Rifugiati climatici in aumento. In fuga ma senza diritti
Potrebbero essere tra i 200 e i 300 milioni, le persone costrette a migrare a causa degli effetti dei cambiamenti climatici nel corso del secolo, sempre che non si riesca a contenere l’aumento di temperatura sotto dei due gradi come indica l’Accordo di Parigi.
Il dato si legge nell’ultima pagina della Relazione sulla Green Economy 2019 presentata ieri a Rimini in occasione della fiera Ecomondo. Per quanto sia difficile fare previsioni accurate e precise, questi numeri forniscono un ordine di grandezza della gravità del fenomeno. Del resto la Banca Mondiale, in un suo rapporto pubblicato lo scorso anno dal titolo Preparing for Internal Climate Migration (Misure per la migrazione climatica interna) stima in 143 milioni le persone che potrebbero essere costrette a spostarsi all’interno dei loro Paesi per sfuggire agli impatti a lungo termine dei cambiamenti climatici. Il fenomeno riguarderà maggiormente i Paesi più poveri, ma nemmeno l’Italia ne sarà immune: nella Relazione presentata ieri si fa una previsione su quello che potrebbe accadere nel nostro Paese in assenza di misure di mitigazione e adattamento: entro il 2050 le persone esposte solo al rischio inondazione per effetto dell’innalzamento del mare potrebbero essere dalle 72mila alle 90mila (oggi sono 12mila), mentre a fine secolo potrebbero salire a 198-265mila.
A livello globale i movimenti migratori più massicci avverranno in una cinquantina di Stati dove, per altro, si prevede che la popolazione raddoppi entro il 2050. Sono Paesi che hanno meno risorse per affrontare i rischi e la cui sopravvivenza dipende proprio da quei servizi ecosistemici (foreste, coste, laghi e fiumi) che sono più minacciati. Negli ultimi due decenni la maggior parte delle migrazioni riconducibili ai cambiamenti climatici si sono verificate nei Paesi non-Ocse, ovvero quelli in via di sviluppo, e il 97% degli sfollati per eventi estremi improvvisi del periodo 2008-2013 è avvenuto in Paesi a reddito medio basso.
A spulciare poi le comunicazioni nazionali che i vari Stati forniscono al segretariato dell’Accordo di Parigi, si scopre che 44 Paesi su 162 (principalmente da Africa, Asia Pacifico e Oceania) fanno preciso riferimento a fenomeni di migrazione, interna e non, dovuti al clima. Anche gli scienziati dell’Ipcc (Intergovernamental Panel on Climate Change) mettono in guardia: nel rapporto presentato la scorsa estate dedicato al suolo e ai rischi di degradazione degli ecosistemi si avverte che questi fenomeni non faranno che amplificare la migrazione ambientale, là dove gli eventi estremi metteranno a repentaglio la sicurezza alimentare e la possibilità stessa di vivere in ambienti sconvolti dall’aumento delle temperature o dalla desertificazione dei suoli.
Malgrado la mole di studi, le cause ambientali delle migrazioni non sono riconosciute dal diritto internazionale, il rifugiato ambientale non ha uno status come tale e non ha quindi diritto ad alcun tipo di protezione. Una convenzione sui rifugiati ambientali non esiste (e chissà quanto tempo ci vorrebbe per averla) né le vittime dei cambiamenti climatici potrebbero essere ricomprese nella categoria di rifugiati secondo la definizione della Convenzione di Ginevra del 1951. Solo il Global Compact for Migration (Patto Globale sulla Migrazione) delle Nazioni Unite, messo a punto nel 2018 – e mai firmato dal governo Conte – introduce tra gli obiettivi quello di «sviluppare approcci coerenti per affrontare le sfide posti dai processi migratori indotti da disastri naturali improvvisi o a lenta insorgenza», come può essere la siccità, le conseguenze della deforestazione, degli incendi, di una carestia o dell’inquinamento. Poco più che una dichiarazione di intenti.
Secondo Filippo Miraglia, responsabile migrazioni dell’Arci, il tema è all’attenzione della Nazioni Unite da anni ormai, non è mai stato risolto. «Penso che l’assemblea dell’Onu potrebbe intervenire aggiungendo alle competenze dell’Alto commissariato per i rifugiati, l’Unhcr , anche l’intervento per i migranti climatici – spiega Miraglia – certo, bisognerebbe prima definire cos’è l’emergenza climatica e fare studi approfonditi su quali zone del mondo e quali gruppi territoriali sono più soggetti ai rischi derivati dai cambiamenti climatici. Gli stessi scienziati che studiano il clima sono ben consapevoli delle aree più vulnerabili. Fatto un lavoro di mappatura e di programmazione, l’Unhcr avrebbe tutti i mezzi e l’esperienza per poter intervenire, soprattutto nei paesi in via di sviluppo».
Daniela Passeri
7/11/2019 ilmanifesto.it
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