Revenge porn: un fenomeno sistemico
Revenge porn significa letteralmente “vendetta pornografica” e consiste nella condivisione non consensuale di materiale privato in rete al fine di umiliare le persone ritratte nelle immagini o nei video in questione. Secondo le statistiche, il 90% delle persone che subiscono revenge porn sono donne o persone il cui corpo ha espressione di genere femminile, e dunque più suscettibile a dinamiche di oggettificazione. I dati raccolti fino al mese di aprile 2020 da Cyber Civil Rights (https://www.cybercivilrights.org/) riportano che il 68% delle persone vittime di revenge porn hanno tra i 18 e i 30 anni; il 57% di loro afferma di averlo subito da parte di un ex partner, il 23% da un ex amico, e infine il 7% da parte di un familiare. Insieme al materiale privato vengono condivisi dati sensibili quali nome e cognome (59%), contatti social (49%), indirizzo mail (26%), e ancora l’indirizzo di casa, il numero di telefono, il luogo di lavoro.
I casi di revenge porn sono sempre più numerosi e frequenti all’interno della società, e sono specchio di una matrice di disparità nei diritti e nei ruoli di genere. Dal caso di Tiziana Cantone – che si suicidò a seguito della diffusione in rete non consensuale di suoi video privati – fino alla più recente vicenda che vede coinvolta una maestra di scuola materna di Torino, il tema del revenge porn è diventato tristemente ricorrente nelle cronache nazionali.
Le conseguenze per chi si ritrova a dover fronteggiare questo tipo di violenza sono allarmanti: il 93% riferisce stress emotivo e comparsa di patologie quali depressione e ansia, l’ 82% afferma di aver subito danni importanti in altri ambiti della vita, solo il 42% dichiara di aver contattato un servizio di supporto psicologico, e la maggior parte delle persone dichiara di aver subito – a seguito della pubblicazione di foto o video – stalking virtuale o fisico da parte di sconosciuti.
Gran parte delle donne esposte a tale gogna mediatica e virtuale considerano la loro vita distrutta per sempre non solo a causa dell’episodio di revenge porn, ma anche a causa della violenza pervasiva dello stigma relativo alla sessualità femminile. Non stupisce quindi vedere come la vittima, nella maggior parte dei casi, non si trovi supportata da familiari, amici, partner o collegh*, ma venga isolata, giudicata e colpevolizzata. La criminalizzazione ricade infatti sui comportamenti tenuti dalla donna poiché pratiche quale sexting o la condivisione consensuale di immagini sessualmente esplicite diventano “il vero colpevole”, sfilando le reali responsabilità dalla narrazione che si fa della violenza.
La vita sessuale delle donne è un taboo tale da risultare inaccettabile in ogni contesto.
Non importano le sue capacità lavorative, intellettive e quant’altro, se improvvisamente finisce per diventare protagonista di un caso di revenge porn non sarà più gradita al lavoro. Basta pensare al caso scoppiato lo scorso novembre a Torino. Un video privato di una maestra di scuola materna viene mandato dall’ex di lei nella chat del calcetto e viene trovato dalla compagna di uno dei membri della chat, la quale riconosce la protagonista del video come la maestra di suo figlio.
La donna salva il video e ricatta immediatamente la maestra, chiedendole di non denunciare l’accaduto altrimenti avrebbe mostrato il video alla preside della scuola materna. La maestra denuncia comunque e il video viene mostrato alla preside che la licenzia in tronco perché cosa potrebbe mai insegnare a dei bambini una maestra che ha una vita sessuale? Nulla. E il problema, incredibilmente, diventa il fatto che il video in questione esista e non invece il fatto che tale video sia stato reso pubblico senza consenso. Ancora una volta il fulcro del problema sta nella stigmatizzazione della vita sessuale e nella libera scelta delle donne di averne una. Una vita da vivere con riservatezza e vergogna, che non ci rende libere e protagoniste della nostra vita sessuale ma, piuttosto, oggetti al servizio dei soggetti maschili che impongono il loro sguardo sui corpi di tutt* noi.
Ci ritroviamo di fronte a un doppio standard riservato alla libertà sessuale e di scelta: gli uomini vengono generalmente giustificati nel performare costantemente – e non di rado con aggressività e insistenza, in quanto elementi determinanti della virilità maschile – il desiderio sessuale, mentre le donne vengono cresciute nell’imbarazzo, imparando presto a evitare discussioni intorno a temi “scomodi” come la masturbazione e il piacere sessuale.
E’ anche a causa di una sbagliata o mancata educazione alla sessualità se i sempre più frequenti casi in cui una grave violazione di privacy e consenso da parte di uomini adulti vengono definiti “una goliardata”, anche attraverso testate giornalistiche. Infatti, quando i casi diventano di dominio pubblico, si aggiunge narrazione violenta dei media, che riproducono ancora una volta la violenza intrinseca della cultura dello stupro, minimizzando la natura sistemica di questi casi e addossando ancora una volta la colpa sulle spalle delle donne.
Una soluzione effettiva passa necessariamente da un cambiamento radicale a partire dai luoghi di formazione, che ad oggi sono uno degli spazi determinanti in cui la violenza eteropatriarcale si riproduce: è a partire dall’ educazione alla sessualità, al consenso e al piacere che si può pensare di ricostruire una società per la quale la cultura dello stupro sia solo un lontano ricordo.
Sono passati pochi mesi da quando sono anche stati scoperti vari gruppi telegram incentrati sulla diffusione di materiale diffuso non consensualmente (https://www.agi.it/innovazione/news/2020-05-01/revenge-porn-telegram-8490366/) e ad oggi sul social esistono ancora più di 50 canali telematici di diffusione non consensuale di materiale privato, con circa 43.000 iscritti; ogni giorno vengono condivise più di 30.000 foto di donne, ragazze, bambine e soggettività femminilizzate, tutto ciò sotto lo sguardo di carnefici senza volto.
Dal punto di vista legale l’art. 10 della legge 19 luglio 2019, n. 69, inserisce nel codice penale l’art. 612-ter: il delitto di diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti. Il comma 1 dell’art. 612-ter c.p. punisce (salvo che il fatto costituisca più grave reato) chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con una multa da euro 5.000 a euro 15.000.
Il comma 2 prevede che la stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini e i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare il loro nocumento. Il comma 3 afferma che la pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena aumenta ulteriormente in caso di condizione di infermità fisica o psichica della parte lesa.
Nonostante l’Italia sia uno dei pochi paesi che si è dotato di una legge apposita, il paradigma penale attuale (che richiama a sua volta a una lettura tutta incentrata attorno alla “forza” della legge) non può essere considerato una risposta al diffondersi di questa specifica manifestazione della violenza di genere. La legge infatti non è orientata a intervenire sulla matrice sociale della violenza, né risponde alle richieste fatte in questo ambito dalle avvocate dei Centri Anti Violenza e dalle altre attiviste che hanno partecipato alla stesura del Piano Femminista di Non Una Di Meno nel 2017 (https://nonunadimeno.files.wordpress.com/2017/11/abbiamo_un_piano.pdf), tra cui rientrano: la necessità di corsie preferenziali per ridurre i tempi della giustizia nei casi di violenza di genere; contrastare ogni forma di obbligatorietà della denuncia e procedibilità d’ufficio dei reati; parametri equi, congrui ed uniformi per l’offerta reale del risarcimento del danno.
Ciò di cui abbiamo bisogno non sono dispositivi punitivi per arginare “fenomeni isolati”, ricadendo nella logica del cd. “populismo penale”, che premia la soddisfazione estetica della forza penale a scapito delle modalità di tutela di chi ha subito violenza (senza prevedere assistenza psicologica specifica, forme di sostegno al reddito ecc…), ma proponendo una rivoluzione che parta dalla base del pensiero collettivo. Il ruolo sociale delle donne va ristabilito, come pure le aspettative riguardo i loro doveri, i loro desideri e le loro vite private; gli uomini vanno responsabilizzati e resi consapevoli dell’impatto cruciale delle loro azioni e dei pensieri, affinché si possa evitare una polarizzazione di responsabilità e colpe. La sensazione di vergogna che la vittima si trova costretta ad affrontare rimane un rimosso della legge, che sembra non volersene affatto occupare. Bisogna ricordare non si ha alcuna colpa dell’accaduto.
Proprio per questo vogliamo dare spazio e visibilità a realtà che si sono attivate attraverso progetti femministi di contrasto dal basso alla violenza.
Canali della Campagna #NotMyShame de La MALA educación
-form: https://docs.google.com/…/1FAIpQLSftpSOWb1J9jK…/viewform
-gruppo Telegram: https://t.me/joinchat/AAAAAEY_OW2_UjrQDaUyYA
Mappa dei centri antiviolenza presenti in Italia:
Per rimuovere materiale online: https://leakserv.com/
Assistenza legale internazionale per i crimini legati ad internet: https://www.cyberrightsproject.com/
Petizione dell’autrice sul Revenge Porn: https://www.change.org/p/lucia-azzolina-no-al-revenge-porn-creiamo-un-nuovo-futuro-portiamo-il-femminismo-nelle-scuole?recruiter=1071420287&utm_source=share_petition&utm_medium=copylink&utm_campaign=share_petition&utm_term=Search%3ESAP%3EIT%3EBrand%3EGeneral%3EBMM
Marea Mammano
7/2/2021 https://www.intersezionale.com
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