Repubblica del drago?

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Vi è una tendenza in corso nella nostra democrazia che sempre meno viene denunciata: la tendenza ad accentrare i poteri, il taglio della rappresentanza parlamentare, scavalcare le Camere, passare dalle leggi ai decreti leggi e ai Dpcm.
È una tendenza pericolosissima che la pandemia ha accelerato voracemente. Oggi bisognerebbe parlare di questo, senza fare tanti paragoni con altri fenomeni del passato e del recente presente.

In Italia siamo da trent’anni in “emergenza”, dagli inizi del 1990 fino ad oggi con governi politici debolissimi che si succedono senza risolvere i problemi. Le emergenze sono state molteplici in questi anni: periodo stragista, speculazione finanziaria di George Soros del 1992 sulla Lira, entrata nell’Euro, svalutazione della lira, allarme “terrorismo”, guerra in Afghanistan, crisi finanziaria del 2008, bolla immobiliare, crisi dei derivati e crescita del debito pubblico.

Solo dieci anni dopo ci si è accorti che, con la moneta unica e l’impossibilità degli Stati di emettere moneta, con il meccanismo dei titoli di Stato, il debito pubblico degli Stati europei aumentata. 
Oggi l’emergenza è il Covid, con tutto ciò che ne deriva, anche politiche autoritarie e accentratrici. 

Ci hanno fatto credere che la politica è inconcludente ed è in questo frangente che sono nati i governi “da fuori”, ovvero i governi tecnici, come Monti e Draghi, e i governi voluti dal Presidente della Repubblica, come Renzi.
I governi, che fino ad oggi, sono stati definito “tecnici” sono sempre stati spacciati per governi “neutri” che erano necessari in quel determinato periodo “per il nostro bene”, “per sistemare le cose”, “per riparare ai danni degli altri governi”.

Ci è stata tramandata l’idea che fossero più efficaci dei politici perché, se i politici prendono decisioni ed amministrano rifacendosi anche vagamente alle loro idee politiche, i tecnici sono degli “specialisti”, dei conoscitori del sistema e conoscono gli obiettivi, i mezzi, gli strumenti e le misure più efficaci per agevolare il funzionamento del sistema. Il fine è il sistema deve “funzionare al meglio”. 
È proprio quest’ultima espressione che ci deve spaventare: “funzionare al meglio”. É la logica della Società della Tecnica: impiego minimo dei mezzi per il massimo degli scopi. 

Ma quale sistema deve funzionare al meglio? Ma quali scopi si devono raggiungere? Di quale tecnica stiamo parlando? Già queste domande mettono in crisi, in qualche modo, la presunta “neutralità” dei “governi tecnici”, i quali, fino ad ora in Italia, sono stati tutt’altro che neutrali.

Come ha dichiarato l’economista Giulio Sapelli, i governi tecnici mettono in pratica quelle “quattro regole dell’economia neoclassica e monetarista” senza sapere nulla della teoria economica. Essi hanno visto l’inflazione (cosa che solo un traumatizzato della Repubblica di Weimar potrebbe), il debito e lo spread come problemi assoluti, senza aprire la possibilità ad altri tipi di gestione economica e senza preoccuparsi della deflazione, del crollo dei prezzi, delle assurde tasse sui salari, della crisi sociale, ma anzi hanno aggravato le politiche d’austerità, i tagli al welfare state e alla prevenzione sociale. Per non parlare poi in ambito ambientale che sono stati una catastrofe. 

A questo punto sorge una domanda spontanea: cosa hanno di diverso i governi tecnici di oggi dai governi politici di prima se pratica-mente portano avanti, a grandi linee, la stessa agenda neoliberista? 

Una differenza c’è: i “governi tecnici” sono meri esecutori delle funzioni del sistema. Ma di quale sistema? Che sistema è quello che ci taglia la sanità, la privatizza, taglia le pensioni, continua a devastare l’ambiente e riduce sempre piu’ i diritti sul lavoro perché “i conti devono quadrare” o “perché ce lo chiede l’Europa”? 

È il sistema capitalistico nel suo modello di produzione, di sviluppo, di consumo e di auto-garanzia all’interno delle istituzioni che si occupano di legiferare in tal senso. In questo sistema economico, i “governi tecnici” sono coloro che supportano l’immediata esecutibilità di leggi, norme e disposizioni a favore del capitale finanziario, industriale e, oggi, anche digitale. 

Quindi, arrivando al nocciolo della domanda che mi sono posto e a cui, marzullianamente, rispondo: se i governi politici della Seconda Repubblica (Amato, D’Alema, Prodi, Berlusconi, Renzi) hanno portato avanti un’agenda neoliberista, i governi tecnici (Monti, Letta, Gentiloni, Draghi) sono “neoliberisti migliori”. Forse proprio per questo si è dato l’appellativo al Governo Draghi di “governo dei migliori”. 
“Migliore” nel senso piu’ tecnico del termine: minimo dei mezzi, massimo degli scopi. 

Il passaggio da democrazia liberale a tecnocrazia, come forma di sistemi politici, è paradossalmente il compimento della società neoliberale nel suo insieme e permette di sbarazzarsi totalmente del mezzo che era stato pensato per frenare la pervasione degli interessi diretti del sistema: il ruolo di mediazione istituzionale che spetta alla politica.  Nonostante i nostri precedenti governi politici fossero già chini al neoliberismo, e stavano già mettendo in crisi il modo di fare politica come l’hanno conosciuto i nostri nonni nella Prima Repubblica, hanno continuato a possedere quella mediazione politica che i governi tecnici stanno cancellando.

Nei “governi tecnici” il fine è il dominio della sfera economica su quella politica. Se proprio ci dà fastidio questa espressione possiamo dire che i “governi tecnici” stanno spogliando la funzione della politica declassandola, da attività che si occupa di prendere scelte vincolanti per la collettività, a mera esecuzione di decisioni che per decidere guardano all’economia e alle risorse tecniche a cui l’economia attinge. I governi tecnici stanno alterando subdolamente il significato simbolico e semiotico della politica, in favore di un modus operandi al servizio del capitale e la distruzione totale della politica stessa. 

Sarà proprio questo a portare gli economisti keynesiani a dire “ciò che contestiamo è che questi siano tecnici”. D’altronde di tecniche economiche ce ne sono molte, ma questi sono i tecnici della “tecnica neoliberista”, l’ideologia e la gestione su cui si fonda l’attuale mercato e il capitalismo globalizzato.
Nel frattempo, nelle istituzioni democratiche sparisce la politica e regna lo specialismo da apparato tecnico che, però, non ha nulla di neutrale se non la perpetuazione di un sistema. Vedasi la legge Fornero, che ci è stata spacciata per anni come “legge indispensabile”: ma indispensabile per chi?

A livello istituzionale in Italia, tutti i governi tecnici si sono imposti per volere del Presidente della Repubblica con una maggioranza a “large intense”, chiamati infatti “Governi del Presidente”. 
Si tratta di un presidenzialismo surrettizio di cui non si vuole parlare, di cui non si vuole aprire un dibattito. Una crisi che, come ha detto giustamente Cacciari, è istituzionale, politica e democratica che non si vuole vedere. All’apice di questa crisi, adesso, si vuole proporre Mario Draghi come Presidente della Repubblica, ma c’è qualcuno che va oltre. 
“Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il Presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole” – con queste parole, Giancarlo Giorgetti, Ministro dello Sviluppo Economico ed esponente di spicco della Lega, propone che Mario Draghi possa guidare la Presidenza della Repubblica, mantenendo la guida del governo. 

Una proposta, quella di semipresidenzialismo, che ha scandalizzato anche qualche rimasuglio di sinistra in Parlamento come Articolo 1, che ha dichiarato che il “Semipresidenzialismo di fatto è un’idea pericolosa”. Mentre una forza neoliberale come il Partito Democratico l’ha definita una proposta “surreale”. 

Si tratta di una grave presa di posizione che stravolge il nostro costituzionalismo dal momento che la nostra Costituzione, oltre a non prevedere alcun presidenzialismo, prevede il Presidente della Repubblica esclusivamente come una figura superpartes e non di rappresentanza.
Credo che questa proposta sia l’apice di una democrazia che continua a definirsi tale ma che de facto non lo è: un grave accentramento dei poteri e un grave delitto della Costituzione, quella su cui la nostra classe dirigente giura da anni. 

Come fare fronte a questo? Innanzitutto cercare di capire come funzionano questi processi. Continuano a dirci che la tecnica e la scienza “non sono democratiche”, ma è proprio questo il problema. C’è la necessità di una cultura che torni ad essere nuovamenteolistica, interdisciplinare e che sia capace di esercitare un controllo critico sulle cose che lo specialismo cerca di farci ingurgitare.

Questo appaltare le decisioni politiche ai tecnici, veicolati da interessi e da deformazioni professionali che hanno una funzione politica all’interno delle istituzioni in cui si trovano ad agire, porta ad un grave rischio: l’impossibilità di criticare le loro scelte in quanto “specialisti” e l’impossibilità di criticare lo stato di cose esistente considerato immutabile e, soprattutto, “naturale”.

Così si forgia l’individuo neoliberale obbediente e soprattutto che crede di essere libero nell’“eterno presente” della surmodernità. Un mondo fatto di specialismi settari e univoci sarà un mondo invivibile fatto di delegittimazioni, di emarginazione dal dibattito, di assenza di dissenso e di liceità del dubbio senza immaginari a cui puntare, senza idee. Tutti in balia degli eventi.

Il concetto classico di democrazia, che siamo stati abituati a conoscere, si sta rapidamente sfaldando perché siamo quotidianamente martellati da un sistema mediatico ed una “industria culturale” che guida le nostre scelte e altera le nostre opinioni, anche con l’aiuto dei social. 

Mai questo è stato così diretto ed evidente come nel periodo del Covid. La politica dovrebbe tornare ad essere tale, sopra gli specialismi e non solo buona amministrazione. “La governance è la morte della politica” ha detto l’antropologo Marco Aime durante la presentazione del suo libro “Comunità”. La politica è soprattutto visione di mondo e immaginazione.

Oggi la politica sparisce da qualunque spazio pubblico, mentre i social e i dibattiti pullulano di sofismi, impressioni retoriche, sensazionalismi e falsi sillogismi che, come diceva Socrate, nuocciono alla democrazia. Tra i falsi sillogismi vi è anche l’idea che questi sono l’unico mondo e l’unica economia possibili. Oggi si è liberi di dire che su certi argomenti è inutile il dibattito, che è inutile scovare le implicazioni più profonde, ma si è solamente liberi di crederlo. Una democrazia che si basa su certezze sta già sancendo la sua fine, e con Draghi sembra proprio che la fede nei competenti sia più alta di qualsiasi desiderio democratico.

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale del mensile Lavoro e Salute

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