Sabotare il dominio

Dopo gli studi di genere, il campo di analisi preso di mira dalle destre è stata la cosiddetta teoria critica della razza (Crt), un approccio teorico nato dagli studi di Richard Delgado e Jean Stefancic che nel loro Critical Race Theory: An Introduction, si proponevano di esaminare i sistemi di oppressione che perpetuano la disuguaglianza razziale nella società. Negli ultimi mesi, la Crt è stata presa di mira dal presidente Trump, che, nel suo discorso al National Archives Museum, l’ha definita come una teoria fatta di «inganni, falsità e menzogne« che sostiene che «l’America è una nazione malvagia e razzista«, e che «la nostra intera società deve essere radicalmente trasformata«. Una posizione simile è stata presa nel governo inglese, quando lo scorso 20 ottobre il ministro Kemi Badenoch si è detto «inequivocabilmente contrario» alla teoria. «Non vogliamo che gli insegnanti insegnino ai loro alunni bianchi il privilegio dei bianchi e la colpa razziale ereditata», anzi «qualsiasi scuola insegni questi elementi di teoria razziale critica» […] «sta infrangendo la legge». Qualche giorno fa, la rivista conservatrice Spiked ha pubblicato un longform su questo tema, evidenziando la pericolosità di un’analisi che non vede la razza come un fatto biologico, come vorrebbero le destre, ma come un sistema di oppressione sociale. Il testo, che nel finale ammoniva di non ignorare il progresso portato dal capitalismo liberale per cercare «ulteriori cambiamenti inutili», era forse uno dei più involontari riconoscimenti dell’importanza di tutta quella scuola di pensiero che negli ultimi decenni è riuscita faticosamente a farsi strada dalle accademie alle piazze, portando al centro del dibattito pubblico termini come razzismo sistemico, privilegio bianco e intersezionalità, e che secondo gli autori sta alla base dell’origine stessa del movimento globale #BlackLivesMatter. Ma se la Crt è così importante, perché questo accanimento contro di lei?

Ce lo spiega bene Marco D’Eramo, che nel suo ultimo libro racconta il ruolo delle idee nelle fasi di controrivoluzione, nei momenti, cioè, in cui il capitalismo si ristruttura per riprendere il controllo sulla società. È da qualche decennio che Marco D’Eramo si conferma un punto di riferimento intellettuale in Italia, dal suo indimenticabile Il Maiale e il Grattacielo (1995), che raccontava con una prosa di rara eleganza, come si trasformano le derrate agricole, le mele le carote o la carne, in un future, un titolo finanziario prezzato alla borsa di Chicago sulla base delle aspettative di mercato. Il suo successivo Il selfie del Mondo (2017), raccontava in modo altrettanto immaginifico come il turismo contemporaneo divori, di fatto, le città, dopo che la competizione a ribasso ha divorato tutti i modelli produttivi che le abitavano in precedenza. Questo testo non è da meno, anche se tratta un tema più cupo. In questo caso D’Eramo non ci racconta il mercato dei future né del turismo, ma la funzione del mercato delle idee, nella nostra società, in altre parole: il Dominio

Torniamo dunque a Spiked, perché il primo tassello che D’Eramo ricostruisce è proprio il ruolo della promozione di determinate idee negli ultimi cinquant’anni, dalla scuola di Chicago a oggi. In un recente articolo sul Guardian, George Monbiot si soffermava precisamente su Spiked, finanziata in parte dalle donazioni della Charles Koch Foundation per promuovere un discorso anti-ambientalista, negazionista sui temi del cambio climatico e della pandemia, e orientato alla difesa  di figure di destra come Alex Jones, Toby Young, Arron Banks o Viktor Orbán. 

D’Eramo nel suo testo racconta la storia di magnati come i fratelli Koch, diventati ricchi nei settori più classici dell’industria: le infrastrutture petrolifere, e della Koch Foundation, uno dei principali finanziatori della rivista Spiked

Per d’Eramo, dagli anni Settanta in poi, Fondazioni come Bradley, Olin, Mellon Scaife, Richardson e Koch hanno seguito una strategia «in tre tappe» esplicitata nel 1976 da Richard Fink – che sarebbe diventato poi presidente e direttore delle varie fondazioni Koch. Scrive D’Eramo:

Fink consegna a Charles Koch The Structure of the Social Change, una concisa direttiva per determinare come ‘l’investimento nella struttura della produzione delle idee può fruttare maggiore progresso economico e sociale quando la struttura è ben sviluppata e ben integrata». In questo breve testo Fink adottava una prospettiva «manageriale»: considerava le idee come prodotti di un investimento per una merce da imporre sul mercato: prima da produrre e poi da vendere (p. 24). 

D’Eramo qui torna alla sua passione: comprendere come il mercato si presti alla compravendita di qualunque cosa, anche se devasta la società. «Realizzare un cambiamento sociale richiede una strategia integrata verticalmente e orizzontalmente« che deve andare dalla «produzione di idee allo sviluppo di una politica all’educazione, ai movimenti di base, al lobbismo, all’azione politica«, scriveva  Charles Koch nel sintetizzare la strategia (p. 26).

D’Eramo segue la «contro-rivoluzione« degli ultimi cinquant’anni e la descrive come un affare militare, un’operazione di counterintelligence che dagli anni Settanta si serve di think tanks per diffondere idee funzionali al perseguimento di precisi obiettivi politici.

«Il nostro scopo è di far arretrare lo stato» – roll back the state – dice Charles Koch nel 1978: «Rimodellare, risagomare lo stato per renderlo funzionale al sistema di libera impresa» (p. 98). Come disse Antonin Scalia nella riunione inaugurale della Federalist Society del 1982: «Tenete sempre presente che il governo federale non è cattivo, ma buono. Il trucco è usarlo accortamente» (p. 29).

In questo modo, l’epoca neoliberale taglia i diritti all’istruzione, alla salute, alla pensione, e li sostituisce con una crescita delle diseguaglianze, della povertà e del debito, redistribuendo contemporaneamente la ricchezza dai poveri ai ricchi. È la storia degli ultimi cinquant’anni. D’Eramo racconta come la vita sociale si sia trasformata gradualmente in una macelleria, la stessa che abbiamo visto dipanarsi negli questi mesi, uno spettacolo della morte che dispiega dallo smantellamento della sanità, dall’assenza di tutele per i lavoratori, dall’aumento di persone sulla strada, da un’idea legittima di sacrificabilità che non annerva più l’indignazione. D’Eramo descrive tutto questo come una pornografia sociale: l’eredità di quegli «olocausti tardovittoriani», come li ha chiamati Mike Davis, che «in Asia, Africa e America Latina nel diciannovesimo secolo uccisero decine di milioni di persone «assassinate dalla teologica applicazione dei sacri principi di Smith, Bentham e Mill» (p. 148). Il punto da mettere in evidenza, in tutto questo, non è solo la devastazione di cui siamo testimoni, ma come questa sia stata legittimata. La parte più interessante di Dominio, infatti, è quella che non solo evidenzia la pornografia sociale ma ci spiega il sistema che le legittima, finanziando narrazioni tese a normalizzare le diseguaglianze e a trivializzare i movimenti sociali che provano a contrastarle. 

Quello che fa Spiked.

«La rivista Spiked diretta da O’Neill – scriveva sempre sul Guardian George Monbiot – sembra odiare la sinistra. Inveisce contro lo stato sociale, contro la regolamentazione, contro il movimento Occupy, contro gli anticapitalisti, contro Jeremy Corbyn, contro George Soros, contro il #MeToo, contro il «privilegio nero» e Black Lives Matter. Lo fa in nome della «gente comune», che, sostiene, è oppressa dalle «élite culturali anti-Trump e anti-Brexit», dalle «élite femministe», dalle «élite verdi» e dai «politici cosmopoliti». 

Tutto questo suona familiare, in Italia, specie in questi giorni in cui la denuncia femminista alla violenza sulle donne viene definita come «il napalm dei nostri tempi» e trivializzata insieme allo stupro e alle sacrosante ragioni di tutte quelle minoranze sessuali che questo paese dalla nostalgia imperiale continua a soffocare. D’Eramo spiega che le destinazioni «a prima vista aberranti del denaro distribuito dalle fondazioni» in realtà hanno una lunga storia (p. 78). Le stesse Fondazioni negli anni Novanta hanno finanziato The Bell Curve, libro che afferma l’inferiorità intellettuale dei neri e nel quale gli autori, Charles Murray e Richard Herrnstein chiedono di smantellare lo stato sociale e di porre fine alla tendenza dello stato di dare sussidi ai poveri, in quanto in questo modo lo stato incentiva le donne nere e povere ad avere figli, e così facendo permette anche la riproduzione delle popolazioni inferiori, quelle donne nere e povere che «hanno anche livelli sproporzionatamente più bassi di quoziente intellettivo» (Murray & Herrnstein, 1994: 336). Posizionamenti così efferati vengono da allora difesi con intransigenza dalle nuove destre, per riprodurre un’idea del mondo fondata sulla gerarchia sociale dove la diseguaglianza non è conseguenza di un sistema violento ma di qualche fattore biologico e naturale, trasformando i perdenti di questa guerra darwinista per la sopravvivenza in capri espiatori e agnelli sacrificali. In un certo senso, è questa la causa dell’ossessione contro la teoria critica della razza (Crt), che questa incarna il primo movimento globale che riesce a riportare al centro dell’agenda internazionale la necessità di sovvertire un ordine capitalista fondato sul razzismo e il patriarcato che ha già guastato il mondo. Non si tratta solo di «politicamente corretto»: si tratta di prestare attenzione alle narrazioni che promuovono attivamente la disumanizzazione di interi gruppi sociali e ne legittimano lo sfruttamento, lavorando perché la giustizia sociale richiesta dalle minoranze, i movimenti LGBTQ+, le donne, i poveri e i disabili, trovi risonanza politica e spazio di affermazione.

Il testo di Marco D’Eramo dedica ampie pagine alla ricostruzione di questo scontro politico e delle sue strategie, soffermandosi anzitutto sugli strumenti della controrivoluzione. In Italia, dove questa procede inosservata da tempo, la sua genealogia appare più che mai utile e importante.

Francesca Coin

2/12/2020 https://jacobinitalia.it

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