Salario minimo, l’ambigua proposta di una sinistra al minimo
Salario minimo, che differenza c’è tra la petizione delle opposizioni e la legge di iniziativa popolare
E’ sicuramente un’ottima notizia quella delle oltre centomila firme raccolte online al lancio della legge di iniziativa popolare per il salario minimo, presentata dalle opposizioni. Testimonia di un bisogno urgente nella classe lavoratrice, martoriata dal punto di vista dei diritti e dei salari per decenni, oggi vittima di una nuova ondata inflazionistica che ha portato all’emersione massiccia del lavoro povero e sempre più sfruttato (ne avevamo parlato al lancio della legge promossa da Unione popolare). E’ anche un bene che le opposizioni si siano decise, anche di fronte al muro del governo delle destre, di lanciare una petizione e cominciare a coinvolgere in qualche modo la popolazione in questa battaglia, che può essere vinta solo con lo sviluppo di un movimento di massa e non certo nel dibattito parlamentare, specie nel Parlamento più a destra della storia della Repubblica.
Tuttavia l’iniziativa di (quasi) tutte le opposizioni parlamentari non è sufficiente sia dal punto di vista del merito della proposta e degli stessi proponenti, sia per quanto riguarda il metodo della battaglia messa in campo.
Nel merito della proposta, le differenze più importanti tra il progetto di legge delle opposizioni e quello di Unione popolare (sostenuto attivamente anche da Sinistra Anticapitalista), sono tre: la prima differenza, forse quella meno significativa, riguarda l’importo del salario minimo, che sarebbe fissato a 9 euro orari anziché 10. Questo terrebbe fuori una fetta consistente di lavoratori poveri, ma di per sé non sarebbe un problema grave, visto che l’imposizione per legge di un minimo salariale potrebbe ridare slancio all’aumento dei salari per tutte e tutti. Il problema vero è che con l’inflazione in corso a due cifre per quanto riguarda i consumi delle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici, rischia di essere troppo poco anche un salario nominale minimo di 10 euro, considerati i tempi di approvazione della norma, che sono destinati ad essere piuttosto lunghi. Oggi la presidente del consiglio, sia pur aprendo a qualche forma di salario minimo solo in alcune categorie, ha addirittura dato due mesi di tempo al Cnel per elaborare una proposta alternativa e portarla alla discussione parlamentare, poi ci sarà il dibattito, con le opposizioni che sono destinate ad andare in ordine sparso a mediare questo o quell’aspetto con il Governo, come ha dimostrato già Calenda all’indomani del confronto a palazzo Chigi. Insomma se tutto dovesse andare (e non lo andrà) per il meglio, non se ne parla entro la fine dell’anno.
La seconda differenza importante riguarda proprio l’aggancio del salario minimo all’inflazione, che non è previsto in maniera automatica nella legge proposta dalle opposizioni, in cui è invece rimesso alla discrezione di una commissione composta da governo e parti sociali che ogni anno dovrebbe vagliare l’opportunità di aggiornare l’importo. La proposta da noi sostenuta invece prevede l’adeguamento automatico due volte l’anno dell’importo del salario minimo orario al tasso di inflazione calcolato dall’Istat, reintroducendo così, seppure inizialmente solo per il salario minimo, una sorta di scala mobile dei salari, esigenza oggi sempre più urgente vista la ripresa dell’inflazione che colpisce in maniera particolare i redditi da lavoro dipendente, che non sono più indicizzati in alcun modo al costo della vita da decenni.
La terza differenza, forse quella più significativa, riguarda i soggetti che dovrebbero pagare gli aumenti salariali conseguenti ad una eventuale approvazione della legge. Le opposizioni infatti propongono che lo Stato risarcisca in qualche modo gli imprenditori che, pagando salari al di sotto del minimo legale, dovrebbero adeguare le retribuzioni dei propri dipendenti. Intanto questo allungherebbe ancora di più i tempi di entrata in vigore della norma, visto che andrebbero specificati in ulteriori decreti applicativi questi sostegni agli imprenditori che adeguerebbero il salario. Ma soprattutto il peso economico dell’introduzione del salario minimo sarebbe a carico della fiscalità generale, in grandissima parte finanziata dai lavoratori e dalle lavoratrici dipendenti, anziché gravare su quegli stessi imprenditori che stanno ottenendo profitti dall’ipersfruttamento del lavoro salariato. E’ la solita illusione/trappola riformista di poter migliorare le sorti di alcuni senza scontentare gli altri, che non fa i conti con una banale verità conosciuta fin dai tempi degli economisti classici, che la distribuzione dei redditi tra salari è profitti è antagonistica: non si può aumentare gli uni senza diminuire gli altri.
Venendo ai proponenti di questa iniziativa, c’è poco da fidarsi. Il PD e il Movimento cinque stelle hanno governato per quasi tutta o tutta la scorsa legislatura, da ultimo sostenendo insieme a pezzi della destra il governo Draghi, e non si è vista l’ombra di un disegno di legge di iniziativa governativa, di quelli che vanno sempre in porto, in merito all’introduzione di una qualsiasi forma di salario minimo. Anzi nei cinque anni di legislatura i salari hanno continuato a restare indietro, i contratti pubblici non hanno recuperato neanche la bassa inflazione allora in corso, hanno proliferato sindacati filopadronali e contratti pirata, i rapporti di lavoro sono stati ulteriormente deregolamentati ed esposti ai capricci del mercato capitalistico, della precarietà e del lavoro nero. L’unico partito tra le opposizioni che può vantare una coerenza in questo senso è Sinistra italiana, che però ha scelto strutturalmente di comportarsi da orpello decorativo di sinistra di chi ha governato nell’interesse delle classi dominanti. Non ci vuole tanta fantasia per capire che anche la proposta moderata su cui si stanno raccogliendo le firme verrà stravolta dalle mediazioni che questi soggetti hanno già cominciato a cercare in Parlamento, con una destra feroce e incallita nella sua guerra alle classi popolari, che va invece sconfitta nel Paese e cacciata dalle istituzioni repubblicane il prima possibile.
In conclusione, nonostante la spinta positiva della grande adesione alla raccolta di firme, il problema di fondo di questa battaglia è che, se si vuole ottenere un risultato significativo, non può essere lasciata sotto la guida dei partiti attualmente all’opposizione in Parlamento. E’ necessario che le lavoratrici e i lavoratori facciano propria la rivendicazione di un salario minimo dignitoso, collegata alla reintroduzione della scala mobile e di un salario sociale per i disoccupati, e che questa rivendicazione viva nelle battaglie sindacali, sui luoghi di lavoro, negli scioperi generali e nelle iniziative di mobilitazione che bisogna riprendere in autunno. Solo con una ripresa del protagonismo della classe sarà possibile evitare le furberie di tecnica legislativa, volte a far ricadere sempre sui soliti soggetti il peso di eventuali misure di sostegno del reddito, e le trappole dei compromessi parlamentari, che mirano a svuotare di senso una battaglia non più rinviabile.
Ora qualsiasi esponente del Pd, pentastellato o calendiano, sa bene che è una battaglia di facciata che, anche se la norma dovesse passare intatta, sarebbe pressoché indolore per i datori di lavoro e beffarda per i lavoratori in generale visto che si risolverebbe in una sorta di perversione del mutualismo, ossia soldi che transitano dal basso verso l’alto. E’ proprio per questo che la proposta è stata sposata con clamore anche dalla stampa padronale progressista ed è stata capace di polarizzare il dibattito politico. A questo va aggiunto che i sondaggisti hanno sottolineato che perfino buona parte dell’elettorato di Meloni e Salvini vedrebbe di buon’occhio una misura del genere così come molti di loro non avrebbero certo fatto a meno del reddito di cittadinanza. Questa polarizzazione, tuttavia, rischia di marginalizzare una battaglia sacrosanta a vantaggio di un teatrino della politica incapace di fornire alternative concrete. E’ quello che sta accadendo anche a proposito di altri temi: il carcere, l’immigrazione, il Pnrr o, più evidente di altro, la cosiddetta tassa sulle banche, imitazione striminzita di una legge spagnola, una tantum, scritta malissimo, destinata a tali e tante manipolazioni in sede di dibattito parlamentare da tramutarsi in una beffa per tutti e una occasione perduta che farà tornare indietro il senso comune per l’ennesima breccia che si apre solo in apparenza. Che fare? Servirebbe una breccia nel fronte delle opposizioni, probabilmente la più cosciente della contraddizione è Sinistra Italiana ma vive da sempre in una simbiosi col Pd che la paralizza anche per via degli effetti delle alchimie maggioritarie, le stesse che consentono a Meloni di fare il bello e il cattivo tempo senza una maggioranza reale. Restano le urgenze di un VERO SALARIO MINIMO pagato dai padroni e di una VERA tassa sugli extraprofitti di banche e industrie estrattive carbonifere.
Francesco Locantore
16/8/2023 https://www.popoffquotidiano.it
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