Robin Hood al contrario

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Nelle richieste di autonomia regionale differenziata l’istruzione scolastica gioca un ruolo di grande importanza. Stando ad un’accurata ricostruzione comparativa delle bozze di intesa in discussione fra il Governo e Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto, “le nuove competenze consentiranno alle tre regioni interessate di occuparsi di rilevanti profili organizzativi, da calibrare sul contesto socio-economico regionale (sino alla definizione delle finalità del sistema d’istruzione, nel caso del Veneto) (..). Appositi fondi regionali integrativi saranno destinati all’assunzione di ulteriore personale, agli interventi di edilizia scolastica, al sostegno al diritto allo studio. A queste competenze, Veneto e Lombardia vorrebbero aggiungere la gestione dei rapporti di lavoro del personale dirigente, docente, amministrativo, tecnico ed ausiliario, con il potere di indire concorsi di assunzione (il personale attualmente in servizio potrebbe scegliere se aderire ai ruoli regionali o se permanere in quelli statali, mentre quello di nuova assunzione confluirebbe automaticamente nei ruoli regionali); inoltre le due regioni in parola acquisirebbero il personale degli uffici periferici del MIUR” (cfr. F. Pallante, “Nel merito del regionalismo differenziato”, in Federalismi.it, 20.3.2019; più in generale, G. Viesti, Verso la secessione dei ricchi? Autonomie regionali e unità nazionale, Laterza, 2019).

Prime stime sull’impatto finanziario del processo di autonomia differenziata mostrano che l’ambito più rilevante sarebbe proprio quello dell’istruzione scolastica (Cfr. Consiglio Regionale della Lombardia-Eupolis, “Regionalismo differenziato e risorse finanziarie”, 2017; A. Filippetti, F. Tuzi, “I costi del federalismo asimmetrico: alcune ipotesi”, in IRES-IRPET-SRM-Polis Lombardia-IPRES-Liguria Ricerche, La finanza territoriale. Rapporto 2018, Rubbettino, 2018.)

Quanto appena detto va letto alla luce dell’art. 5 del “Testo concordato” del 25.2.2019, in cui, al comma 1.b si stabilisce che le risorse finanziarie necessarie all’esercizio delle ulteriori forme di autonomia concesse, debbano essere determinate in termini di fabbisogni standard “entro un anno dall’entrata in vigore” dei relativi decreti; e che, qualora non siano stati adottati i fabbisogni standard, l’ammontare delle risorse destinate alla Regione “non può essere inferiore al valore medio nazionale pro-capite della spesa statale per l’esercizio delle stesse”. Definire i fabbisogni standard è assai complesso, specie a parità di risorse complessive; può essere dunque improbabile definirli consensualmente in breve tempo. Ancor più se alcune regioni possono trarre vantaggio dalla clausola del valore medio pro-capite e dunque non hanno alcun incentivo a pervenire ad una loro definizione. Un prima stima dell’impatto di quest’ultima norma quantifica difatti in 1.400 milioni di euro le risorse aggiuntive che le tre regioni acquisirebbero rispetto all’attuale livello di spesa statale nei loro territori in quella eventualità (cfr. L. Rizzo e R. Secomandi, “Istruzione: che fare per una spesa regionale equa”, in LaVoce.info, 19.3.2019). Ricordando che, come previsto dal comma 2 del già citato art. 5 del “Testo concordato”, dall’applicazione delle Intese “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”, tali risorse saranno decurtate dalla spesa statale in istruzione scolastica nelle altre regioni italiane.

Con un procedimento davvero insolito per un’amministrazione centrale, il Dipartimento per gli Affari regionali e le autonomie pubblica, assieme ai “Testi concordati”, anche una Nota che contiene una tabella sulla spesa statale regionalizzata riferita alle tre regioni del Nord che hanno chiesto l’autonomia differenziata, e, curiosamente, solo a quattro regioni del Sud, di cui una a statuto speciale (i dati sono tratti da: MEF-RGS, La spesa statale regionalizzata 2016, Roma). Dai numeri (riportati nella prima colonna della tabella 1 e poi espressi in numero indice Lombardia=100 nella seconda) si evince che la spesa statale regionalizzata pro-capite per istruzione scolastica in Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna nel 2016 è di molto inferiore rispetto alle quattro regioni del Mezzogiorno. In Calabria è addirittura del 49% più alta che in Lombardia; ma è molto maggiore, dal 27% al 39%, anche nelle altre regioni. Da questi dati sembrerebbe lecito dedurre che una riallocazione di spesa per istruzione in particolare dalle regioni del Sud alle tre del Nord, ottenuta in base alla garanzie del valore medio pro-capite ad esse garantite dai “Testi concordati”, seguirebbe un criterio di equità, riducendo l’ingiustificato privilegio di una spesa eccessiva.

Tale presentazione di dati, e la scelta delle regioni con cui effettuare la comparazione – come si argomenterà – è invece assai distorsiva della realtà. Il criterio del valore medio pro-capite della spesa per istruzione, lungi dall’essere equitativo, è invece finalizzato a garantire senza motivo alle tre regioni maggiori risorse a danno delle altre (e dei loro studenti).

Non è difficile argomentarlo (per un’analisi più estesa cfr. V.Peragine e G.Viesti, “La spesa per l’istruzione in Italia: una comparazione internazionale e interregionale”, in L’istruzione difficile. I divari nelle competenze fra Nord e Sud, a cura di P.F. Asso, L. Azzolina e E. Pavolini, Donzelli, 2015). In primo luogo, non ha evidentemente alcun senso parametrare la spesa per istruzione scolastica alla popolazione residente in una regione; essa va infatti parametrata alla dimensione dei fruitori del servizio scuola, cioè agli alunni delle scuole statali[1]. Come si vede dalla terza colonna della Tabella 1, questa differenza è sensibile data la diversa struttura per età della popolazione regionale: il peso degli studenti sul totale della popolazione va infatti da un minimo dell’11,9% in Lombardia ad un massimo del 15,6% in Campania. Nelle colonne 4 e 5 sempre della tabella 1 si presentano i risultati di questa correzione: la spesa per studente è simile alla Lombardia in Puglia, e appena più alta in Campania e Sicilia; solo la Calabria ha un dato maggiore.

Ma perché la spesa per studente non è omogenea fra le regioni? Nella tabella 2 sono presentate alcune possibili spiegazioni. E’ possibile chiedersi innanzitutto: questo dipende da un numero di docenti, rispetto agli studenti, più elevato nelle regioni del Mezzogiorno? Per rispondere facciamo uso dei dati presenti sul Portale unico della scuola del MIUR.

La prima colonna della tabella 2 mostra che le differenze sono minime (con la parziale eccezione della Calabria); Campania, Puglia e Sicilia hanno un rapporto docenti/studenti inferiore a quello della Lombardia. Lievi differenze possono dipendere dai docenti di sostegno (colonna 3), il cui peso sul totale degli insegnanti pare però, nelle diverse regioni, parallelo alla presenza di studenti con disabilità (colonna 2). Assai più importante, specie nel caso calabrese, è la diversa dimensione delle classi della scuola primaria (colonna 4): in Calabria è notevolmente inferiore; e questo comporta un più alto rapporto docenti/studenti. Questo dipende dalla maggiore presenza in Calabria (e in minor misura in Campania) di classi della primaria e della secondaria inferiore meno affollate nei piccoli comuni di collina e di montagna, come ben chiaro dalla quinta colonna (i dati sono tratti dalle elaborazioni realizzate per la Strategia nazionale Aree Interne).

[1] I dati sono tratti da: Miur, Focus “Anticipazione sui principali dati della scuola statale” Anno Scolastico 2016/2017, Settembre 2016. Potrebbe alternativamente essere parametrata alla popolazione in età scolastica (e non solo a coloro che effettivamente studiano), come potenziale bacino di utenza: la differenza non è però sostanziale.

Una causa molto importante della differenza nei costi dell’istruzione scolastica fra le regioni è poi la diversa anzianità del personale, e il conseguente livello medio degli stipendi di ciascun docente. Come si vede dai dati della sesta colonna, sempre della tabella 2, la percentuale di docenti con più di 45 anni è superiore al 75% nelle quattro regioni del Sud, e molto inferiore (sotto il 62% in Lombardia ed Emilia-Romagna) nelle tre regioni del Nord; lo scarto fra Calabria ed Emilia Romagna è superiore ai 19 punti percentuali. Ciò deriva da andamenti demografici – e dalla conseguente dinamica della domanda di istruzione – molto diversi fra Nord e Sud negli ultimi decenni. E si ripercuote sul loro costo: dividendo indicativamente il totale della spesa statale per il numero di docenti emergono differenze sensibili, parallele all’anzianità del corpo docente; con un valore superiore in tutte le regioni del Sud, fino ad oltre il 10% in Calabria e Sicilia (settima ed ultima colonna).

Ma vi sono altre importanti circostanze da notare. La spesa statale rappresenta infatti solo una parte della spesa totale per l’istruzione scolastica di cui beneficiano gli studenti delle diverse regioni; la banca dati dei Conti Pubblici Territoriali (CPT), a differenza della spesa statale regionalizzata, misura l’insieme della spesa, al netto dei flussi fra amministrazioni. Tenere conto dell’insieme della spesa pubblica consente di misurare l’effettivo sforzo finanziario dell’operatore pubblico per ogni studente in ogni regione.

Le prime tre colonne della tabella 3 presentano i valori della spesa corrente per studente, nel 2016: delle amministrazioni centrali e di quelle regionali e locali, e del loro totale. La spesa delle amministrazioni locali è significativa, fino a rappresentare quasi il 20% del totale nel caso dell’Emilia-Romagna. E’ bene ricordare che, nelle regioni del Sud, la spesa comunale per funzioni “ancillari” dell’istruzione (come trasporti e mense) è largamente inferiore ai fabbisogni standard di recente calcolati (sulle vicende dei fabbisogni standard cfr. M. Esposito, Zero al Sud, Rubettino 2018).

Il quadro da cui siamo partiti si ribalta, come si vede dai dati espressi in numero indice della quarta colonna della tabella 3: al netto della situazione calabrese, influenzata dalla ridotta dimensione delle classi, è proprio la Lombardia ad avere la spesa più elevata; in Veneto è più contenuta, ma ancora superiore a quella pugliese.

Dato anche il maggior costo legato all’anzianità dei docenti del Sud questo determina un servizio scuola differente fra le regioni: ve ne è chiara evidenza nella quinta colonna della tabella 3, che mostra come la percentuale di studenti della scuola primaria che beneficia del tempo pieno sia intorno al 50% in Lombardia ed Emilia-Romagna, scenda al 34% in Veneto, e si collochi invece fra un minimo del 7% ed un massimo del 22% nelle quattro regioni del Sud.

Va infine notato che l’equità della spesa pubblica va considerata anche alla luce delle condizioni strutturali in cui si svolge il servizio, seguendo ad esempio le chiare indicazioni della Legge 42/2009 sul federalismo fiscale. Mediamente, la condizione degli edifici scolastici nelle quattro regioni del Sud è peggiore rispetto alle tre del Nord, come si evince dalla percentuale di scuole con necessità urgente di manutenzione, come da tutti gli altri dati disponibili sui loro assetti strutturali (cfr. Legambiente, Ecosistema Scuola 2018). Tali scarti tendono ad aumentare, invece di ridursi, come si può vedere dall’ultima colonna della tabella 3, che mostra come, nella media 2014-16 le spese in conto capitale, rapportate sempre al numero di studenti siano state significativamente inferiori nel Mezzogiorno, nonostante includano anche le risorse disponibili attraverso i Fondi Strutturali e il Fondo Sviluppo e Coesione. Si noti che il dato, di fonte CPT, è riferito al totale delle Amministrazioni Pubbliche; le spese per investimenti sono quasi totalmente a carico delle amministrazioni regionali e locali.

Tutto ciò consente agevolmente di concludere che la rappresentazione delle tre regioni del Nord come penalizzate da una inferiore spesa per istruzione scolastica è fortemente distorsiva. E che la richiesta di ottenere la spesa media nazionale pro-capite comporterebbe una penalizzazione degli studenti delle altre regioni – ed in particolare degli studenti delle elementari nei piccoli comuni – contraria ad ogni principio equitativo e ad ogni ragionevole politica di sviluppo: che non può che puntare ad un forte potenziamento dell’istruzione, in particolare nelle regioni più deboli. Appare certamente censurabile che un’amministrazione centrale, il Dipartimento per gli Affari Regionali e le Autonomie, utilizzi strumenti di propaganda politica a sostegno delle richiesta di alcune regioni, a danno di altre regioni.

Gianfranco Viesti

Gianfranco Viesti è professore ordinario di economia applicata nel dipartimento di scienze politiche dell’Università di Bari.

16/4/2019 www.eticaeconomia.it

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