Sanità lombarda: vedi alla voce privatizzazione

Lo scorso 15 dicembre 2021 è stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della regione Lombardia la legge regionale 22/2021 “Modifiche al titolo I e VII della legge regionale 30/12/2009 n. 33 (Testo Unico delle leggi regionali in materia di sanità)” basato su una proposta della giunta Fontana e dell’assessora al Welfare Moratti.

Questo intervento normativo non deriva da una valutazione degli enormi problemi resi evidenti da quanto si è verificato nella prima ondata della pandemia da Covid-19 in termini di contagi e decessi. Nemmeno dalle differenze emerse fin da quei primi momenti in territori contigui ma differenti dal punto di vista organizzativo. La necessità di questa nuova legge nasce invece da una richiesta esplicita derivante da un documento di analisi prodotto da Agenas (Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, organo tecnico del Servizio sanitario nazionale) conseguente alla scadenza dei termini previsti da un periodo di “sperimentazione”.

Nel 1995 la giunta Formigoni, grazie alla stabilità governativa derivata dalla nuova legge elettorale regionale e del premio di maggioranza che aveva rafforzato il potere esecutivo rispetto a quello del consiglio regionale, iniziava, direttamente attraverso semplici delibere della giunta regionale, ad implementare l’impostazione neoliberista del quasi-mercato in sanità ponendo le basi per una gestione che costituiva un “unicum” in tutto il Paese. La legge di riforma vera e propria poteva cosi seguire un iter più lento per poi essere approvata e, naturalmente, ratificare l’esistente. La quasi totale estromissione del consiglio regionale nelle scelte di politica sanitaria è poi divenuta quasi normalità. Ancora recentemente ogni decisione, come le “regole di sistema” annuali, vengono definite attraverso delibere di giunta regionale.

Le maggiori novità erano rappresentate dalla separazione degli enti “pagatori” (ASL) dagli “erogatori” (ospedali, ambulatori, cliniche); dalla parificazione fra strutture pubbliche e private e la concorrenza fra di esse; dalla separazione dell’ospedale dal territorio (da cui derivò l’”ospedalocentrismo” a discapito della medicina territoriale). Inoltre si è favorito il più ampio accreditamento delle strutture private e si è enfatizzata la “libertà di scelta del cittadino” trasformando quest’ultimo in un semplice “consumatore” indispensabile come meccanismo-vettore per definire l’allocazione delle risorse (rimborsi pubblici). Si è così frammentata l’offerta sanitaria destrutturando i servizi. Per favorire il quadro complessivo venivano utilizzati, estremizzandoli in modo “border line”, alcuni degli aspetti presenti nella legge di riforma nazionale del 1992 (d.lgs.502/92 “De Lorenzo”): aziendalizzazione delle strutture pubbliche e introduzione dei DRG e del pagamento a prestazione che favoriva una sanità prestazionale più attenta ai volumi di produzione e ai bilanci che alle reali ricadute di salute.

Il mercato in sanità però non è come tutti gli altri e le strutture private hanno sempre avuto meno vincoli ed hanno potuto fare “cherry picking” (scegliere le prestazioni maggiormente remunerative) lasciando il resto alle strutture pubbliche che ovviamente devono rispondere a tutti i bisogni della popolazione.

La prevenzione e la medicina territoriale sono state fortemente ridimensionate in quanto poco coerenti nel disegno complessivo regionale.

Con l’introduzione dei “tetti di spesa”, inoltre, si è determinata la ciclica difficoltà di ottenere prestazioni negli ultimi mesi dell’anno (in particolare nelle strutture private accreditate) a causa del raggiungimento dei valori sottoscritti in sede di contrattualizzazione (poiché ogni sforamento non sarebbe stato ripianato).

La narrazione dell’“eccellenza” della sanità lombarda è stata continuativa in tutti questi anni ed ha impedito una reale reazione complessiva da parte delle forze politiche di opposizione.

Solo con gli ultimi scandali del 2012, proprio in ambito sanitario, che hanno provocato le dimissioni di Formigoni, la nuova giunta regionale Maroni (sempre espressione del centro-destra) ha iniziato un percorso per definire una nuova riforma sanitaria.

Tale riforma era stata preceduta da un libro bianco, presentato nel 2014 e due allegati sul sistema ospedaliero e sull’assistenza territoriale nei quali, in minima parte, si ammettevano alcuni dei problemi derivati dalla precedente riforma Formigoni e che aveva destato in alcuni settori una certa attenzione.

In realtà, il programma di politica sanitaria della nuova riforma che ne derivò (l.r. 23/15) era definibile già dal titolo della norma : “Evoluzione del sistema socio-sanitario regionale”. Infatti, vengono riconfermati i cardini più importanti della riforma del 1997, in particolare ribadendo tutti gli aspetti che avevano una diretta ricaduta in interessi economici concreti: conferma della parificazione pubblico-privato, separazione enti “pagatori” da erogatori, libertà di scelta utile al “sistema”. Proprio la parola “sistema” definisce qualcosa di diverso rispetto a quello che è previsto dalle normative nazionali cioè un “servizio sanitario”. Quest’ultimo molto più comprensibile per le persone rispetto ad un “sistema”, definizione molto più vaga. Per diverse sue parti non allineate con la normativa nazionale, la legge è stata oggetto di un accordo con il ministero della salute definendola come “sperimentale” con obbligo di verifica dei risultati dopo 5 anni. Arriviamo così ai nostri giorni.

La legge Fontana-Moratti si può certo definire una “non-riforma” poiché, in linea con quanto già visto con la legge “Maroni”. Non modifica nulla della impostazione delle politiche sanitarie degli ultimi 25 anni che hanno fortemente contribuito a determinare i risultati che abbiamo visto in Lombardia durante la prima e la seconda ondata della pandemia/sindemia dovuti, in particolare, alla continua desertificazione territoriale che prosegue da anni.

Non a caso, infatti, i documenti preparatori della proposta della giunta parlavano di “linee di sviluppo della legge regionale 23/15”: la giunta lombarda deve negare in ogni modo i fallimenti di quel periodo poiché da ciò deriverebbe la conseguenza di ammissione di tutti gli errori precedenti.

Onde evitare qualsiasi incomprensione, sono da subito ribaditi in modo chiaro i pilastri della prima riforma Formigoni come elementi centrali anche di questa terza “riforma”. La libertà di scelta del cittadino e il rapporto di parità fra pubblico e privato (con integrazione, sussidiarietà e la nuova definizione di “equivalenza”) rimangono “valori da salvaguardare e rafforzare” come anche la separazione fra gestori ed erogatori nella classica impostazione di quasi-mercato.

In realtà con la “libertà di scelta” il cittadino, ad oggi, può concretamente solo scegliere se adeguarsi alle liste di attesa delle strutture pubbliche o pagare da privato e nel privato per avere una prestazione più veloce o particolare.

Non si lascia sfuggire, comunque, da parte della regione, l’occasione di ampliare la possibilità per le strutture private di ottenere nuovi spazi in un mercato per loro garantito e sicuro poiché basato su rimborsi pubblici con vincoli comunque meno stringenti rispetto alle strutture pubbliche.

Esempi di questa riproposizione ideologica li possiamo ritrovare in vari punti del Testo Unico delle leggi sanitarie come riformato dalla legge 22/2021. Focalizziamo l’attenzione, in particolare su due aspetti.

Fra i principi (art.2), il comma b) quinquies riporta: “definizione del case mix da parte delle ATS e conseguente allocazione di budget a specifici e prioritari obiettivi di salute, in coerenza con gli indirizzi di programmazione definiti dalla Regione e nel rispetto della struttura d’offerta di ciascun erogatore e degli investimenti effettuati”. È estremamente curioso vedere appaiati la definizione del case mix (interventi e prestazioni sanitarie) e il relativo rimborso da parte della regione ai “prioritari obiettivi di salute” nel “rispetto della struttura d’offerta” e soprattutto “degli investimenti effettuati” in una legge che non prevede di fatto alcuna chiara programmazione pubblica degli interventi sanitari.

Al comma n sexies) si legge, sempre fra i principi, “promozione della collaborazione tra il SSR e il sistema produttivo, con particolare riferimento al welfare aziendale…”. Si fa riferimento perciò anche a quanto previsto da diversi contratti collettivi di lavoro all’interno dei quali vengono proposte delle polizze di coperture sanitarie integrative (che nel tempo sono diventate in gran parte sostitutive delle prestazioni rese in regime di servizio sanitario nazionale -SSN-). Tale modalità, accelera l’arretramento del SSN ed il suo definanziamento, differenzia l’accesso ai servizi sanitari peggiorando le diseguaglianze, favorisce determinate categorie scaricando i costi su tutta la popolazione attraverso agevolazioni fiscali. Come poi si è reso noto anche in quest’ultimo periodo, le prestazioni previste da tali polizze possono essere unilateralmente riviste al ribasso, a seconda delle situazioni finanziarie delle assicurazioni stesse. Perciò, attraverso questa modalità (peraltro inefficace ed inefficiente, poiché aumenta i costi burocratici e induce un maggiore consumo di prestazioni) si colpisce il principio dell’universalismo e della solidarietà nel servizio sanitario. È evidente che si può sviluppare un potenziale ampio mercato in ambito assicurativo e prestazionale privato per mantenere e sviluppare utili, piuttosto che la salute. Guardacaso, nell’accordo preliminare di autonomia regionale sottoscritta col governo nel 2018, all’art. 7 dell’allegato “Salute” si legge: “Nel rispetto dei vincoli di bilancio e dei livelli essenziali di assistenza, è attribuita alla regione una maggiore autonomia legislativa, amministrativa ed organizzativa in materia di istituzione e gestione di fondi sanitari integrativi”. Anche per questa ragione, oltre al fatto che si differenzierebbero ancora di più i vari servizi sanitari, crediamo che debba essere ritirata la richiesta di autonomia regionale.

Altro esempio di spinta ulteriore alla privatizzazione è rappresentato dal comma 2bis dell’ art. 8 (Strutture private accreditate): I soggetti erogatori di cui al comma 1, possono concorrere all’istituzione dei presidi di cui all’articolo 7, comma 13, lettere a) e b), fermo restando quanto previsto dall’articolo 6 comma 3, lettera 0a).

La sua traduzione è la seguente: I soggetti erogatori privati sanitari e sociosanitari (comma 1), possono concorrere all’istituzione degli ospedali di comunità previsti dal piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) e delle case di comunità previste dal PNRR (art.7 c.13 lett. a) e b)).

Le Case di comunità dovrebbero rappresentare l’interfaccia più vicina alle persone per l’accesso, e l’ottenimento delle risposte ai bisogni socio-sanitari in modo coordinato e multidisciplinare. Questo dovrebbe contribuire a raggiungere una visione “One Health” (approccio di una salute complessiva per le persone, animali e ambiente) , ritenuto come “parte integrante” dei principi della nuova legge, come anche ricordato dal documento regionale e previsto dal PNRR per ottenerne i fondi.

Queste strutture, derivanti dalle Case della Salute – mai previste in Lombardia –, dovrebbero anche riportare centralità alla prevenzione e alla partecipazione delle persone in ambito sanitario e sociosanitario.

Il fatto che, però, la stessa Associazione italiana dell’ospedalità privata (AIOP) durante la sua audizione richieda in modo diretto di “prevedere la possibilità di affidamento di tali unità di erogazione anche ai privati, accreditati e non accreditati” svela che tali strutture che dovrebbero essere importanti per la salute territoriale e il raccordo fra ospedale e territorio, potrebbero facilmente diventare esclusivamente un ulteriore luogo di “erogazione” di prestazioni e null’altro.

L’implementazione di tali importanti strutture per la medicina terrioriale, deve essere supervisionata dalla popolazione locale attraverso una partecipazione diretta ed un controllo per la richiesta delle risposte di natura sanitaria socio-sanitaria e sociale alle problematiche delle diverse aree ponendo l’accento su tutti i determinanti di salute. Questa finalità difficilmente potrà essere resa concreta da una struttura privata che persegue utili.

Allo stesso modo una casa della comunità non può risolversi in una aggregazione di poliambulatori.

Per ribadire ulteriormente la volontà di privatizzazione, la giunta ha pubblicato le prime linee di progetto per l’attuazione di Case e Ospedali di Comunità nella città di Milano con una Delibera di giunta regionale (5195 del 6 settembre 2021). Nella sezione intitolata “Collaborazione pubblico-privato” si legge: “Le risorse che il PNRR mette a disposizione per ristrutturazione, nuova edificazione e dotazioni strumentali e tecnologiche di CDC e ODC configurano interventi rivolti quindi alle aziende sanitarie pubbliche, unici possibili destinatari dei fondi. Il presente documento, d’altra parte, individua una proposta di allocazione delle risorse di investimento, sia del PNRR che di Regione Lombardia, all’interno di un quadro programmatorio più generale, che ha come obiettivo il potenziamento dei servizi assistenziali territoriali per consentire l’effettiva applicazione dei Livelli Essenziali di Assistenza, attraverso un modello di erogazione dei servizi omogeneo. All’interno di un modello di SSR sussidiario, va quindi approfondita la possibilità di realizzare strutture che svolgano le medesime funzioni previste dalle CDC/ODC, ma gestite da erogatori privati accreditati e di attivare forme di collaborazione fra soggetti pubblici e privati nella conduzione di tali strutture”. Si prevedeva, perciò, fin da prima della approvazione della legge regionale che avrebbe dovuto istituzionalizzarle, la possibilità per i privati di utilizzare fondi “misti” (in quali proporzioni?) per la realizzazione e gestione di Case della Comunità ed Ospedali di Comunità.

E prosegue: “É possibile d’altra parte prospettare fin d’ora diverse forme di collaborazione: – sperimentazioni gestionali, ai sensi dell’art 19 delle LR 23/2015, attraverso le quali è possibile affidare attività sanitarie, sociosanitarie e sociali, attraverso la riqualificazione dei servizi, l’ammodernamento delle strutture e l’utilizzo di nuovi modelli organizzativi. […] – progetti Partenariato Pubblico Privato (PPP) ai sensi del Dlgs 50/2016, nel quale un soggetto privato assume un’iniziativa per la realizzazione e gestione di opere e servizi di interesse pubblico. In questi casi gli investimenti, il rischio imprenditoriale e la gestione delle strutture sono affidati al gestore privato, che nel caso delle CDC dovrà mettere a disposizione delle istituzioni pubbliche spazi per le attività che non possono essere direttamente erogate dal proponente. È infine possibile prospettare, specularmente, forme di collaborazione pubblico privato attraverso le quali all’interno di una struttura a conduzione pubblica, parte dei servizi amministrativi e sanitari possono essere affidati, tramite procedure ad evidenza pubblica, a soggetti privati pur mantenendo l’ente pubblico la responsabilità di gestione”.

Di fatto, si preconizza la riduzione del servizio sanitario nazionale pubblico a semplice simulacro.

Questi ultimi sono solo degli esempi per cui la Campagna Dico 32! Coordinamento nazionale per il diritto alla salute ha inviato un documento all’attenzione del ministro nel quale si puntualizzano in modo dettagliato e tecnico gli aspetti della legge regionale 22/2021 che riteniamo non rispondano alle richieste, seppur minimali, sollevate da Agenas nel documento del dicembre del 2020 chiedendo un intervento da parte del governo affinché intervenga per fermare la legge utilizzando gli strumenti a disposizione.

Certo è incredibile che Agenas scriva alla giunta, ben prima della discussione e dell’approvazione della legge, nel mese di luglio, una nota in cui evidenzia che con la bozza trasmessa in quel periodo si è data risposta ai loro rilievi.

A supporto di questa lettera, è stata lanciata la petizione online Il Ministro della Salute blocchi la non-riforma sanitaria della Lombardia Moratti-Fontana.

Se il ministero non solleverà rilievi a questa impostazione della legge regionale lombarda, confermandola, tali derive privatistiche potrebbero facilmente essere prese a modello da altre realtà regionali allontanando sempre di più il servizio sanitario da quanto previsto dalla riforma del 1978 e mettendo fortemente in discussione il diritto alla salute e la sua universalità e gratuità nel momento dell’erogazione, basata sulla fiscalità generale progressiva.

Per rilanciare, invece, un servizio sanitario non legato alla sola erogazione di volumi di prestazioni spesso non utili a finalità di salute ma certo utili ai bilanci delle aziende e sapendo che la salute dipende da vari fattori, ambientali, sociali, reddituali, di istruzione, lavorativi, l’occasione di una nuova riforma dovrebbe valorizzare l’intreccio fra questi ultimi e l’attenzione riposta dalle politiche pubbliche a tutto ciò che favorisce o meno anche l’accessibilità ai servizi sanitari e il livello di salute generale. La salute non è uguale per tutte le persone ed è peggiore nelle fasce sociali più deboli, come si è manifestato chiaramente anche in questi ultimi mesi.

Nemmeno questa sindemia pare avere scalfito i dogmi neoliberisti che l’hanno determinata. In sanità pare che la via intrapresa negli anni passati per colmare il definanziamento pubblico attraverso coperture sanitarie private (previste, purtroppo, anche a livello di contratti di lavoro) possa paradossalmente ritrovare slancio in questo momento peggiorando le diseguaglianze.

In quest’ottica, deve essere rifondato un servizio sanitario pubblico (sia regionale che nazionale) che riconfermi invece i propri pilastri fondamentali: cha sia preventivo, sociale, universale, partecipato, uguale su tutto il territorio nazionale e basato sulla fiscalità generale progressiva che permetta un servizio “free at the point of use”, come dichiarato nel momento di nascita del National Health Service inglese da cui il nostro Servizio Sanitario ha preso spunto per la riforma sanitaria nazionale del 1978. È indispensabile che tutte le persone e le realtà che ritengano fondamentale contrapporsi ad uno scivolamento verso la privatizzazione e le diseguaglianze in salute e in sanità si contrappongano ora a chi, seppur legittimamente, per loro esclusivi interessi economici,spingono per poter accedere ancora più pesantemente a nuovi e vecchi settori sanitari in modo tale da mantenere come obiettivo finale i bisogni di salute della popolazione considerati in modo complessivo.

Antonio Muscolino

di Medicina Democratica

19/1/2022 https://transform-italia.it

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