Roma Milano e altre storie. Il Lavoro sporco di Minniti e Orlando
Se non ci fosse una persona da piangere e per cui, comunque siano andate le cose, vergognarsi, come è accaduto a Roma con la morte di Nian Maguette, 53 anni, di professione ambulante. Se non fosse scattata una operazione a Milano che ha visto impegnati centinaia di agenti, elicotteri, polizia a cavallo, per chiudere la piazza antistante la stazione centrale e fermare, controllare, caricare sui cellulari decine e decine di persone sulla base del solo colore della pelle. Se non ci giungessero da numerose città segnalazioni di improvvise azioni di massa, con pattuglioni, alla caccia di irregolari, privi di alloggio, con documenti scaduti, comunque sospetti. Se non ci fosse tutto questo l’inizio del mese di maggio somiglierebbe ad una immensa farsa. Come non trovare grottesco il fatto che da una parte si attacchino vigliaccamente le Ong che fanno soccorso in mare e salvano quelle decine di migliaia di vite a cui dovrebbe provvedere l’UE e i suoi Stati Membri e contemporaneamente, quelli che si credono in salvo, debbano ritrovarsi a temere le divise come le temevano nei paesi da cui sono fuggiti e in cui sono transitati.
Nessuna equiparazione sia chiaro, non ci si spinge a tanto ma proviamo ad entrare nella mente di chi da sempre ha visto il passaggio di un mezzo di polizia come il segnale di messa a rischio della propria vita, provate a immaginare chi ha conosciuto la violenza che tante volte ci è stata raccontata di cui sono capaci soldati e miliziani libici. La divisa diviene un elemento di paura. E quando dopo aver attraversato il mare e fortunosamente si è stati salvati da quelle Ong che si cerca di intimidire, all’arrivo nel porto italiano in cui si viene accolti, c’è sempre lo schieramento di agenti pronti a dover affrontare un pericolo che spesso non esiste.
Che pericolo possono portare uomini, donne, bambini, spesso disidratati o in ipotermia a seconda della stagione, con addosso segni di torture, di botte e ustioni dovute al viaggio sui gommoni? E quando si è finalmente in una città, in un paese, in un “centro di accoglienza” i ritmi della vita vengono interrotti sovente dalle divise che controllano che osservano che incutono, volenti o meno, timore se non rabbia. Certo di agenti che si comportano con dolcezza e umanità ce ne sono a iosa, ma basta pensare alla mano pesante che ti impone di lasciare le impronte, a chi ti fa la fotosegnalazione, a chi, se ti incontra per strada, con le borse della spesa ti guarda e di fatto sembra domandarsi se quella merce che porti è stata comperata o rubata. Si è addestrati, non solo da noi, a guardare con sospetto chi ha la pelle di un colore diverso e magari è vestito anche in maniera un po’ trasandata. Il controllore, in divisa, ferma sul treno o in autobus, soprattutto questa categoria di persone e così ovunque, soprattutto di notte, quando si costruisce in maniera concreta e feroce, la percezione dell’altro come potenziale nemico. Ed è grottesco perché inevitabilmente questo paese, questo continente, saranno sempre più meticci e plurali, lo sono già ma accettarlo è dura e per ora tale timore resta prezioso strumento di distrazione di massa.
Viviamo in città in cui trionfano il malaffare, le speculazioni, una distribuzione delle risorse radicalmente asimmetrica in cui la povertà, come indice di sconfitta individuale, sembra divenuto il nuovo paradigma, lo stigma indelebile che non si cancella. La povertà, nel paese in cui tutto è possibile, in cui i centri commerciali traboccano delle merci più splendenti, in cui tutto, corpi, giovinezza, potere, si possono comperare, essere poveri crea rabbia e con chi sfogarla se non con coloro che non sono in condizione di difendersi e reagire? E uno stato che colpisce chi è più povero degli autoctoni, chi ha elementi di incompatibilità definiti dal vincitore di questa guerra – non ha i documenti, non ha casa, non ha un lavoro stabile, professa un’altra religione, vive ai margini, commette piccoli reati – diventa uno Stato che finisce col rappresentare gli interessi e la rabbia dei più colpiti dalla crisi, dei più delusi per essere impotenti nel Paese dei Balocchi. Forse dovremmo finalmente mutare il linguaggio: non è una guerra fra poveri. Ma è una guerra in cui un potere ricco convince i suoi poveri di essere in grado di difendere i loro interessi da poveri concorrenti. Una bugia colossale che si traduce ciclicamente in leggi, circolari, provvedimenti, tanto cattivi, quanto inefficaci alle stesse ragioni per cui vengono propagandate, quanto miseramente uguali.
Oggi abbiamo la legge sulla “Sicurezza urbana” firmata da Minniti e Orlando, due uomini che si definiscono “di sinistra” tanto da dire che “anche la sicurezza è di sinistra”. Ma le mega operazioni di polizia, a Roma, a Milano come in altre città, sono un remake di quanto già visto da decenni, indipendentemente da chi era al governo. Le parole con cui si realizzano le leggi e con cui si costruisce la cultura della paura, sono le stesse da decenni. Tranne qualche invenzione come il DASPO urbano, poco o nulla cambia rispetto ai Napolitano, ai Fini, ai Pisanu ai Maroni, tanto per citare i più noti. La frase di fondo è sempre la stessa anche se ripetuta con accenti diversi e contiene due parole “solidarietà e sicurezza”, a cui spesso si aggiunge il rafforzativo “legalità”.
Se volessimo trovare una novità questa è rappresentata, oltre che da una nostra ad oggi insufficienza, dalla presenza del M5S, capace di coniugare fascismo populista e ignoranza abissale la cui sintesi misera è ben condensata nell’ultima richiesta fatta a Roma: impedire alla Caritas di dare da mangiare ai poveri in un proprio centro. Ed è in nome di questa “sicurezza” e di questa “legalità” che gli agenti della polizia municipale, guidati dal sempiterno Antonio Di Maggio, tante volte balzato agli onori della cronaca per gli attacchi ai rom, che Nian oggi non c’è più. Ed è in nome di questa “sicurezza” che la Milano che vorrebbe dimostrarsi accogliente come Barcellona, in una giornata gelida e di pioggia da sembrare più autunnale che primaverile, scaraventa prima sui furgoni, poi in questura e per finire in mezzo alla strada, persone che avevano commesso il solo reato di esistere in un luogo in cui la loro presenza non è confacente al decoro. Già cosa pensano i turisti che arrivano a Milano se invece di incontrare nebbia e persone indaffarate trovano una città multicolore quasi mediterranea? Chi ha dato gli ordini e chi li ha eseguiti, attiene alla stessa logica perversa del vincitore, del dominante, di chi è convinto di essere il padrone di una porzione di mondo. Dire no è giusto allora e rifiutare le ipocrite lacrime di Stato o di Municipio lo è altrettanto. Che seguano gesti concreti di discontinuità, che si abbia la forza e il coraggio di non obbedire alle leggi liberticide che hanno pura radice di classe e xenofoba.
Non bastano altrimenti sfilate solidali e appelli alla convivenza, non bastano scuse, non bastano giustificazioni dettate dalle necessità imposte dalla politica e dalla “pancia del paese”. Se non si è in grado di riportare questo paese ad un semplice senso di realtà, utilizzando l’azione politica per lenire i dolori di chi sta male e non per aizzare contro chi sta peggio, ricostruendo welfare inclusivo, redistribuendo risorse e lavoro, garantendo equità e dignità, se non si è in grado di dare prospettive di futuro a chi di futuro non ne vede sarebbe meglio, molto meglio, rinunciare a ricoprire ruoli pubblici per cui si è evidentemente inadeguati.
A chi è comunista realmente, a chi, non credendo nella religione neoliberista, ha compreso che o si realizza un mondo aperto e di alleanza fra sfruttati o si resterà sempre sotto qualche giogo, spetta il compito di ritessere un avvenire che oggi, fra i pattuglioni di Milano e la fine di Nian è più difficile intravedere.
Stefano Galieni
Resp. PRC immigrazione
3/5/2017 www.rifondazione.it
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