.

Qui ci si limita a tre esempi, che intervengono su aspetti meno noti rispetto alle questioni inerenti il Senato, il procedimento legislativo e il Titolo V, ma che costituiscono elementi fondamentali per la limitazione del potere.

Il Presidente della Repubblica. Dal settimo scrutinio, per eleggere il Presidente della Repubblica la riforma prevede la maggioranza dei 3/5 dei votanti: è possibile, cioè, che esso sia eletto da soli 220 dei 730 membri del Parlamento in seduta comune. La maggioranza, tanto più nella vigenza di un sistema elettorale nettamente (e illegittimamente) sbilanciato in senso maggioritario come l’Italicum, elegge il suoPresidente, che perde, dunque, il ruolo di garanzia, con un effetto a cascata sull’esercizio di tutti i suoi poteri (dalla nomina dei giudici della Corte costituzionale, alla ratifica dei trattati internazionali – che, per inciso, sono autorizzati dalla sola Camera dei deputati –, alla promulgazione delle leggi, al compito di presiedere il Consiglio superiore della magistratura).

Lo statuto delle opposizioni. Elemento imprescindibile per l’esistenza della democrazia è il riconoscimento del pluralismo e del conflitto, a livello sociale, così come politico e parlamentare. Fondamentale è dunque la presenza di meccanismi e istituti che garantiscano spazi e funzioni alle opposizioni, tanto più se si è in presenza di sistemi elettorali fortemente selettivi (come insegna il Regno Unito con il riconoscimento delloShadow Cabinet). Le minoranze possono giocare un ruolo rilevante come contrappeso, limitando e bilanciando il potere; nel testo della riforma sono nominati sia lo statuto delle opposizioni sia i diritti delle minoranze, ma si tratta di una norma slogan, completamente vuota: si limita a rinviare a future modifiche dei regolamenti parlamentari. Sarà la maggioranza (o minoranza, in caso di intervento del premio di maggioranza ex Italicum) a disegnare i diritti dei propri oppositori politici!

La partecipazione diretta. La democrazia diretta nella democrazia dei moderni ha una funzione integrativa rispetto al circuito politico-rappresentativo, ma è uno strumento utile a bilanciare la stabilità dell’esecutivo, come insegna l’esperienza svizzera, e gioca un ruolo importante nel mantenere viva la democrazia. L’essenza della democrazia sta nella partecipazione, che si esercita nelle forme della rappresentanza, ma anche in quelle della democrazia dal basso, nelle rivendicazioni dei movimenti, nelle varie forme di auto-organizzazione, fra le quali quelle che possono darsi in occasione dell’utilizzo degli strumenti classici di democrazia diretta, quale la legge di iniziativa popolare e il referendum. La riforma costituzionale innalza il numero di firme necessarie per presentare una proposta di legge d’iniziativa popolare, portandolo da 50.000 a 150.000, e rinvia la disciplina che dovrebbe garantire l’esame di tali leggi (oggi sostanzialmente ignorate) a future modifiche dei regolamenti parlamentari: dunque, in concreto, solo maggiori difficoltà per la presentazione di una proposta di legge. Sempre inesistente allo stato (si rinvia ad una legge costituzionale), è la previsione di referendum propositivi e di indirizzo e altre forme di consultazioni: un contrappeso mancato, un mero slogan. Quanto al referendum abrogativo, i quorum richiesti per l’approvazione variano in relazione al numero di firme raccolte: con 500.000 firme occorre la maggioranza degli aventi diritto al voto, con 800.000 firme è sufficiente la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera. Una via facile e una via difficile che facilmente discriminano i referendum promossi dal basso, senza il supporto di partiti o organizzazioni preesistenti.

In conclusione: non si nomina il Presidente del Consiglio – come si anticipava – ma il fil rouge che percorre la riforma è proprio il suo rafforzamento, ovvero la torsione in senso autoritario della democrazia politica, l’abbandono della limitazione del potere, che del costituzionalismo, insieme alla garanzia dei diritti, costituisce il cardine; una riforma funzionale alla volontà delle élites economico-finanziarie di espellere dallo spazio politico, visioni, progetti e rivendicazioni sociali alternative rispetto al modello neoliberista.

Lo scontro allora è fra due visioni del mondo: da un lato, un modello fondato sulla competitività escludente della razionalità neoliberista, che richiede un decisionismo funzionale in ultima istanza al perseguimento del massimo profitto (per pochi, ça va sans dire); dall’altro, un progetto di emancipazione sociale, con una struttura fondata sulla partecipazione e la limitazione del potere.

Alessandra Algostino

3/11/2016 http://sbilanciamoci.info

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