Rinnovo del contratto nazionale del pubblico impiego, dalla montagna il topolino
La bozza delle direttiva del ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione Madia, che sarà inviata all’ Aran e costituirà il presupposto per il rinnovo dei CCNL pubblici dopo un “buco” di otto anni, dimostra inequivocabilmente che il protocollo sottoscritto da sindacati confederali e Governo il 30/11/2016 si prestava poi alla libera interpretazione dei contenuti da parte di ciascun sottoscrittore.
D’ altronde solo una parte sindacale distratta che ha rinunciato ad esercitare un potere negoziale, incapace com’è di sostenere conflitti e rivendicazioni, poteva illudersi di recuperare la perdita salariale e di diritti da parte dei dipendenti pubblici attraverso un rinnovo influenzato dalla preventiva riscrittura di fatto, attraverso i decreti di revisione del Testo Unico del Pubblico Impiego e del sistema della performance, delle regole e delle materie che saranno meglio definiti e attuati dai contratti nazionali .
Non è un caso che il ministro Madia, nella direttiva, evidenzi che l’ obiettivo è quello di un “riequilibrio fra fonte legale e contrattuale” a favore della prima, e che tutto questo era stato condiviso dai sottoscrittori del protocollo del novembre scorso. I nuovi decreti quale fonte di regolazione primaria ne rappresentano l’ applicazione, almeno per le materie inerenti la perfomance, la mobilità e le disposizioni disciplinari, nonché un palese esempio di rilegificazione in prospettiva neocentralista della pubblica amministrazione. E questa prospettiva non è animata da intenti di potenziamento qualitativo dei servizi, anzi è vero l’esatto contrario.
Di fatto solo la questione inerente la costituzione dei fondi viene lasciata, in apparenza (visto che a colpi di decreti legislativi sono già intervenuti per ridurre i fondi), alla negoziazione delle parti, perché di fatto tale potere negoziale è rinchiuso dentro i rigidi confini degli obiettivi di finanza pubblica, che le riforme introdotte nel testo unico del Pubblico Impiego hanno reso sempre più cogenti in termini di limitazioni di qualsiasi forma di autonomia organizzativa in ordine ai servizi e alle loro modalità di organizzazione. Allo stesso tempo, mentre bloccavano la contrattazione nazionale, hanno impedito ogni incremento salariale al salario accessorio svuotando così la contrattazione di secondo livello.
Nella indeterminatezza comunque della stessa direttiva, che pare fra l’ altro dimenticare come la tornata contrattuale sia consequenziale alla drastica riduzione dei comparti di contrattazione, è utile svolgere qualche considerazione in merito ad alcuni aspetti salienti.
Risorse Finanziarie
La questione delle risorse finanziarie necessarie per consentire il rinnovo contrattuale, e di fatto l’ importo medio previsto dal protocollo del 30/11/2016, risulta fondamentale a dimostrazione come in quella sede i sottoscrittori brillarono per assoluta non chiarezza ( voluta o casuale ?) nel definire i livelli del recupero salariale conseguente alla mancata contrattazione negli anni a partire dal 2009. La non chiarezza è confermata dalla direttiva, però é solo dalle percentuali di incremento previste per il triennio 2016/2018 dei fondi del “monte salari” destinato a rinnovi contrattuali, e previste nel bilancio statale, che si evince chiaramente che le risorse stanziate sono largamente insufficienti rispetto a quelle indicate nel protocollo.
Analogo discorso vale per gli enti locali, nell’ottica di un forte controllo centrale ai fini del conseguimento degli obiettivi di finanza pubblica. Anche agli enti locali si applicano simili regole ai fini dello stanziamento delle risorse per il rinnovo dei contratti, anche se le stesse sono a carico dei bilanci degli Enti. Il DPCM del 27/02/2017 ha infatti stabilito che le percentuali dovranno essere pari, per il 2016 allo 0,36%, per l’anno 2017 al 1,09% ed infine nel 2018 al 1,45% calcolate sul monte salari complessivo ( retribuzioni derivanti dal trattamento economico fondamentale e accessorio esclusa l’ indennità di vacanza contrattuale) determinato attraverso il conto annuale inviato alla Ragioneria Generale dello Stato.
Orbene, alla luce di quanto sopra, in un quadro normativo finanziario volutamente rigido per obblighi di stanziamento imposti agli Enti, è chiaro che le risorse economiche per raggiungere l’importo medio di 85 euro mensili stabilito nel protocollo, non sono state previste per cui è necessario reperire risorse ulteriori per la cui definizione dovrà disporre la prossima legge di bilancio.
Quindi? Si limita l’ autonomia degli enti locali in tema di previsione degli importi degli stanziamenti, si allungano ulteriormente i tempi per il rinnovo contrattuale ritardandone i tempi e le modalità di attuazione. In ogni caso, i tempi contrattuali resteranno subordinati al reperimento delle “ulteriori risorse necessarie”, per cui questo denota la reale volontà che si cela dietro la direttiva del ministro : acquisire tempo, agire indisturbati nello smantellamento della Pubblica amministrazione, negare ai\lle dipendenti della Pubblica amministrazione un diritto costituzionalmente affermato, quello del rinnovo contrattuale.
Incrementi contrattuali
Nel quadro di incertezze generali di tipo economico derivanti dalla non disponibilità effettiva delle risorse relativi agli incrementi medi previste dal protocollo sottoscritto, se ne aggiungeranno altre di livello normativo che rendono gli 85 Euro promessi ancora più incerti, soprattutto se pensiamo che la vecchia distinzione tra salario fisso e variabile è destinata a cadere aumentando la quota destinata ad aumenti variabili (performance e altre diavolerie pensate per dividere i lavoratori indebolendone il potere di acquisto e di contrattazione)
La logica della contrattazione nazionale che la direttiva Madia vuole imporre è finalizzata al superamento di ogni possibilità che i lavoratori e le lavoratrici mantengano inalterato il loro già debole potere di acquisto salariale. Il salto di qualità ( in negativo) dei decreti Madia è quello di ridurre gli incrementi tabellari (e quindi il salario fisso e ricorrente in base ai livelli di appartenenza) per favorire invece solo incrementi da utilizzare attraverso la contrattazione integrativa e destinati solo a una parte degli aventi diritto.
Rispetto a questi aspetti la direttiva interviene in maniera “chirurgica”, determinando effetti di prospettiva temporale assai pericolosi, a seguito di quel processo di rilegificazione centralista che produce una impostazione diversa per i contenuti in ordine a quello che viene posto a carico dei costi di rinnovo contrattuale. Insomma non parte una stagione rivendicativa ma all’orizzonte ci sono solo tempeste e per capirlo saranno sufficienti, a titolo esemplificativo, alcuni esempi e in particolare:
-i costi del welfare, scaricati sulla contrattazione, determinano l’ inclusione di benefici che fino ad oggi erano considerati in prevalenza alla stregua di prestazioni assistenziali, per cui di norma al di fuori delle risorse destinate, per definizione, alla salvaguardia del potere di acquisto dei salari attraverso i rinnovi dei CCNL. Se il contratto nazionale aveva affrontato e regolato tali aspetti era di solito conseguente alla definizioni di criteri di utilizzo e controllo di risorse economiche aggiuntive provenienti da disposizioni speciali, per cui non gravanti sulle risorse destinate al rinnovo dei contratti nazionali e non considerate all’ interno dei relativi costi;
-nel caso dei rapporti a tempo determinato, apparentemente la corretta estensione di istituti e benefici contrattuali anche computando l’ anzianità di servizio, a seguito dell’ applicazione del principio di non discriminazione previsto dalla normativa comunitaria potrebbe, al di là dei nobili fini, può costituire concretamente un processo che altera gli equilibri complessi, scaricando tutte le contraddizioni sulla contrattazione integrativa (senza risorse aggiuntive ovviamente). Questo appare grave in rapporto ai criteri con cui si sono costituiti i fondi per il salario accessorio negli ultimi anni, mai aumentati ma ridotti in proporzione alle cessazioni, per cui in base alla semisomma del personale a tempo indeterminato in servizio ad inizio anno e a fine anno.
Dopo otto anni di sostanziale riduzione dei fondi operati in maniera non casuale attraverso ingerenze del legislatore, al fine di contrarre il costo del personale e i benefici effetti solidali che derivavano ai fondi nel caso di cessazione del personale, si è passati ad una apparente cessazione dei criteri di riduzione dei fondi scaricando però su essi costi derivanti dall’ attivazione di rapporti di lavoro con carattere di eccezionalità e temporaneità che mai fino ad oggi avevano concorso in termini di monte salari ad incrementare gli stessi. Se associamo queste condizioni alle rigidità di copertura del turn over in funzione del contenimento della spesa che il decreto di riforma del testo unico del pubblico impiego rende più stringenti, con la derogabilità in termini di durata del rapporto di lavoro a termine oltre 36 mesi che la direttiva Madia sostiene, viene a delinearsi il quadro dei futuri assetti organizzativi e di come sarà data risposta ai fabbisogni di personale degli enti pubblici.
Sarà infatti del tutto evidente il reale disinteresse del governo nell’ impegnarsi per superare l’ attuale precarietà, visto che si vogliono definire regole che ne produrranno di nuova e di più lunga durata, essendo un tipo di rapporto di lavoro molto coerente con le leggi di bilancio e le relative politiche di spesa che vengono dallo stesso approvate.
-la definizione di un elemento retributivo, distinto dallo stipendio, a favore di tutti coloro che ne beneficiavano sotto forma di “bonus fino a 80 euro mensili” non offre certezza sul suo mantenimento, a meno di non scaricarlo sui costi complessivi della contrattazione nazionale. Il rischio è infatti, allorché un elemento retributivo viene ad essere definito e quantificato attraverso il CCNL, che anche al suo finanziamento si provveda attraverso i fondi destinati alla contrattazione nazionale stessa, vanificando cosi’ gli effetti di un bonus progressivo nato come sorta di “beneficio sociale”, finanziato con la fiscalità generale. Vogliamo essere ancora piu’ chiari: il bonus Renzi rischia di essere lo specchietto delle allodole per coprire lo svuotamento dei contratti, i ritardi della loro sottoscrizione e strumento alla occorrenza utile per far saltare il sistema di diversificazione tabellare fra categorie in relazione ai diversi contenuti professionali. L’obiettivo del Governo è eliminare le dotazioni organiche da una parte e dall’altra esigere prestazioni senza fare piu’ riferimento alcuno ai profili professionali, accrescere cosi’ i carichi di lavoro senza alcun aumento salariale. Ecco perché quanto asserito nella direttiva circa la non sovrapponibilità fra i due ambiti, bonus fiscale e incrementi contrattuali, è di fatto smentibile nella pratica, perché si da la possibilità per accordo fra le parti di destinare risorse finanziarie a tale finalità sottraendole e distraendole dagli incrementi contrattuali di parte fissa o da quelli destinati alla contrattazione integrativa di tutto il personale.
Contrattazione parte economica
A prescindere dal fatto che, sempre in apparenza, la direttiva affronta l’ argomento solo in relazione al comparto delle funzioni centrali, e non poteva essere altrimenti visto che per Regioni e Autonomie locali i comitati di settore dovranno definire ulteriori indirizzi, non si può ignorare che alcune considerazioni di carattere tecnico politico di approccio alla fase negoziale saranno presumibilmente di fatto comuni per tutto il comparto pubblico.
Il governo sostiene che negli anni di “vuoto contrattuale” il costo della vita non sarebbe aumentato, anzi parlano di tassi decrescenti di inflazione. Se prendiamo invece in esame i dati si capisce che la perdita è stata rilevante ma l’obiettivo del Governo è molto piu’ ambizioso: affermare il principio di una sostanziale invariabilità dell’ IPCA ( indice armonizzato prezzi al consumo) relativo al periodo, negare che la crisi abbia falcidiato il nostro potere d’ acquisto e cosi’ lesinare anche sui futuri aumenti. Tale affermazione, desumibile dalla direttiva, ha significati di profondo stravolgimento delle relazioni negoziali fra le parti, in quanto rivolta a mistificare la realtà adducendo l’ inesistenza di qualsiasi contenuto redistributivo della ricchezza da operare attraverso la contrattazione dei salari, sostenendo invece che sono le preoccupazioni dovute alle dinamiche macroeconomiche a interessare di più le persone. Ma si dimentica di dire che queste dinamiche sono imposte dalla troika europea prona al capitalismo finanziario e costituiscono elemento di maggiore interesse perché si riflettono sulle condizioni di lavoratrici e lavoratori privati e pubblici. In quest’ ottica si finisce ancora una volta per rendere centrale e strategica la legge di bilancio e di fatto si permette alla Commissione Europea di ingerire sulle dinamiche salariali interne dei pubblici dipendenti.
Questa tipo di considerazioni costituiscono premessa per influenzare pesantemente la finalizzazione delle risorse destinate alla contrattazione, e affrontare secondo la direttiva “ la difesa dei salari e il potere d’ acquisto in una nuova prospettiva” destinando alle componenti stipendiali fisse le scarse risorse individuate dal DPCM del 27/02/2017, e ai trattamenti accessori correlati alla perfomance e alle condizioni di lavoro le ulteriori risorse da reperire al fine di cercare di rispettare a parole il protocollo del novembre scorso e garantire gli incrementi medi mensili promessi.
Non bisogna dimenticare che il sistema della perfomance, e le connesse valutazioni, incideranno in maniera dirimente e divisiva anche sull’ attribuzione delle quota di salario fisso (come nel caso delle progressioni economiche), per cui gli elementi e i meccanismi di recupero salariale ai fini di garantire il potere d’ acquisto reali, saranno alla prova dei fatti sempre meno capaci di farlo.
Roberto Cerretini, Federico Giusti
13/6/2017 www.controlacrisi.org
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