Salario minimo legale e lavoro sommerso
Tra le argomentazioni addotte dai sostenitori dell’opportunità di istituire anche in Italia il salario minimo legale (in seguito: s.m.l.), c’è un elemento abbastanza ricorrente. Infatti, di là delle specifiche motivazioni che sostengono ciascuna “ipotesi di lavoro”, si riscontra un comune riferimento al problema del “sommerso”. A parere di qualcuno il s.m.l. potrebbe, addirittura, rappresentare la soluzione alla piaga del c.d. lavoro “sommerso”.
Walter Galbusera[1], ad esempio, ritiene che “Non è uno strumento da cui attendersi miracoli ma semplicemente (il che non è da sottovalutare) una maggiore protezione delle fasce più deboli dei lavoratori. A questo si aggiunge il mondo sommerso del nero, per cui il salario minimo può essere utile, ma non risolutivo”.
Tito Boeri e Roberto Perotti[2] (al pari di altri “addetti ai lavori”), che, ormai da diversi da anni, sostengono l’introduzione di tale strumento, sono, sostanzialmente, sulla stessa posizione: “Un secondo vantaggio dell’introduzione di un salario sufficientemente basso è che offrirebbe un incentivo in più per uscire dal sommerso; un’azione oggi troppo costosa per molte aziende al livello di salario minimo stabilito dalla giurisprudenza”.
Pietro Ichino ritiene che il minimum wage dovrebbe rappresentare: “Un minimo universale al di sotto del quale non poter scendere neanche nei rapporti di lavoro marginali, atipici, occasionali, o comunque esclusi dal campo di applicazione dei contratti collettivi”; campo nel quale, evidentemente, fanno parte anche i lavoratori del sommerso.
Il disegno di legge-delega che giace al Senato, prevede, invece, l’introduzione, in via sperimentale, di un compenso orario minimo, limitato “ai settori non regolati da contratti collettivi sottoscritti dalle OO.SS.…………comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Ciò, però, è molto ambiguo, perché l’efficacia di uno strumento legislativo – che dovrebbe avere lo scopo di rappresentare uno standard inderogabile per tutti – non andrebbe limitata alla presenza o meno di un contratto collettivo
Naturalmente, ne consegue la difficoltà di stabilire un livello minimo “congruo”; in grado cioè di non vanificare il ricorso alla legge. Infatti, un salario minimo fissato a un livello troppo alto finirebbe, inevitabilmente, con l’arrecare più danni che benefici all’occupazione e produrre più lavoro “nero”. Contemporaneamente, un livello troppo basso, considerate le motivazioni addotte per la sua istituzione anche nel nostro Paese, non avrebbe alcun senso logico.
In questo senso, quindi, come già rilevato in altra sede,[3] l’ipotesi di Renzi, di fissare il valore del salario minimo legale tra i 9 e i 10 euro l’ora, appare una vera e propria “bufala”. Si tratterebbe di un importo ampiamente superiore alla maggioranza dei minimi contrattuali oggi vigenti in Italia e rappresenterebbe, in UE, un valore superiore a quello vigente in Francia e in Germania, secondo solo a quello del Lussemburgo.
Boeri e Perotti, così come Ichino, sostengono che un salario minimo “Deve essere fissato a un livello basso[4]”.
Esso andrebbe fissato, a loro parere, avendo presente le condizioni del mercato del lavoro nel Mezzogiorno, “Ponendolo a un livello tale da renderlo vincolante solo per le categorie più deboli, differenziandolo in base all’età, come in Olanda”.
Al riguardo, anche se è condivisibile che i due studiosi non riespongano – a differenza di altri – la vecchia teoria delle c.d. “gabbie salariali”, prevedendo una differenziazione per regioni o macro/regioni (come pare proporre Ichino), non convince la motivazione che adducono nell’escludere – dal “beneficio” del s.m.l. – i lavoratori più anziani:” Un salario minimo che protegga i lavoratori anziani più deboli metterebbe fuori mercato i più giovani”.
Ovviamente, la “copertura” garantita dal s.m.l. dovrebbe essere fissata a un livello più vicino a quella degli Usa (40 per cento del salario orario medio) che a quella dell’UE (oscillante dal 50 al 60 per cento nel settore manifatturiero).
Ci si chiede, quindi, quanto di tutto questo sia compatibile con quelli che appaiono essere i dati relativi al lavoro “nero”.
Per verificarlo, mi affido a un recentissimo Focus organizzato da Censis e Confcooperative: “Negato, irregolare, sommerso: il lato oscuro del lavoro”.
A parte la diffusione del sommerso sul piano territoriale, che vede, purtroppo, primeggiare le regioni del Sud e i settori nei quali il fenomeno è più diffuso, quello che ci interessa, in modo particolare, in questa sede, è la voce “retribuzione oraria”.
Rilevato che risiede nelle famiglie il triste primato del lavoro irregolare – un valore che si attesta ormai intorno al 60° per cento – va, però, operata una distinzione.
Dice, infatti, Maurizio Gardini[5]:“ Tra il tasso di irregolarità presente tra le badanti e quello di un lavoratore sfruttato nei campi o nei cantieri o nel facchinaggio, c’è una sostanziale differenza”.
Limitandomi solo a qualche cifra, va rilevato che è nell’ambito delle attività agricole e del terziario che permane uno stock di occupati non regolari: nel primo caso il tasso è del 23,4 per cento, mentre nel secondo – nello specifico delle attività artistiche, di intrattenimento e di altri servizi – è pari a circa il 22,7 per cento. Nel settore alloggi e ristorazione si stima una percentuale del 17,7 % e nelle costruzioni del 16,1%. Più contenuti rispetto alla media riferita al totale delle attività economiche, ma in crescita, negli ultimi anni oggetto della verifica, dal 2012 al 2015, i valori relativi a trasporti e magazzinaggio (10,6 %) e al commercio (10,3%).
Detto questo, è interessante rilevare che, secondo la Commissione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, istituita presso il Ministero dell’Economia e delle Finanze: “Considerato l’insieme delle attività economiche, il salario orario medio sostenuto dalle imprese per retribuire un lavoratore regolare dipendente è di 16 euro; quello pagato dalle aziende per un lavoratore irregolare corrisponde a 8,1 euro cioè circa la metà del salario orario lordo”!
In questo quadro appare in tutta la sua irrazionalità e incoerenza, l’idea di istituire – in un’Italia in cui i lavoratori subordinati già guadagnano meno dei corrispondenti francesi e tedeschi (pur lavorando più ore nel corso del mese e dell’anno – un salario minimo legale “a un valore molto basso”, come suggeriscono “gli esperti” di turno!
Infatti, considerato: 1) pari a 7 euro l’ora il livello minimo cui riferirsi nella stragrande maggioranza dei Ccnl applicati in Italia; 2) il “non/senso” di un s.m.l. pari a quello (stratosferico) di 9 o 10 euro l’ora “sparato” da Renzi e 3) una paga oraria che, nel sommerso, già si aggira – secondo fonti molto attendibili – intorno agli 8 euro, istituire un salario minimo legale pari o, addirittura, inferiore a quella che – orientativamente – è oggi la retribuzione corrispondente a un’ora di lavoro irregolare, sarebbe suicida per i lavoratori e un invito alle imprese a sostituire i minimi contrattuali con il s.m.l.
[1] “Fondazione Kuliscioff”, 10 gennaio 2018
[2] “Lavoce.info”, 11 maggio 2004
[3] “Perché sono contrario al salario minimo legale”, febbraio 2018
[4] Vedi nota 2
[5] Presidente in carica di Confcooperative
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
7/2/2018
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