Salute mentale, la liquidazione di Basaglia parte da Trieste?
Se c’è un simbolo della rivoluzione che Franco Basaglia ha portato nella psichiatria, è sicuramente Marco Cavallo, la grande statua blu che ha sfondato le mura del manicomio di San Giovanni a Trieste. Lo psichiatra Peppe dell’Acqua lo definisce «uno storico del presente», da cinquant’anni in prima linea nelle battaglie per i diritti e la democrazia. Oggi, Marco Cavallo è, per Paolo Polidori, il sindaco leghista di Muggia – la cittadina giuliana in cui aveva la sua “stalla” –, un ingombro da rimuovere. È così, questo illustre testimone del processo di deistituzionalizzazione è sotto sfratto. Ma, secondo cittadini e rappresentanti del mondo basagliano, a essere un ingombro di questi tempi è anche ciò che il cavallo rappresenta: un approccio democratico e aperto alla salute mentale, incentrato sull’attenzione e la cura dei bisogni – non solo medici – delle persone più fragili.
Il capoluogo del Friuli Venezia Giulia, infatti, è conosciuto in tutto il mondo per essere l’epicentro del grande scossone nella psichiatria che ha portato alla nascita della legge 180 e all’inizio del percorso di chiusura dei manicomi, continuato nel 1997 dall’allora ministra Rosy Bindi. Il Dipartimento di Salute mentale di Trieste è un’eccellenza riconosciuta anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), che già nel 1975 lo indicava come esperienza pilota della deistituzionalizzazione e di cui è diventato nel 1987 Centro Collaboratore. Oggi, tuttavia, molti allievi di Basaglia denunciano il rischio di una brusca virata nelle modalità di presa in carico e di gestione dei disturbi psichiatrici nell’Azienda sanitaria universitaria giuliano – isontina (Asugi). «Fino al 2018 e all’arrivo della Giunta Fedriga il sistema triestino era ben organizzato e, a nostro parere, funzionava», afferma lo psichiatra Franco Rotelli, uno dei principali attori della deistituzionalizzazione, già direttore generale dell’Azienda sanitaria di Trieste. «C’erano quattro distretti ben funzionanti, con servizi di prossimità e di supporto alle fragilità e ai cittadini in generale. Tutto questo è stato attaccato fin da principio, per motivi ideologici». Del resto, non è un mistero che nel 2019, durante una conferenza sulla Salute mentale nei pressi di Udine, Riccardo Riccardi, vicegovernatore e assessore alla Sanità del Friuli Venezia Giulia, abbia detto che l’attualità e l’adeguatezza dell’organizzazione basagliana vadano verificate, nell’interesse dei pazienti e dei loro familiari.
«Il sistema triestino è, dopo tanti anni, ancora all’avanguardia», afferma Claudio Cossi, presidente dell’associazione A.Fa.So.P. NoiInsieme Onlus, che riunisce familiari di pazienti con problemi di salute mentale. «La persona che ricopriva prima di me il ruolo di presidente, per esempio, si era trasferita da Roma per curare il figlio. Ora ha dovuto tornare nella sua città, l’ho sentito da poco, mi ha detto che da loro non ci si può presentare al Centro di salute mentale (Csm) dicendo di star male, bisogna prenotare una visita, che di solito viene fissata dopo almeno 20 giorni e l’esito è spesso solamente la prescrizione di farmaci». Lo spettro di un modello medicalizzante, però, sembra aleggiare anche su Trieste. «Quando una quindicina di anni fa mio figlio è stato ricoverato in uno dei quattro Csm della città, quello di via Gambini, è stato trattato coi farmaci, ma dopo dieci giorni è iniziato un percorso di sostegno molto articolato. L’hanno persino aiutato a recuperare degli anni scolastici che aveva perso; si era creata un rapporto di fiducia», continua Cossi. «Oggi gli operatori sono sempre più stremati e meno disponibili. Qualche tempo fa siamo tornati a via Gambini per un appuntamento: c’era una lunga fila per il ritiro dei medicinali, all’esterno. Una volta, quando andavi a prendere i farmaci, ti potevi fermare a parlare, a prendere un caffè. Le relazioni erano una parte centrale della presa in carico». Sembra sia venuta a mancare parte della formazione specialistica per il personale, che si fa sempre più esiguo. Le sostituzioni dei dottori – non solo nell’ambito della salute mentale – non sempre sono tempestive e i concorsi a volte si fanno attendere a lungo. Per un preciso disegno politico, sostengono i basagliani. «Vengono bloccate le assunzioni, incoraggiate le pensioni e ridotto il personale», chiosa Rotelli, «Gli operatori sono demotivati, c’è una riduzione sostanziale dei servizi domiciliari e sanitari». Pierfranco Trincas, nuovo direttore del Dipartimento di Salute mentale e del Csm di Barcola, è di diverso avviso. «La carenza di medici è un problema che attanaglia tutta la Penisola: credo che il numero chiuso all’Università non sia stato utile», dice. «Le persone che si presentano ai concorsi sono poche. Non credo ci siano intenti di andare verso una privatizzazione, come dicono alcuni: semplicemente non c’è disponibilità di operatori». La sua opinione, però, non è condivisa da alcune persone vicine al mondo della deistituzionalizzazione, che hanno delle riserve anche sulla nomina dello psichiatra cagliaritano. L’orale del concorso con cui il candidato è passato dalla terzultima alla prima posizione sarebbe stato fatto a porte chiuse, sostengono. Il medico, ormai sessantasettenne, lavorava in precedenza nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura del SS. Trinità di Cagliari. «All’inizio ci sono state delle polemiche perché vengo da fuori Regione e sono stato additato come una persona lontana dal modello basagliano», dice il medico, «ma ora chi collabora con me a Barcola, i pazienti e i familiari hanno riconosciuto il mio impegno: l’esperienza triestina è bellissima e intendo continuarla. Avrei potuto andare in pensione lo scorso agosto, ma ho deciso di rimanere, perché credo fortemente nel mio lavoro».
A spaventare particolarmente le persone con malattie psichiatriche e i loro parenti sono le riduzioni negli orari e nella funzionalità dei quattro Centri di salute mentale, prima attivi 24 ore su 24. Con il Covid-19, infatti, due delle strutture, via Gambini e Barcola, hanno subito un dimezzamento dell’apertura, passata a 12 ore al giorno. «La riduzione dei servizi in due strutture su quattro ha causato non pochi problemi ai pazienti e ai familiari», commenta Cossi. «Ora Barcola ha ripreso la piena funzionalità, mentre via Gambini no». In quest’ultimo centro», spiega Trincas, «devono essere fatti dei lavori per la messa in sicurezza e quindi l’edificio non sarà fruibile per qualche mese e le attività saranno trasferite in una struttura vicina». A turno, i lavori toccheranno anche agli altri Csm. «Speriamo di poter trovare per tutti delle sedi temporanee», si augura il primario, «per continuare a garantire l’importante servizio territoriale dei centri». Per chi soffre di una malattia mentale, sicuramente queste chiusure sono preoccupanti. Ma a spaventare ancora di più è quanto si è appreso a fine 2021 dalla prima bozza del nuovo atto aziendale di Asugi, al momento bloccato, dopo le proteste che hanno attraversato la Venezia Giulia. I distretti sanitari di Trieste, che ora sono quattro, dovrebbero ridursi della metà. La stessa sorte avrebbe dovuto toccare ai Csm; quest’ultimo pericolo, tuttavia, sembra scampato. Una piccola vittoria, arrivata dopo una grande mobilitazione a difesa della salute mentale da parte della cittadinanza. Alla fine dell’anno scorso è stata anche consegnata al presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga una lettera sottoscritta da 2.433 persone, in cui viene rappresentata la situazione di grave indebolimento dei servizi territoriali per i disturbi psichiatrici in Regione. Sempre secondo il nuovo atto aziendale, i dipartimenti delle dipendenze e quello della salute mentale verrebbero inglobati. «Si tratta di una decisione in linea con quello che succede nel resto d’Italia», commenta Trincas.
«Si va verso un accentramento, mentre la pandemia ci ha insegnato che la scelta migliore è territorializzare», afferma Dell’Acqua. «È in atto una disarticolazione della sanità pubblica, che a Trieste abbiamo costruito con 50 anni di attenzione al paziente, di personalizzazione e di contatto umano, che potrebbe andare in pasto ai privati». La nota di fondo del sistema basagliano è infatti legata a un rapporto con gli utenti che non si riduce alla mera prescrizione di farmaci; secondo il famoso medico doveva essere il sistema sanitario a raggiungere i cittadini più fragili, perché ci fosse una presa in carico collettiva del malessere. Ora, molti denunciano un ritorno a una visione più oggettivizzante. Tra loro, anche Alice Castagna, utente di uno dei Csm di Trieste, che ha voluto esprimere le sue preoccupazioni in una lettera aperta. «Sono una ragazza di 21 anni. Vado in terapia psicologica da otto. Ho fatto più di 100 accessi in pronto soccorso negli ultimi quattro anni. E ho ricevuto più di 50 sedazioni intramuscolari all’interno delle strutture ospedaliere psichiatriche», scrive. E qualche riga dopo, fa un appello agli operatori della Salute mentale. «Avete gli occhi. Allora osservate. Avete una bocca. Allora parlate. Avete delle mani. Allora utilizzatele per fare una carezza e non per bloccare. Avete delle braccia. Allora utilizzatele per abbracciare di più. Avete una pancia. Allora ascoltate le vostre emozioni senza far finta di essere apatici e freddi. Fate arrivare la vostra vicinanza a chi è più fragile di voi, a chi è di “cristallo”, a chi, semplicemente, vorrebbe non sentirsi più solo».
– 1/continua
Politica e università hanno tradito Basaglia
Secondo lo psichiatra Vito D’Anza la salute mentale nel nostro Paese si sta progressivamente allontanando dal modello basagliano, studiato e copiato in tutto il mondo. Molte strutture, nonostante la Legge 180 e le diverse norme regionali, praticano ancora oggi attività di contenzione, sia fisica che farmacologica. Per invertire questa tendenza serve una mobilitazione collettiva, che coinvolga non solo il mondo medico, ma anche quello politico e culturale. Continua l’inchiesta di VITA nel mondo della psichiatria italiana
In Italia, ancora oggi, su 323 Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (Spdc), solo una decina sono “no restraint”, cioè liberi dalle azioni di contenimento fisico e farmacologico del paziente in crisi. Uno di questi reparti si trova a Pescia, in provincia di Pistoia, ed è diretto dallo psichiatra Vito D’Anza. Quest’ultimo, membro del Forum Salute Mentale, che riunisce esperti del mondo della deistituzionalizzazione da tutta la penisola, denuncia la situazione di grave affanno dei servizi e la preoccupazione degli operatori più vicini al modello basagliano, da cui pare che la sanità italiana stia prendendo sempre più le distanze.
Dottore, qual è la tendenza che lei riscontra, oggi, nel mondo della salute mentale italiana?
Siamo in una situazione di involuzione. Ovviamente questo degrado avviene a velocità e in modalità diverse. I territori che erano più avanzati rimangono più avanzati rispetto agli altri, ma la regressione si riscontra ovunque. Dappertutto c’è una riduzione dei servizi, dovuta anche a scelte politiche che portano a prediligere strutture residenziali anziché attività territoriali forti. Non voglio dire che le strutture residenziali non possano essere utili in qualche caso, ma devono lavorare assieme ai servizi pubblici di salute mentale, senza diventare una soluzione generalizzata.
Anche in Toscana, dove lei lavora, la situazione è la stessa?
In Regione i servizi sono diffusi abbastanza capillarmente già dagli anni ‘80, grazie all’azione dell’allora assessore Bruno Benigni. Il loro stato, oggi, è abbastanza a macchia di leopardo, come del resto succede in tutta Italia. Questo fatto è legato a un sostanziale disinteresse da parte della politica, cominciato dalla fine del secolo scorso, che ha portato ogni servizio ad agire autonomamente. In Toscana, nonostante in ben due Piani sanitari regionali ci sia scritto «È fatto divieto tassativo di ogni forma di contenzione fisica», ci sono strutture in cui si continua a portare avanti metodi antiquati.
E come mai questo accade, se ci sono direttive che lo vietano?
Perché non sono mai state fatte verifiche di quello che effettivamente succedeva all’interno dei servizi. Chi continua a utilizzare la contenzione, nella pratica, non ha alcun tipo di conseguenza.
Eppure non legare è possibile.
Certo e gli Spdc come quello di Pescia lo dimostrano. Dal 2005, non si lega nessuno ai letti. Non c’è bisogno di essere super eroi per non praticare la contenzione.
Insomma, pare che ci si stia allontanando sempre di più dalle idee di Franco Basaglia.
Io credo che la Legge 180 – e di conseguenza la 833 (la norma che ha istituito il Servizio sanitario nazionale, ndr), in cui è confluita – sia una riforma che è stata tradita, dalla politica in primis e poi dagli operatori. La prima avrebbe dovuto avere un ruolo di indirizzo, che non ha assunto minimamente, e i secondi si sono mossi ognuno per conto proprio.
Come si può attuare una rivoluzione come quella che prescrive la 180 se gli operatori hanno continuato e continuano a essere formati con programmi precedenti alla riforma? Non mettere mano al mondo accademico, a mio parere, è stato un errore gravissimo.
Ma qual è il motivo per cui la 180 è a rischio?
Credo che le ragioni siano diverse. Oggi penso ci sia un grosso interesse verso la privatizzazione. I privati non sono di per sé il male, ma dovrebbero lavorare in sinergia con i servizi, non sostituirsi a essi. Basti pensare al fatto che le strutture residenziali si stanno moltiplicando, alla faccia dei discorsi a favore della territorializzazione e della prossimità che si facevano dopo la pandemia. Sembrava che il Pnrr avrebbe dato una mano in questo senso, ma al suo interno non si cita mai la salute mentale, a cui non arriveranno fondi, se non delle briciole. In passato, le motivazioni dell’allontanamento dai metodi basagliani erano altre.
Per esempio?
Sciatteria e opportunismo. Quando è stata approvata la Legge 180 non c’era grande convinzione da parte della politica. Gli operatori facevano resistenza al cambiamento, perché non era stata aggiornata anche la formazione universitaria. Basaglia e i basagliani non hanno mai avuto una cattedra e, ancora adesso, il modello che viene insegnato a chi impara la psichiatria è quello clinico – biologico. Non che questo approccio sia completamente da buttare a mare, ma non può essere quello predominante all’interno di un servizio di salute mentale. Come si può attuare una rivoluzione come quella che prescrive la 180 se gli operatori hanno continuato e continuano a essere formati con programmi precedenti alla riforma? Non mettere mano al mondo accademico, a mio parere, è stato un errore gravissimo.
Quindi si tornerà a un modello medicalizzante e incentrato sugli ospedali?
Diciamo che gli elementi che abbiamo possono significare una sconfitta della riforma e della chiusura dei manicomi. La scelta di dismettere gli ospedali psichiatrici è un primato italiano e rimane ancora caso unico a livello internazionale. A volte io stesso mi chiedo se ne è valsa la pena, vista la situazione attuale. Alla fine la mia risposta è sempre positiva: nei momenti di apice i manicomi della Penisola avevano più di 100mila internati in totale. La riforma ha cambiato il destino di decine di migliaia di persone. L’obiettivo finale, però, non era solo questo, era una revisione più ampia del modello di presa in carico.
Che oggi non è più possibile?
Si dovrebbero creare di nuovo le condizioni che hanno portato all’approvazione della 180. All’epoca l’interesse non era limitato al mondo della psichiatria, si era creata una sinergia tra più mondi, da quello medico a quello culturale, passando per quello politico. Tutti parlavano di deistituzionalizzazione, tutti esprimevano la propria opinione, c’era fermento, interesse. Certo, non ci si può arrendere, buttando via 50 anni di storia e di impegno, quello che è avvenuto e quello che potrebbe avvenire. È però una lotta che deve riguardare i diritti umani e politici e non deve essere confinata all’ambito medico.
2 – Continua
Veronica Rossi
22/12/2022 https://www.vita.it
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!