Restaurazione liberista e criminalizzazione della povertà
L’Osservatorio pensioni dell’Inps il 30 marzo ha reso noto che il 76,5% delle donne percepisce meno di 750 euro al mese, collocandosi così al di sotto della soglia di povertà, in compagnia di oltre 11 milioni di pensionati, ovvero 6 su 10. Nel 26% dei casi, rimanendo sotto i 500 euro al mese, la pensione è al di sotto del livello di povertà assoluta. Sono i brillanti risultati della riforma Fornero, passati con un supporto bipartisan in parlamento e senza suscitare significative proteste da parte delle stesse forze sindacali. Tale riforma si accaniva, ancora una volta sui più deboli, le donne, la cui età pensionabile è stata elevata di ben 5 anni. L’attacco alle pensioni non è finito con il governo Monti, ma è stato portato avanti, anche se in forme meno aperte, dallo stesso governo Renzi.
Inoltre, con il blocco delle rivalutazioni degli assegni pensionistici medi e medio-bassi, come denuncia un’indagine dello Spi presentata il 4 aprile, l’abbassamento del livello delle pensioni porta gli anziani a dover risparmiare progressivamente persino sul cibo, sempre più razionato e di cattiva qualità, e sulle cure mediche e dentistiche, con inevitabili conseguenze sulle aspettative di vita. Così il 17.5% di anziani, al solito più donne che uomini, si vede costretto a saltare o il pranzo o la cena. Del resto si tratta di un problema che non colpisce i soli pensionati, considerato che, dovendo pagare i costi della crisi, Il 57% delle famiglie è stata costretta a diminuire quantità equalità della spesa.
Nell’attuale clima di restaurazione la parola d’ordine sembra il ritorno a Bismarck, l’inventore dello “Stato sociale” del capitale che, per reprimere l’autonomia dei lavoratori salariati, aveva strappato al sindacato e al partito dei lavoratori le forme di mutualismo da essi sviluppate, per porle sotto il controllo della burocrazia statuale. In tal modo lo Stato dei grandi proprietari assumeva le fattezze dello “Stato sociale”. In realtà la burocrazia teutonica aveva ideato un perverso meccanismo attraverso cui le pensioni venivano pagate unicamente a quei lavoratori che erano stati in grado di superare il tasso medio di mortalità. Ed è proprio questo l’obiettivo esplicito del Fondo monetario internazionale – da cui è partita negli anni novanta, dopo la vittoria della guerra fredda, l’attacco alle pensioni – i salariati sopravvivevano troppo a lungo dopo aver percepito le pensioni!
Giustizia finalmente è stata fatta! Le riforme delle pensioni, realizzate dai governi tecnici Dini e Monti, senza incontrare significative opposizioni dal punto di vista politico e sociale, hanno riportato i conti in ordine, non solo elevando progressivamente l’età pensionabile, ma facendo in modo che le future generazioni di pensionati – a partire da quelle dei nati negli anni settanta – non percepiranno, se non in casi sempre più rari, pensioni “novecentesche” come quelle oggi censite dall’Inps. Anzi diversi immigrati, precari e autonomi sono obbligati a versare contributi per pensioni di cui ben difficilmente potranno godere.
D’altra parte, a rendere più fosco il quadro, nonostante le continue riduzioni della spesa pensionistica, ben presto, il decrescente tasso di natalità – prodotto dallo scaricamento sui subalterni dei costi della crisi del capitalismo, dalla precarietà, dalla competitività e dall’individualismo più sfrenati, prodotti dal pensiero unico – renderà pressoché impossibile alle nuove generazioni mantenere in vita gli anziani. Tanto più che l’unica soluzione non barbara a portata di mano, ossia l’integrazione della forza-lavoro immigrata – per altro più prolifera dell’autoctona – è progressivamente osteggiata dal razzismo, sempre più diffuso dall’ideologia dominante e dalla crisi, da sempre funzionalizzata a colpire i più deboli.
E pensare che in questi anni, di diffusione crescente del precariato, a partire dal primo governo Prodi, ideale regolativo per tutti gli attuali fautori di un nuovo centro-sinistra, le pensioni hanno fatto da cuscinetto al netto calo dei redditi da lavoro, consentendo spesso il riprodursi come forza lavoro di familiari sottoccupati, disoccupati o mal retribuiti.
Del resto il Jobs act non solo sta aumentando a dismisura il numero dei precari, ma porta spesso ad assumere gli over 50, aumentando le difficoltà dei giovani nel trovare un impiego. Più in generale la diminuzione del numero degli occupati è emersa dall’anno scorso, non appena si sono contratte le generose elargizioni, oltre 11 miliardi di euro, sottratte alle casse dello Stato – in buona parte alle spese sociali – e donate al padronato affinché assumesse, in modo da dare credito alla promessa del governo per cui il peggioramento delle condizioni di occupazione avrebbe risolto il problema della disoccupazione e rilanciato l’economia. Al contrario quest’ultima è rimasta al palo, il debito pubblico è divenuto sempre più incontrollabile – una vera e propria spada di Damocle nelle mani dei poteri forti a garanzia della realizzazione della restaurazione liberista – mentre il tasso di occupazione è rimasto, poco sopra il 50%, fra i più bassi di Europa.
Se i lavori a chiamata e intermittenti sono aumentati del 2,5%, quelli in somministrazione del 13%, più in generale, nel 2016, abbiamo nuovi impieghi a tempo indeterminato che superano di poco il 20%, mentre quelli a tempo determinato sfiorano il 65% (con un aumento di oltre il 10% fra i giovani), secondo la nota trimestrale sulle tendenze dell’occupazione resa pubblica il 30 marso dall’Istat, il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, l’Inps e l’Inail.
In particolare si è assistito al boom dei voucher cresciuti in un anno di quasi il 25%, superando abbondantemente il tetto dei 30 milioni nell’ultimo trimestre dell’anno passato. La populistica marcia indietro del governo, che non se la è sentita di difenderli nella campagna referendaria – cancellata anche per evitare che si tornasse a ragionare sugli esiti della precarizzazione del lavoro – rischia di essere una vittoria di Pirro per i lavoratori, come tutto ciò che si ottiene senza una reale lotta. Ciò rischia di favorire il micidiale principio delladelega della questione sociale alle burocrazie sindacali, che si sono da una parte attribuite il merito della vittoria e dall’altra hanno già iniziato a svenderla sostenendo, ad esempio, con la Camusso – in una dichiarazione rilasciata per altro a Il manifesto del 31 marzo – che i voucher possono essere sostituiti aumentando “il lavoro interinale”.
I voucher, strumenti di copertura del lavoro nero, grazie alla loro liberalizzazione operata da Fornero e portata a termine dal Jobs act – nonostante Renzi ne abbia populisticamente misconosciuto la paternità, presentandoli alla stregua di un problema ereditato dai governi precedenti – rischiano ora di esser sostituiti, secondo quanto dichiarato dallo stesso governo, da una misura ancora più insidiosa per i lavoratori. Si tratta dei famigerati mini-jobs, lasciati in dote a un quarto dei lavoratori tedeschi dall’ultimo governo di centro-sinistra (a conferma del fatto che le misure più nocive sono generalmente realizzate dai governi amici dei sindacati neocorporativi).
In effetti mentre i voucher sono stati comunque sfruttati ai danni di una percentuale marginale di lavoratori, i mini-jobs diverrebbero, come dimostra proprio il caso tedesco citato dal governo, la forma normale di sfruttamento di un ampio settore della forza-lavoro, in particolare di quella impiegata nel terziario.
La sostituzione dei mini-jobs ai voucher, non solo favorirebbe l’ulteriore precarizzazione dell’impiego, ma incentiverebbe ulteriormente la diffusione del lavoro nero, come dimostra la loro diffusione in Germania. Tanto più che tale diffusione del lavoro nero si è sempre prodotta nel momento in cui si sono fatti dipendere vantaggi fiscali da un tetto retributivo e orario di sfruttamento della forza lavoro. Quello che ci si prospetta, quindi, come denunciano da anni lavoratori e sindacati in Germania – tanto che persino il candidato della Spd, autrice della controriforma, per recuperare consensi in campagna elettorale ha dovuto prometterne la drastica revisione – sono una massa di working poors destinati a sopravvivere, a causa dell’ulteriore precarizzazione e dei bassi oneri contributivi associati al loro sfruttamento, con una pensione ben al di sotto della soglia di sussistenza, se mai saranno in grado di averla.
Tale radicalizzazione dello sfruttamento della forza-lavoro, associato alla drastica riduzione dei servizi sociali e delle misure assistenziali, è per altro in rapida diffusione in tutta Europa. Così, persino secondo i dati di Eurostat, le persone a rischio povertà ed esclusione sono ormai all’interno della Ue circa un quarto della popolazione,mentre in Italia ci avviciniamo paurosamente al 30%. Degli oltre 120 milioni a rischio povertà oltre 17 milioni sono nel nostro paese. A tali allarmanti dati come reagiscono i paesi protagonisti di quella integrazione europea, che gli europeisti considerano un modello di civiltà da emulare per gli abitanti degli altri continenti? In primo luogo mediante una progressiva criminalizzazione della povertà, portata avanti a tutti i livelli: legislativo, amministrativo, mediatico, per non parlare della sua applicazione al governo delle città (a partire dalla criminalizzazione da parte della giunta di Roma – indicata dai grillini quale modello di democrazia – di chi è spinto per sopravvivere a dover rovistare nei rifiuti).
Tale criminalizzazione ha colpito, in primo luogo, i più deboli, ovvero i lavoratori extra-comunitari, i primi grandi esclusi non solo dai diritti sociali ed economici, ma dagli stessi diritti di cittadinanza. Con il riemergere della crisi, che ha permesso di scaricarne gli effetti nefasti sui più deboli, si è decisamente allargata la platea degli esclusi, con il precipitare di ampi strati del proletariato, i “poveri rispettabili”, in quella moderna plebe di emarginati, sempre più destinatari del controllo penale e/o amministrativo.
D’altra parte con la precarizzazione della forza-lavoro e la corrispondente riduzione del salario nelle sue diverse forme – diretto (lo stipendio), indiretto (i servizi pubblici), differito (le pensioni) – stanno esponenzialmente aumentando le fila di quelle che il partito dell’ordine considera le “classi pericolose”, nelle quali sono ora inclusi gli stessi working poors. Il ritorno e l’ampliamento di queste ultime è la migliore dimostrazione che non si tratta affatto di un fenomeno residuale, come vogliono darci a intendere gli apologeti del capitalismo. Si tratta al contrario di una tendenza a penalizzare e criminalizzare fasce sempre più ampie della popolazione – gettate dall’uso capitalistico della crisi sulle soglie dell’indigenza – difficilmente arrestabile se non se ne mettono in discussione le cause, ovvero i vigenti rapporti di produzione. Non possiamo che concludere con Brecht affermando che, se davvero si intende impedire la resistibile ascesa del bonapartismo regressivo, è indispensabile tornare a prendere di petto questa questione che, generalmente, i social-democratici tendono opportunisticamente a eludere.
Renato Caputo
08/04/2017 www.lacittafutura.it
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