Sanità e precarietà.
Alcune notizie recenti riguardanti medici specializzandi e le famose 20000 assunzioni di operatori sanitari durante la prima ondata ci sbattono di nuovo in faccia la crisi di prospettive in cui versa questo modello e le classi dirigenti del nostro Paese, ma più in generale del mondo occidentale.
Negli ultimi mesi, dall’inizio della pandemia a ora, abbiamo assistito a un progressivo esacerbarsi di quelle contraddizioni sistemiche già presenti prima dell’attuale crisi, conseguenza della privatizzazione e delle esternalizzazioni nel settore pubblico e dei tagli promossi negli ultimi vent’anni dalla classe dirigente italiana ed europea in nome del neoliberismo, soprattutto dal 2011 in poi. In particolare, parliamo di un 12% in meno investito nella sanità nel periodo 2009-2018, corrispondente a 26 miliardi di euro totali, 400 euro pro capite in meno ogni anno. Alla base di queste misure economiche fondate sull’austerità sta un preciso progetto politico e ideologico, che delinea un modello economico e sociale basato sulla massimizzazione dei profitti privati a qualsiasi costo, un modello che antepone gli interessi di pochi al benessere collettivo e che non si ferma nemmeno davanti alle centinaia di morti giornaliere per covid-19. I risvolti più evidenti dell’emergere di queste contraddizioni irrompono fortemente soprattutto nel mondo del lavoro, in particolare nel settore industriale e ovviamente in quello sanitario. È stato evidente da subito che a pagare il prezzo di questa crisi sotto tutti i punti di vista, non solo sul piano economico ma anche su quello sociale, sarebbero state le classi subalterne, schiacciate da investimenti che favoriscono “le imprese” e non “il lavoro”, cioè che non tengono conto delle condizioni lavorative in tutti i settori (pessime non dall’inizio della pandemia, ma da ben prima), caratterizzate da contratti a nero e precarietà. Lo dimostra il fatto che i fondi a pioggia stanziati in questi mesi siano finiti nelle tasche degli industriali, e non certo di quei lavoratori che quotidianamente sono costretti a mettere a rischio la propria salute per gli interessi dei loro padroni.
Per sostenere ideologicamente questi provvedimenti, già dalla prima ondata la classe politica e i media hanno insistentemente alimentato la retorica del “siamo tutti sulla stessa barca” per farci accettare le misure da economia di guerra che caratterizzano il periodo post-emergenza, giustificando così un’ancora maggiore stretta all’agibilità sindacale e politica, tagli e misure a vantaggio dei padroni. Lo si è visto con la scelta di tenere attivi settori dell’economia non essenziali, ma considerati “strategici” per la costruzione di un blocco industriale italiano in linea con gli interessi della borghesia europea, esponendo così migliaia di lavoratori al rischio di contagio e criminalizzando gli scioperi laddove ci sono stati. Così, la logica del profitto è stata presentata come un tentativo “a vantaggio di tutti” di limitare gli effetti disastrosi della crisi economica e sociale in cui ci troviamo oggi. Abbiamo visto, però, che il vantaggio non è stato affatto di tutti, ma solo dei padroni, gli unici che hanno tratto benefici dalla ripresa precoce della produzione.
Non a caso, infatti, Paesi con un’economia pianificata, come la Cina, hanno saputo reagire molto più prontamente e con misure più efficienti ed efficaci alla crisi pandemica, cioè con la chiusura totale di zone relativamente piccole (almeno per gli standard cinesi), focolai del contagio, e l’introduzione di misure cautelari nel resto del Paese che tutelassero i lavoratori, permettendo di non bloccare completamente l’industria. In questo modo, seppur con un inevitabile deficit, la produzione complessiva del Paese ha potuto continuare, limitando almeno parzialmente la recessione economica. Similmente è d’esempio il caso di Cuba, anch’essa fondata su un sistema di pianificazione centralizzata basato sull’investimento di risorse pubbliche per il benessere collettivo, dove già a febbraio, quando ancora in Europa si negava la presenza del virus, il sistema sanitario pubblico ha attuato un piano di prevenzione e intervento per il contenimento del covid, investendo nella formazione di medici e infermieri, già fiore all’occhiello del modello cubano, e nell’adeguamento delle strutture sanitarie. Anche in ambito economico Cuba ha da subito realizzato misure di sostegno, come la riduzione di tasse e utenze domestiche e il salario garantito ai lavoratori in caso di quarantena. Al contrario nei Paesi occidentali, a carattere neoliberista, la gestione della pandemia è avvenuta in modo del tutto irrazionale, senza arrivare mai alla chiusura totale delle regioni focolaio e senza adottare misure efficaci di protezione dei lavoratori.
In questo quadro è evidente come alcune recenti notizie ci dimostrano ancora una volta l’incapacità dei Paesi occidentali di rispondere a questa crisi. Durante la prima ondata il governo italiano annunciò trionfalmente l’assunzione di 20 000 operatori sanitari, presto rivelatisi contratti a cococo e a tempo determinato, ristabilendo una forma contrattuale abolita nella Pubblica Amministrazione nel 2019 in quanto forma esplicita di sfruttamento. Sappiamo bene che misure del genere non possono certo sanare le conseguenze disastrose della sistematica depauperizzazione della sanità pubblica, ma alimentano la già diffusa precarietà contrattuale e mettono a rischio la salute dei lavoratori. Lo si vede bene nel fatto che proprio gli operatori sanitari assunti con questo tipo di contratti da una parte lavorano nelle strutture sanitarie in cui il rischio di contagio è maggiore, ma al tempo stesso non solo non beneficiano di nessun tipo di tutela retributiva in caso di infortunio o di quarantena preventiva, ma addirittura non hanno nemmeno avuto diritto alle ferie pagate durante le ultime festività. Per far fronte alle attuali carenze strutturali del sistema sanitario sarebbe necessaria, invece, l’assunzione immediata di questi lavoratori, e non solo, in maniera strutturale, con contratti a tempo indeterminato.
Nella stessa strategia politica si inscrive anche l’impiego senza tutele né veri e propri contratti degli specializzandi di medicina per fronteggiare la crisi sanitaria. Non è certo la prima volta: da sempre vengono sfruttati in tutti gli ambiti della sanità per colmare le falle di un sistema pubblico ridotto in miseria, senza che sia loro riconosciuta alcuna professionalità e senza che siano loro garantite un’equa retribuzione e tutele contrattuali. Sono gli stessi che ogni anno alimentano le fila dei giovani, spesso con un lungo percorso di formazione alle spalle, costretti a emigrare in cerca delle migliori condizioni lavorative che non sono loro garantite nel nostro Paese; gli stessi che oggi vengono impiegati nella campagna vaccinale, per loro considerata “attività formativa”, con una retribuzione in crediti formativi (cfu). Oltre al danno la beffa, in quanto personale non dipendente, alcune aziende sanitarie locali avevano deciso di cancellare questi giovani dalle liste delle vaccinazioni, situazione poi risolta solo per via delle proteste sollevate contro questa ennesima ingiustizia. Tutto ciò è inaccettabile! Liquidare i lavoratori specializzandi come “studenti in formazione”, come ha fatto il ministro Speranza, significa non riconoscere il percorso formativo e professionale da loro già svolto e giustificare una forma di sfruttamento.
D’altronde, però, non stupisce affatto che ancora una volta i giovani, nati nella crisi e cresciuti con un’ideologia fortemente liberista, si trovino sfruttati in un mondo del lavoro sempre più deregolamentato e senza tutele. La stessa carenza strutturale di personale sanitario è una diretta conseguenza delle politiche universitarie degli ultimi decenni, in particolare dell’istituzione del numero chiuso per i corsi di laurea in medicina e della successiva scrematura per l’accesso alle scuole di specializzazione, che delinea un vero e proprio “sistema a doppio imbuto”. Non solo l’università si piega agli interessi privati, come dimostra il caso recente della ricerca dei vaccini, divenuta ben presto una vera e propria lotta ai brevetti, ma esclude sistematicamente ampie fasce di studenti in nome del merito. La crescente elitarizzazione dell’istruzione e un diritto allo studio inefficiente sono cause scatenanti dell’attuale mancanza di personale, che giustifica sfruttamento e precarietà.
Questa pandemia ci dimostra quotidianamente che bisogna ripensare radicalmente il ruolo dello Stato: è necessaria un’inversione di rotta per rimettere al centro la priorità del pubblico sul privato per la tutela del benessere collettivo, mobilitare risorse pubbliche per un’assistenza sanitaria capillare e accessibile a tutti, rivendicare contratti dignitosi e giusti compensi. È assolutamente indispensabile l’assunzione massiccia e strutturale nella sanità e in tutti i servizi pubblici anche per sottrarre ampie fasce di giovani dal lavoro precario e assicurare loro dignitose condizioni lavorative.
L’unico cambiamento necessario è quello per un modello alternativo. L’unica arma che i giovani e tutte le classi subalterne hanno in mano per ottenere questo cambiamento è l’organizzazione e la lotta organizzata. Costruire l’alternativa, oggi più che mai, non è un’utopia ma una necessità storica.
Della condizione di precarietà e sfruttamento che riguarda gli specializzandi, dalla formazione al lavoro, e più in generale del pessimo stato in cui versa il nostro sistema sanitario a seguito delle politiche di austerità e privatizzazioni, abbiamo parlato con Eleonora, specializzanda dell’Università di Modena che ci ha dato una testimonianza, anche diretta, dei problemi e delle ingiustizie che vivono migliaia di giovani medici in questo Paese.
18/1/2021 http://noirestiamo.org
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