Sanità, le regioni “rosse” non amano il pubblico.
Addio solidarietà. A rimettere in discussione il fondamento della nostra sanità pubblica sono quelle Regioni che Ivan della Mea nel 1969 avrebbe catalogato tra le cose che si stingono cambiando di colore «il rosso è diventato giallo» e che oggi altro non sono se non Regioni senza scrupoli che colpiscono alle spalle l’etica egualitaria del welfare. Sono le stesse Regioni che rispetto all’universalismo sono state di esempio a tutti. Vale a dire Emilia Romagna e Toscana, ma anche Liguria e anche altre.
Messe alle corde dalle restrizioni finanziarie, stanno aprendo la strada alla privatizzazione della sanità, incapaci di trovare soluzioni alternative pur avendone a disposizione un bel po’. Tradimenti quindi, cioè controriforme, in nulla giustificati dai contesti avversi e che si spiegano con la malafede politica, la disonestà intellettuale, i limiti culturali, lo spirito controriformatore del tempo e un cedimento al pensiero speculativo dell’intermediazione finanziaria.
La Toscana, la regione con il più alto tasso di copayment cioè di compartecipazione alla spesa pubblica da parte dei cittadini, è anche la Regione che di fatto ha praticamente appaltato la diagnostica e buona parte della specialistica ambulatoriale ai privati, incoraggiandoli a proporsi con prezzi competitivi e promozionali per battere il pubblico, oggi alle prese con un riordino esplicitamente contro riformatore.
L’Emilia Romagna, da tempo al lavoro per costruire fondi integrativi, recentemente ha raggiunto un’intesa con Coop e Unipol per fornire sistemi assistenziali paralleli e lo stesso presidente Bonaccini nel suo programma politico ha dichiarato di voler «spezzare la concezione ideologica che contrappone pubblico e privato». La Liguria è sulla medesima strada e da tempo.
Che senso hanno queste politiche? Mettere in conflitto due generi di solidarietà: quella mutualistica che dipende dai redditi delle persone e che per sua natura è discriminativa e quella pubblica che dipende dai diritti delle persone e che per sua natura è egualitaria. Cioè stanno contrapponendo la diseguaglianza alla eguaglianza facendo della prima un valore e della seconda un disvalore. Un gioco apertamente neoliberista a somma negativa.
C’è da chiedersi con una certa urgenza cosa fare per combattere queste tendenze. Rodotà recentemente con un suo libro (“Solidarietà, un’utopia necessaria” Laterza 2014) dice che oggi «è necessario…riprendere con determinazione il tema dei principi». Ma cosa vuol dire «seguire la via del costituzionalismo» per ribadire «la connessione tra principi e diritti» per non «rassegnarsi alla subordinazione alle compatibilità economiche»? A che serve ribadire il valore della solidarietà quale “principio generale” quando esso è già normato, e quando il vero problema che abbiamo è la sua inosservanza se non la sua negazione? Temo che la strada dei principi non basti.
In sanità come dimostrano le “Regioni gialle” la rottura del legame solidaristico inizia dai limiti anche culturali di una classe dirigente che non è capace di provvedere ad un pensiero riformatore e che vede nella controriforma l’ unica possibilità di gestire un limite economico. In sanità la solidarietà è in crisi per tante ragioni: economiche , culturali, sociali filosofiche e antropologiche, politiche . Il più grande sindacato dei medici di medicina generale al suo ultimo congresso si è dichiarato favorevole a ridurre la solidarietà dello Stato ai soli indigenti. Il sindacato confederale si trova dentro una contraddizione imbarazzante: da una parte difende il sistema sanitario solidale e universale e dall’altra per via contrattuale stipula per le “categorie forti” accordi per l’assistenza mutualistica.
La più grande rottura della solidarietà nel mio campo si ha con la crescita esponenziale del conflitto tra società e sanità, definita altrimenti “contenzioso legale”. I cittadini malati portano i medici in tribunale cioè rompono i legami di solidarietà che li ha sempre giustapposti ai propri terapeuti per millenni. Questi antichi legami si sono rotti anche perché l’uso della medicina oggi è fortemente condizionata da comportamenti apertamente antisolidaristici degli operatori come sono quelli agiti in modo opportunistico a difesa dei rischi professionali (medicina difensiva).
La solidarietà sino ad ora in sanità è stata vista, soprattutto da sinistra, come di tipo fondamentalmente fiscale ma in realtà di solidarietà ve ne sono tante e quello che ci manca è un pensiero riformatore in grado di ricomprenderle in un nuovo discorso che oltre che di diritti parli anche di doveri proprio nel senso indicato dall’art 2 della Costituzione. Non sono d’accordo con le “Regioni gialle” che riconducono tutto ad una questione di scarsità delle risorse ma neanche con coloro che parlano del controllo delle risorse come una priorità costituzionale.
Lorenza Carlassare, ad esempio, ci propone di distinguere «fondi doverosi» «destinazioni consentite» e «destinazione vietate»(Costituzionalismo.it,1,2013)…ma in sanità le differenze tra necessario/essenziale/utile/primario/secondario costituiscono un campo minato e poi allocare risorse con questa logica non è molto diverso da chi propone di finanziare la sanità per priorità che come è noto è il presupposto di partenza dell’universalismo selettivo. Se ragioniamo per “priorità” addio solidarietà.
Penso che la contraddizione solidarietà/risorse sia innegabile ma non giustifica il “tradimento” delle regioni nei confronti dell’universalismo. L’art 2 della costituzione ci invita a considerare la solidarietà come «dovere», mentre le regioni si sottraggono a questo dovere.
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