Salvini chiude i porti alle ONG e apre un conflitto con Malta. Contro il diritto internazionale
Potrebbe essere stata solo una mossa elettorale, nella giornata del voto, ma e’ gravissimo che un ministro dell’interno neghi un porto di sbarco per un attività di soccorso coordinata dalla Centrale operativa di Roma della Guardia costiera (MRCC). Le dichiarazioni di Salvini hanno alimentato una ventata di odio, non solo sui social, che se potrà avere per la Lega una conseguenza favorevole come risultato elettorale, spaccherà in due il paese. E’ legittimo domandarsi chi è il vero capo del governo, al di là dei ruoli formali, ed emerge chiaramente come il Contratto di governo abbia aperto la strada ad una serie di gravi rotture costituzionali, rilevanti adesso anche a livello internazionale.


Alla fine il premier maltese Muscat conferma come l’Italia stia violando le Convenzioni internazionali, utilizzando i corpi di centinaia di migranti già martoriati in Libia, per tentare una forzatura sulla modifica del Regolamento Dublino, che non appare certo modificabile con i colpi di ruspa imposti da Salvini. Secondo Muscat, “siamo preoccupati per la direzione presa dalle autorità italiane sull’Acquarius, che è in alto mare. Vanno manifestamente contro le leggi internazionali e rischiano di creare una situazione pericolose per tutti coloro che sono coinvolti”. Così il premier maltese Joseph Muscat su Twitter sul caso dell’imbarcazione con a bordo oltre 600 migranti in cerca di un approdo.
Malgrado la cauta reazione dei maltesi, si profila dunque una crisi diplomatica a livello di Unione Europea. Le posizioni espresse dell’ambasciatrice maltese a Roma esprimono le contraddizioni della politica maltese degli ultimi anni e di certo non gioveranno alla chiarezza dei rapporti internazionali. Ma le responsabilità principali di questo ultimo caso diplomatico, che sta bloccando Aquarius a nord di Malta con il suo carico di sofferenza, rimangono in capo alle autorità italiane. Ricordiamo che in precedenza, in un caso simile, nel quale si erano verificati gravi ritardi da parte italiana nella comunicazione del POS di sbarco, un rappresentante della Commissione Europea aveva intimato all’Italia di rispettare gli obblighi di soccorso e di individuazione di un POS (Place of Safety), che non spettavano né allo stato di bandiera della nave soccorritrice, né al paese che poteva offrire il porto più vicino. Anche le autorità inglesi hanno ricordato ai comandi italiani le responsabilità che loro competono come coordinatori delle attività SAR, responsabilità che discendono dalle Convenzioni internazionali di diritto del mare. Non esistono porti di sbarco “più sicuri”, o “più vicini” soltanto per convenienza politica dei governi. La definizione del POS, porto sicuro di sbarco è fornita dalle Convenzioni internazionali, non muta per una valutazione opportunistica di un ministro dell’interno.

La Convenzione SAR di Amburgo del 1979 impone un preciso obbligo di soccorso e assistenza delle persone in mare ed il dovere di sbarcare i naufraghi in un porto sicuro (place of safety) indicato dal paese che ha assunto il ruolo di Autorità SAR competente. Generalmente il primo paese che riceve le chiamate di soccorso è proprio l’Italia. ed oggi queste chiamate arrivano soprattutto da assetti aeronavali militari appartenenti a paesi dell’Unione Europea.
Gli Stati membri dell’IMO (International Maritime Organization), nel 2004, hanno adottato emendamenti alle Convenzioni SOLAS e SAR, in base ai quali gli Stati parte devono coordinarsi e cooperare per far sì che i comandanti delle navi siano sollevati dagli obblighi di assistenza delle persone tratte in salvo, con una minima ulteriore deviazione, rispetto alla rotta prevista. Malta non ha accettato questi emendamenti. Le Linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare (Ris. MSC.167-78 del 2004) dispongono che il governo responsabile per la regione S.A.R. in cui sia avvenuto il recupero, sia tenuto a fornire un luogo sicuro o ad assicurare che esso sia fornito.
Secondo un rapporto della Guardia Costiera italiana dello scorso anno, “In alcune occasioni particolarmente complesse, caratterizzate cioè da elevato numero di migranti,dalla scarsità di vettori idonei a trasferire i migranti verso i P.O.S., da avverse condizioni meteorologiche, è stata richiesta la collaborazione e cooperazione ai Maritime Rescue Coordination Centre viciniori (Malta e Tunisi) che tuttavia non hanno accolto la richiesta di sbarcare i migranti soccorsi presso i propri porti. In particolare:
– MRCC Tunisi ha declinato la richiesta di accogliere i migranti in quanto gli stessi non erano di nazionalità tunisina né erano partiti dalle coste tunisine e l’assetto intervenuto nelle operazioni SAR non batteva bandiera tunisina; in aggiunta, ha dichiarato di non essere in grado di accogliere l’ingente numero di migranti (578 in totale) a causa dello scarso preavviso ed in considerazione della mancanza di strutture e risorse logistiche per l’accoglienza.
– MRCC Malta, invece, ha declinato la medesima richiesta per non aver coordinato le operazioni SAR essendo le stesse avvenute al di fuori della propria Search and Rescue Region.
E’ dunque notorio come Malta non accetti lo sbarco di persone nel suo territorio, salvo casi di assoluta emergenza sanitaria, se si tratta di soccorsi al di fuori delle acque territoriali, al punto che nell’intero 2017 gli sbarchi a Malta sono stati appena un centinaio. Persino le imbarcazioni della ONG maltese MOAS, come quelle di Frontex, fino a quando sono rimaste operative, evitavano di sbarcare a Malta le persone che soccorrevano in quella che pure è, sulla carta, la vastissima zona SAR maltese. Malta adduce da tempo, d’altra parte, che per le persone soccorse in quella che si definisce sulla carta come zona SAR libica, la competenza ad indicare un porto di sbarco spetti alle autorità che coordinano gli interventi di soccorso, dunque in casi come quello che oggi ha esposto Aquarius ad un attacco concentrico, mediatico e politico, alle autorità italiane. Già lo scorso anno la nave umanitaria Open Arms, aveva chiesto una possibilità di sbarco a Malta, ricevendo un netto rifiuto. Eppure per qualcuno sarebbero in torto quei comandanti delle ONG che non chiedono più a Malta una possibilità di sbarco. Come se i comandanti delle navi umanitarie fossero tenuti ad agire di propria iniziativa, in attività SAR coordinate dalla Centrale operativa della guardia Costiera italiana (MRCC).
Dovrebbe essere noto a tutti il caso di scuola della nave greca Salamis che nel 2013 si vide rifiutato l’ingresso per lo sbarco dei naufraghi nel porto di Malta. Una vicenda che precedette le stragi del 3 e dell’11 ottobre 2013,quest’ultima dovuta proprio ad un conflitto di competenze tra autorità maltesi ed italiane. Nel caso della nave greca Salamis le autorità italiane, dopo una lunga trattativa con le autorità maltesi e greche, offrivano in Italia un place of safety (POS) di sbarco ai 102 migranti salvati da un gommone in avaria al largo delle coste libiche e che il governo di Malta, nonostante le pressioni europee, aveva respinto, asserendo che si sarebbero dovuti consegnare alle autorità libiche nel porto “più vicino” di Khoms.
Nella prassi, le autorità maltesi hanno fatto sovente riferimento ad accordi con la Libia stipulati nel 2009, un anno dopo la stipula del Trattato di amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, ed all’esistenza di una zona SAR libica, quando si trattava invece di interventi di ricerca e soccorso che si svolgono al di fuori della pur vasta zona SAR attribuita a Malta. Ma dall’avvio dell’operazione Mare Nostrum, nel mese di ottobre del 2013, la prassi era ormai consolidata nel senso che le autorità maltesi non venivano più richieste di indicare un luogo di sbarco nel proprio territorio. Ed anche negli anni successivi, nessuna delle numerose navi di Frontex o di Eunavfor Med coinvolte in operazioni SAR, coordinate dalla Centrale operativa della Guardia Costiera italiana, ha mai sbarcato a Malta persone soccorse in acque internazionali.
Leanza e Caffio osservano nel 2014 come “Malta abbia dichiarato per innumerevoli occasioni la propria indisponibilità, anche a distanza di ore dalla segnalazione italiana”]. Abbiamo già ricordato il rifiuto di sbarco avanzato dalle autorità maltesi nel 2013, poco prima della strage dell’11 ottobre, nei confronti del mercantile Salamis carico di naufraghi, che poi furono sbarcati in Italia. Da allora ad oggi non risulta che le posizioni dei governi maltesi siano cambiate, al punto che negli ultimi anni si è registrato un costante calo degli sbarchi nell’”Isola dei Cavalieri” e lo scorso anno le persone soccorse in mare e sbarcate in quell’isola non sono state più di un centinaio. In termini percentuali, Malta ha un numero di rifugiati assai elevato, rispetto alla percentuale italiana, per il basso numero degli abitanti rispetto al nostro paese. Un dato che in queste ore sembra completamente travisato.
Come nota De Sena, per quanto possa in astratto succedere che uno stato competente per il coordinamento delle attività di ricerca e salvataggio in mare rifiuti di indicare un porto sicuro di sbarco, che non è necessariamente il porto più vicino, ” la chiusura dei porti italiani implicherebbe necessariamente una serie di conseguenze sul piano del rispetto di norme internazionali sui diritti umani e sulla protezione dei rifugiati. Vari elementi permettono infatti di considerare che l’Italia eserciterebbe, de jure e de facto, sulle imbarcazioni in parola, poteri idonei ad incidere sul godimento effettivo di diritti elementari da parte di coloro che si trovino a bordo. In altri termini, questi ultimi, pur tenuti fuori dai porti italiani, non mancherebbero di rientrare nella giurisdizione italiana, ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, così come interpretato nella giurisprudenza rilevante. Nel caso Women on Waves c. Portogallo, la Corte non ha esitato a valutare nel merito la violazione dell’art. 10 derivante dal divieto di accesso al mare territoriale imposto dalle autorità portoghesi alla nave olandese Borndiep, ritenendo (sia pure) implicitamente che tale divieto costituisse un esercizio di giurisdizione ai sensi dell’art. 1 della Convenzione (§ 22 della sentenza del 3 febbraio 2009). All’analogia con questo caso va aggiunto che la dichiarazione del rappresentante italiano si riferisce a un divieto di accesso ai porti, ovvero alle acque interne; ciò che lascia intendere che le imbarcazioni interessate abbiano già raggiunto le acque territoriali italiane.Anche a voler negare il carattere di precedente della sentenza Women on Waves, in ragione del fatto che la questione della carenza di giurisdizione non era stata espressamente sollevata dal Portogallo (elemento peraltro non decisivo, visto che le ragioni di inammissibilità sono sempre rilevabili d’ufficio dalla Corte), ulteriori circostanze sembrano corroborare la tesi secondo cui le imbarcazioni che chiedono l’autorizzazione di ingresso in porto, dopo essere state soccorse, rientrano nella giurisdizione dello Stato italiano. Infatti, come responsabile della zona SAR di soccorso – o anche nel caso in cui il soccorso sia avvenuto al di fuori della zona SAR italiana, ma comunque su impulso di un SOS diramato dall’MRCC (Comando generale del Corpo della Capitanerie di Porto) di Roma – l’Italia risulta essere il Paese giuridicamente responsabile del coordinamento dei soccorsi ed è dunque lo Stato che esercita, «conformemente al diritto internazionale», le funzioni esecutive che tale coordinamento comporta (v. mutatis mutandis, Al-Skeini c. Regno Unito e Jaloud c. Paesi Bassi).
In base a queste considerazioni la minacciata “chiusura dei porti italiani” se si andrà oltre la sparata elettorale mentre gli elettori esercitano il loro diritto di voto, potrebbe comportare gravi profili di responsabilità a carico dei vari soggetti, da identificare, artefici della complessa catena di comando che si dovrebbe attivare per rendere esecutiva tale decisione. A partire dalla possibile configurabilità del reato di omissione di soccorso previsto dall’articolo 593 del Codice Penale, qualora la ritardata od omessa indicazione del POS da parte delle autorità italiane si traduca nella impossibilità di fare fronte alle emergenze sanitarie presenti nella maggior parte dei casi a bordo delle navi che intervengono in operazioni SAR in acque internazionali. E’ a tutti nota infatti la condizione attuale delle persone che riescono a fuggire dalla Libia, e ritardi di giorni nello sbarco a terra possono avere effetti letali, malgrado il prodigarsi degli equipaggi delle navi soccorritrici. Sono le ragioni che hanno spinto il GIP ed il Tribunale di Ragusa a ritenere la Libia come uno stato (ammesso che si possa parlare di uno stato) privo di luoghi sicuri di sbarco (Place of safety).
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!