Riforma elettorale: un passato che ritorna
Quest’anno la befana porterà un dono molto velenoso a tutti gli italiani: il 7 gennaio infatti inizierà al Senato la discussione sulla nuova legge elettorale, l’Italicum, portata in aula a tambur battente, prima che venisse esaurito l’esame in Commissione, per soddisfare l’esigenza di Renzi di confezionare il regalo agli italiani prima che le Camere siano distolte dal lavoro legislativo per l’elezione del capo dello Stato.
Com’è noto, molte ed autorevoli critiche sono state sollevate nei confronti della prima versione dell’Italicum concordata fra Renzi e Berlusconi ed approvata, senza troppe varianti, dalla Camera dei Deputati. In particolare, l’appello dei giuristi, pubblicato dal manifesto del 27/1/2014, ha segnalato lo sconcerto della cultura giuridica democratica di fronte ad una riforma elettorale che riproduce con poche modifiche lo stesso sistema elettorale che la Consulta ha annullato con la sentenza n. 1/2014, mantenendo un enorme premio di maggioranza, le liste bloccate ed addirittura raddoppiando le soglie di sbarramento.
Nel passaggio al Senato si annuncia un peggioramento decisivo della pur pessima riforma approvata dalla Camera: il premio di maggioranza non verrà più attribuito alla coalizione ma alla singola lista che, superando una certa soglia, otterrà un voto in più delle altre, ovvero che prevarrà nel ballottaggio. In questo contesto il prevedibile dissenso dei partiti minori, esclusi dai vantaggi della coalizione, verrebbe tacitato con un abbassamento al 3% delle soglie di sbarramento, mentre il privilegio delle liste bloccate verrà sostanzialmente conservato, rendendo bloccato il capolista in un sistema elettorale fondato su liste corte.
In questo modo, attraverso la riforma elettorale si realizzerebbe un cambiamento epocale del sistema politico di governo. Per legge verrebbe attribuita la maggioranza politica e la guida del Governo ad un solo partito, a prescindere dalla volontà del popolo sovrano. Per rendersi conto della gravità di questa svolta, basti pensare che, dal 24 aprile del 1944 (secondo governo Badoglio) ad oggi, in Italia si sono sempre e solo succeduti governi di coalizione, o quantomeno sostenuti da una maggioranza di coalizione. Persino nel 1948, quando la Dc ottenne la maggioranza assoluta dei seggi, De Gasperi preferì formare un governo di coalizione, per assicurarsi quel minimo di pluralismo che gli consentiva di non restare prigioniero dei suoi padrini politici in Vaticano. Anche con la svolta del maggioritario determinata dalla legge Mattarella e poi con il Porcellum in Italia si sono sempre alternati governi sostenuti da una maggioranza di coalizione. Nella cosiddetta seconda Repubblica le maggioranze parlamentari, per quanto coese, hanno dato vita a governi di coalizione, che hanno mantenuta aperta una sia pur minima dialettica politica nella determinazione delle scelte di governo.
Si tratta indubbiamente di una svolta giacobina, che assicura artificiosamente tutto il potere ad un solo partito. Inoltre questa svolta si realizza in un momento in cui il partito politico ha perduto del tutto il carattere di una struttura della società civile, ha cessato anche di essere un intellettuale collettivo, per trasformarsi in un mero apparato di potere oligarchico, una signoria dominata da uno o pochi uomini al comando ed impermeabile ad ogni condizionamento persino dei propri elettori (come insegna la vicenda del Job’s Act).
Nella storia italiana l’unico precedente del governo di un solo partito, determinato dalla legge elettorale, risale al 1924 ed è stato frutto della legge Acerbo, che rispondeva alla necessità del Capo politico dell’epoca di assicurarsi un Parlamento sottomesso ai suoi voleri e di sbarazzarsi dei condizionamenti delle coalizioni, che costituivano indubbiamente un ostacolo alla realizzazione del suo programma politico. La legge Acerbo, attraverso un enorme premio di maggioranza assicurato ad una sola lista, attribuiva il controllo della maggioranza politica e del governo ad un solo partito. Il dibattito che si svolse in occasione dell’approvazione della legge Acerbo è attuale ancora oggi, data la notevole somiglianza di quella riforma con l’Italicum nella nuova versione proposta da Renzi. Giovanni Amendola osservò che la riforma elettorale cambiava la natura del Parlamento perché attribuiva al governo la facoltà di nominarsi la sua maggioranza. Il governo non dipendeva più dal Parlamento, ma, viceversa, il Parlamento dipendeva dal governo. E così avvenne!
Grazie al premio di maggioranza assegnato ad una sola lista, il Partito della Nazione, guidato da un giovane presidente del Consiglio, pagando il modesto prezzo di imbarcare nel listone qualche fuoriuscito dei partiti alleati, ottenne una schiacciante maggioranza formata da uomini di fiducia “nominati” dal Capo politico. La riforma Acerbo ottenne l’effetto voluto: consentì al Capo politico di sbarazzarsi del ricatto di partiti e partitini e determinò l’avvento di un partito unico al governo che, per vicende successive, si impose come unico partito. La legge Acerbo fu lo strumento determinante che consentì a Mussolini di stravolgere la Costituzione dell’epoca e di portare a compimento il suo progetto politico.
Non si può ignorare, pertanto, il valore costituzionale delle leggi elettorali, che è sempre stato ben chiaro ai teorici dello Stato di diritto. Oltre 200 anni fa Domenico Romagnosi osservava che: «La teoria delle elezioni altro non è che la teoria della esistenza politica della Costituzione.. E’ evidente che quando il diritto elettorale venga radicalmente modificato è la Costituzione che viene posta in discussione».
È assurdo che in Italia si vogliano imporre modelli elettorali che il nostro Paese ha già conosciuto con esiti nefasti, come se la Storia non esistesse e la memoria dovesse essere confinata fuori dalla politica. Un Paese che liquida la propria memoria è destinato a rivivere i fatti che ha dimenticato.
Domenico Gallo
6/1/2015 www.rifondazione.it
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