Salari più bassi, contratti meno equi. Ecco i dati del lavoro in Italia

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Non basta lavorare per essere al riparo dalla povertà. L’Italia, infatti, è l’unico dei paesi Ocse in cui c’è stata una riduzione del salario medio tra il 1990 e il 2020 (circa 3 punti percentuali) e nello stesso periodo sono aumentate anche le disuguaglianze salariali: nel periodo tra il 1990 ed il 2017 l’indice di Gini del reddito da lavoro è passato da 36.6 punti nel 1990 al valore di 44.7 nel 2017. Il fenomeno dei bassi salari, e della povertà lavorativa più in generale, è un grande tema per il nostro paese ed è l’oggetto del Report del Forum Disuguaglianze e Diversità I lavoratori e le lavoratrici a rischio di bassi salari in Italia, da cui emerge che nel periodo 1990-2017 la soglia relativa alla retribuzione bassa in Italia è diminuita (circa l’8% in meno) raggiungendo i 10,919 euro annui a partire da 11,673 euro annui, e al tempo stesso l’incidenza dei bassi salari è aumentata da 25.9 punti percentuali nel 1990 a 32.2 punti percentuali nel 2017 sul totale dei lavoratori italiani.
Se si guarda ai soli lavoratori dipendenti privati, il Report inoltre mostra come la percentuale di lavoratori e lavoratrici che riceve bassi salari annuali oscilla tra il 26,8% e il 30% (a seconda che si consideri, rispettivamente, chi lavora più di 3 mesi l’anno o tutti coloro che hanno versato dei contributi nel corso del 2018). L’incidenza dei bassi salari è maggiore tra le donne, i giovani nella fascia 16-34 anni e i residenti al Sud e tra quanti hanno un contratto di lavoro part-time. Questo dato risulta significativo se si considera che in Italia ad essere impiegate nel part-time sono prevalentemente le donne e che la maggior parte del part-time (secondo i dati Ocse più del 60%) è involontario. Il Report mostra che l’aumento dei lavoratori e delle lavoratrici a basso salario dipende da due fattori: il salario orario e il tempo di lavoro. Per quanto riguarda il primo fattore, ha sicuramente inciso il cambiamento nella struttura occupazionale avvenuto negli ultimi trent’anni anni – con la crescita di settori low-skilled, come quello dei servizi a famiglie e turistici, nei quali la retribuzione non è sufficiente per uscire dalla spirale della povertà –e l’aumento dei contratti collettivi nazionali che coincide anche con una crescente tendenza al mancato rispetto dei minimi tabellari da essi fissati. Per quanto riguarda il secondo, hanno inciso le numerose riforme di deregolamentazione contrattuale, che hanno permesso la moltiplicazione delle tipologie di contratti atipici e spesso precari, e la forte diffusione del part-time.

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Rapporto Opsan – La sanità non è per tutti

L’indagine dell’Osservatorio sulla povertà sanitaria (www.opsan.it) organo di ricerca della Fondazione Banco farmaceutico, onlus creata nel 2008 rivela che: nel 2022 sono state 390 mila le persone costrette a ricorrere a svariate realtà assistenziali per potersi curare. Si torna a parlare di povertà assoluta confermando i dati del Rapporto Censis 2022 aggiungendovi quello relativo alla “povertà sanitaria”.

Il Servizio sanitario nazionale, lascia fuori della porta moltissimi cittadini. Nel Rapporto si legge che: «nel 2021 (ultimi dati disponibili) il 43,5% (cioè 3,87 miliardi di euro) della spesa farmaceutica è stata pagata dalle famiglie (+6,3% rispetto al 2020), con profonde differenze tra le possibilità di quelle povere e quelle non povere».

In sostanza gli indigenti hanno a disposizione pro capite 9,9 euro mensili contro i 66,83 euro di chi indigente non è.

Restando nel solo campo dei farmaci la quota a disposizione dei meno abbienti è pari a 5,85 euro mensili contro i 26 euro di chi dispone di maggiori entrate.

In sostanza, il 60% della spesa sanitaria di chi vive in povertà finisce in “emergenze” mentre le famiglie con maggiori risorse destinano il 38%.

Perché avviene questo? Per un meccanismo perverso – figlio dei tanti tagli subiti nel tempo dall’assistenza farmaceutica del Ssn – non esiste copertura per i i cosiddetti farmaci Otc, quelli «da banco»; si è creata così una vera e propria frattura tra coloro che sono sotto la soglia di povertà e coloro che, invece, ne sono al di sopra.

Aumentano anche le diseguaglianze tra le fasce più ricche della popolazione e quelle medio-basse: nel 2021 a ridurre le spese sanitarie a loro carico (la rinuncia riguarda in generale le visite mediche e gli accertamenti diagnostici periodici) sono stati oltre 4 milioni e 768 mila famiglie (pari a quasi 11 milioni di persone). Di queste, neanche a dirlo, 1 milione e 884 mila persone vivono sotto la soglia della povertà assoluta.

IL RAPPORTO www.opsan.it/cosa-facciamo/osservatorio-sulla-povert%C3%A0-sanitaria

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