Riflessioni sulla “violenza involontaria”
La disabilità scompagina il consueto modo di pensare alla violenza:infatti, nel caso in cui la vittima della violenza sia una persona con disabilità è necessario fare tutta una serie di valutazioni aggiuntive che tengano in debito conto la presenza della disabilità. Ma per riflettere sui casi di “violenza involontaria” – quelli dei quali intendo occuparmi in queste mie riflessioni – il cambiamento di prospettiva diventa, se possibile, ancora più imprescindibile.
Questa riflessione prende le mosse da un recente fatto di cronaca, ovvero dallatestimonianza pubblica di una madre che ha dovuto fronteggiare una violenta crisi comportamentale del figlio, ventenne, con autismo, riportando delle lesioni.
Non intendo entrare nel merito della vicenda specifica (anche perché, al riguardo, non so niente di più di quanto dichiarato dalla madre stessa), penso però sia importante provare ad avviare una riflessione sulla “violenza involontaria”, quella, cioè, che in termini tecnici è solitamente indicata con l’espressione “comportamento problema etero-aggressivo”; ma poiché questa dicitura non esplicita l’involontarietà del comportamento, preferisco utilizzare la prima, nella speranza di inibire sul nascere qualsiasi interpretazione che porti alla colpevolizzazione di chi ne è artefice.
Con l’espressione “violenza involontaria”, dunque, intendo indicare quelle situazioni di violenza e aggressività agite da persone con autismo, non con l’intenzione di nuocere a qualcuno, ma come manifestazione di un malessere, di uno stato di irritazione, di ansia, o di agitazione che di solito scaturisce da stimoli e situazioni vissuti come profondamente angoscianti dalle persone con disabilità in questione. Possono essere vissuti come angoscianti certi rumori (il pianto di un neonato; un segnale d’allarme; il fischio di un’ambulanza), un contesto caotico (un supermercato il sabato pomeriggio; uno stadio durante la partita; un concerto; una piazza piena di gente), una variazione delle abitudini consolidate, l’attesa ad un semaforo rosso ecc.
Che non ci sia volontà di nuocere a qualcuno in specifico è dimostrato dal fatto che l’aggressività può essere indifferentemente rivolta contro altre persone, oppure verso cose e oggetti o, ancora, esprimersi in gesti e comportamenti autolesivi. Il quadro, poi, è complicato dalla circostanza che non sempre è possibile individuare le cause scatenanti (alcuni comportamenti sembrano agiti senza motivo apparente), né prevederle e prevenirle (un imprevisto può sempre far saltare una routine, un’ambulanza può sempre passare a sirene spiegate nei pressi dell’abitazione in cui abita la persona con autismo grave).
Rimane vero l’assunto che non tutte le persone interessate da autismo hanno questo tipo di reazioni (esse riguardano solo le situazioni più gravi e pertanto è necessario valutare caso per caso), e che appositi interventi educativi possono portare a importanti miglioramenti. Dunque, mai come in questo caso, è bene invitare a non generalizzare. Eppure, come dimostra la testimonianza della mamma, questo tipo di violenza esiste, ed è necessario occuparsene.
Come accennavo inizialmente, per riflettere sulla “violenza involontaria” è necessario uncambiamento di prospettiva. Se normalmente guardiamo con solidarietà alla vittima e con disapprovazione all’aggressore, nei casi di “violenza involontaria” questo approccio si rivela inappropriato e fuorviante. Va bene pensare alla vittima con solidarietà – la violenza, anche quando è involontaria, può lasciare ferite profonde e cicatrici molto dolorose, anche quando non sono visibili -, ma sarebbe tremendamente sbagliato colpevolizzare l’aggressore, giacché egli è il primo “ostaggio” dei suoi meccanismi comportamentali.
Per questi motivi, chi si occupa di “violenza involontaria” non può prestare attenzione solo alla vittima propriamente detta di questi episodi di violenza, ma dovrà occuparsi simultaneamente anche della persona con autismo, cercando di trovare risposte efficaci e dignitose per entrambi i soggetti coinvolti.
Anche la prospettiva di genere si rivela inadeguata a descrivere questo tipo di violenza.Carlo Hanau, voce autorevole in materia di autismo, già docente di Statistica Medica e di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sociali e Sanitari all’Università di Modena e Reggio Emilia, osserva che «l’aggressività auto ed etero è abbastanza frequente e purtroppo si dirige spesso contro la madre. Non è facilmente dominabile neppure coi farmaci e non si può aprioristicamente accusare le istituzioni per le inadempienze e le carenze educative, ma occorre vedere caso per caso».
La circostanza che le vittime più frequenti della “violenza involontaria” siano le madri dipende dal fatto che, finito il percorso scolastico, le persone autistiche sono a totale carico delle rispettive famiglie e, all’interno di esse, la figura che passa più tempo con loro è di solito la madre. Pertanto, sebbene il maggior numero di vittime di questo tipo di violenza siano donne, non è corretto parlare di “violenza di genere”, poiché l’involontarietà della violenza induce ad escludere che esse siano divenute bersaglio della stessa in quanto donne.
In merito all’impiego dei farmaci, Daniela Mariani Cerati, neuropsichiatra, già dirigente medico all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna ed esperta delle tematiche legate all’autismo, sottolinea come i farmaci siano «molto deludenti. Si usano molto, danno molti effetti indesiderati, e pochissimi effetti desiderati, in particolare sui sintomi gravi come l’aggressività».
Riguardo invece alle possibili risposte alla “violenza involontaria”, Hanau spiega che «in Gran Bretagna ci sono operatori specializzati nel contenimento “senza fargli del male e senza farsi del male”, e l’Associazione Pane e Cioccolata ha invitato a Bologna degli esperti a insegnare “come si può fare” contenimento a coloro che operano con le persone con autismo. Avevamo invitato anche le Forze dell’Ordine di Bologna a fare formazione di questo tipo, ma senza successo, pur avendo l’appoggio del Prefetto di Bologna, mentre aPordenone questa formazione è stata fatta».
Nel resto d’Italia, invece, «si fa la politica dello struzzo. Si ignora completamente il problema», aggiunge Mariani Cerati, osservando anche che i familiari «sono le vittime immolate. Molte madri vanno al pronto soccorso per lesioni provocate dai figli aggressivi a causa della loro disabilità e dicono bugie, ad esempio che sono cadute, hanno inciampato ecc.».
Questo atteggiamento “negazionista” fa sì che non si tenti neanche di imparare le tecniche di contenimento, ipotizzandone, pregiudizialmente, l’inefficacia. «Prima di dire che non funzionano – argomenta Mariani Cerati – bisogna impararle. Nei corsi del Team Teachbisogna andare con abiti da ginnastica, si svolgono in palestra e il docente simula i comportamenti del disabile aggressivo in modo che l’esercitazione sia pratica ed efficace».
Abbiamo sottolineato come, nei casi di “violenza involontaria”, chi si occupa di violenza debba cambiare prospettiva, rinunciando alla colpevolizzazione dell’aggressore e a una “lettura di genere”. Ma un cambiamento di prospettiva è richiesto anche alle “famiglie con disabilità”. Infatti, invocare, giustamente, una maggiore presenza delle Istituzioni e della comunità nella gestione della disabilità, ma trattare gli aspetti più problematici e dolorosi della stessa come faccende private da gestire e risolvere in famiglia, è un’evidente contraddizione.
Non è detto che davanti a una richiesta d’aiuto l’Istituzione e/o la comunità sappiano rispondere, è invece certo che non riceverà nessun tipo di risposta chi, invece di chiedere aiuto, fa di tutto per nascondere il problema, come se ci fosse qualcosa di cui vergognarsi, e come se fosse davvero possibile nasconderlo («l’autismo grave è come la tosse: non si può nascondere», nota Hanau).
Non si tratta di invocare una soluzione giudiziaria (una pena detentiva, o d’altro tipo) – non avrebbe proprio senso -, o segregante (l’istituzionalizzazione), o la sedazione farmacologica (che, abbiamo visto, gli esperti considerano molto deludente), si tratta invece di ammettere che c’è un problema, e di cercare/trovare/inventare tutti insieme modi di convivenza che garantiscano l’incolumità di tutti i soggetti coinvolti nella relazione con la persona autistica, e, naturalmente, della persona autistica stessa.
La violenza, anche quella involontaria, non deve essere tollerata. Dirlo non significa puntare il dito contro qualcuno, vuol dire, invece, smettere di eludere il problema. Pensiamoci bene: se affrontare il problema ci sembra doloroso, crediamo davvero che continuare a subirlo lo sia meno?
Simona Lancioni
25/1/2017 www.superando.it
L’Autrice ringrazia sentitamente Daniela Mariani Cerati e Carlo Hanau per la consulenza e la disponibilità.
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