Sanità pubblica Dall’amore di oggi al come o peggio di prima?
In queste settimane l’emergenza sanitaria, che tra l’altro è tutt’altro che risolta, ha messo a nudo le difficoltà complessive del nostro sistema per la salute. Non si è trattato solo, con tutta evidenza, di toccare con mano quanti danni si sono accumulati negli ultimi anni di austerità, definanziamento, piani di rientro ecc. In realtà si è vista anche all’opera l’inadeguatezza, l’insipienza, il cinismo e la scarsa tenuta etica di una classe dirigente politica, che soprattutto nelle sue articolazioni regionali ha mostrato il peggio di sé: Piemonte e Lombardia ne sanno qualcosa.
Sullo sfondo di uno scenario turbolento si stanno a poco a poco sedimentando anche le prime analisi di varia fonte (dal sindacato all’accademia, dalle organizzazioni professionali ai soggetti economici…), generalmente tese a delineare una qualche forma di futuro in cui i limiti e i problemi dell’oggi possano essere superati in avanti.
A dire il vero non sempre si tratta di riflessioni promettenti, soprattutto quando a prevalere è lo “spirito di corpo” categoriale. Da quest’ultimo punto di vista uno degli esempi più chiari è quello rappresentato dai MMG (Medici di Medicina Generale). Figure da più parti ritenute decisive e non sufficientemente protette ed ascoltate, hanno a più riprese eretto barriere a una revisione del proprio ruolo rivendicando l’autonomia professionale. Si tratta di resistenza in continuità con un atteggiamento di lungo corso, miope e incapace di vedere ciò che servirebbe per collocare la loro figura in un sistema più adatto a valorizzarla e a incontrare efficacemente le richieste del territorio di riferimento. L’inserimento dei MMG all’interno del SSN come dipendenti e come dirigenti a capo di equipe multiprofessionali formate anche da specialisti ambulatoriali, infermieri, operatori sanitari, assistenti sociali, in condivisione sinergica di spazi e tecnologie, non potrebbe che portare giovamento all’odierno sistema atomizzato. Questa prima avvisaglia dimostra che anche le migliori intenzioni dovranno fare i conti con realtà contraddittorie e complesse: non basteranno proposte illuminate.
Le vicende dell’attualità drammatica hanno in ogni caso saputo anche stimolare ragionamenti che, a partire da una risposta riorganizzativa tarata sulle esigenze determinate dalla pandemia, guardassero a ricadute proficue per la gestione di domani in cui le persone da prendere in carico non sarebbero più affette da SarsCov2. Chi ha messo in campo le proposte più convincenti lo ha fatto a partire dall’evidente limite riscontrato sul versante della sanità territoriale, della prevenzione e delle cure primarie. Oggi per l’emergenza e domani per la normalità dovrebbe essere il distretto a svolgere il ruolo di perno centrale di un sistema in grado di collegare l’ospedale (temporaneamente COVID dedicato) con tutti gli aspetti che diramano dalle esigenze di coordinamento decentrato di varie strutture e varie figure tra cui anche i medici del lavoro e gli RLS; un distretto dotato sia di attrezzature (piattaforme informatiche, altre tecnologie al servizio di chi tratta e archivia dati e informazioni) che di personale. Una dotazione organica formata da professionalità in grado di utilizzare e leggere anche device per la medicina a distanza. Una rimessa in forma di questo tipo non cede solo all’occasione, ma tenta senza dubbio di uscire da una visione ospedalo-centrica e puntare al potenziamento dei servizi di prevenzione, di promozione della salute e di cure primarie. Oggi, per dare assistenza ai pazienti ambulatoriali affetti da COVID; domani, per una presa in carico sostanziale e non formale dei pazienti con patologie croniche al fine di prevenirne le riacutizzazioni e per lo sviluppo di politiche sui corretti stili di vita. Il limite che semmai si può qui riscontrare è quello di una progettualità che, sebbene con tratti avanzati, si limita ad uno sguardo settoriale; un settore peraltro molto critico e posto sotto evidente stress.
Mettere a tema un ragionamento organico invece, avere il respiro di una
vera e propria riforma, non è certo cosa semplice. Qualche primo tentativo è stato fatto, e complessivamente sono state almeno enucleate alcune questioni di fondo a cui occorrerebbe metter mano. Il punto di partenza raccoglie un dato che dovrebbe avere una diffusione di massa (anche se con modalità a volte contraddittorie e confuse): la presenza di un sistema sanitario pubblico ed universalistico è dirimente rispetto agli esiti di salute, di malattia e mortalità. Si è poi potuto comprendere, a proposito di quel che si diceva più sopra, come la medicina del territorio sia dirimente rispetto alla medicina tutta incentrata sull’ospedale. Un ulteriore elemento di apprendimento è legato alla capacità di previsione della pandemia e del suo andamento e incidenza. Per non rimanere ancorati ai limiti che le Regioni e il Paese hanno conosciuto in questo senso andranno rilanciate le competenze epidemiologiche, gli osservatori epidemiologici, gli organismi preposti alle analisi delle malattie infettive. E’emerso altresì che la diffusione del COVID-19 non è tanto o solo una questione virale e che dunque occorrerebbe una visione pluridisciplinare e sistemica. Infine è risultato chiaro una volta di più che le pandemie incrementano le disuguaglianze di salute.
Sulla scorta di questo primo tessuto valutativo è possibile indicare un’articolazione di interventi da pensare come coordinati in un unico frame riformatore. Le azioni andrebbero dunque portate verso un maggior coordinamento tra centro e periferia (questione del titolo V, ma anche autonomia differenziata per niente abbandonata dopo le prime feroci critiche…), rilancio della prevenzione, aumento della capacità delle persone di acquisire conoscenze e abilità personali per il miglioramento della salute individuale e di comunità, promozione della salute nei luoghi di vita e di lavoro, incremento della medicina territoriale e di prossimità. E ancora: implementazione di un sistema integrato concreto fondato sulla disponibilità di tecnologie della comunicazione e big data (basti pensare alla frammentarietà letale degli interventi, le RSA…), incremento della diffusione delle nuove tecnologie e della telemedicina, strutturazione di un sistema di monitoraggio (in particolare potenziamento degli osservatori epidemiologici), creazione di una rete di ospedali sia ad alta specializzazione, sia che possano garantire la continuità di cura rispetto al territorio.
Nel risalire l’attuale dibattito sul futuro della nostra sanità con una sorta di percorso dal particolare al generale abbiamo potuto intuire potenzialità e pericoli. E’ del tutto evidente però che esso non tiene in debito conto (o ancora non è riuscito a farlo in modo chiaro) di alcuni limiti di fondo.
Se non si risolveranno i nodi di seguito sinteticamente riportati, difficilmente potrà affermarsi una nuova stagione positiva per il diritto alla salute.
Primo nodo: le risorse. Non potrà mai affermarsi nessun rilancio del nostro SSN senza un adeguato e continuativo rifinanziamento. Non è per niente scontato che esso possa affermarsi passata l’emergenza in corso. Ora si spende (per quanti anni si è tagliato!), ma se la logica ferrea europea del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact torneranno sovrani non ci sarà scampo: avremo nuove tornate austeritarie anche in sanità. Senza una monetizzazione del disavanzo, senza cioè finanziare la salute non creando altro debito che ci verrà chiesto di restituire con interessi salatissimi, non sarà possibile alcun rilancio del nostro sistema salute. Se, dunque, una campagna come quella lanciata per utilizzare denaro fresco della BCE senza creare nuovo debito pubblico avrà successo si potrà guardare con una qualche fiducia ad un domani non più preda della trappola del debito. Chi sostiene che ci potremo curare meglio in futuro accettando “doni danaici” come i soldi provenienti dal MES (sotto condizione o comunque da restituire e da “abbattere” poi dal debito pubblico) è un sepolcro imbiancato. Di questi ultimi il Paese pullula e già si sentono echeggiare le proposte più indecenti come quelle che vorrebbero i denari del MES utilizzati per coprire l’abbattimento IRAP, che come noto serve per finanziare la sanità regionale.
Secondo nodo: la partecipazione e le lotte. Si è davvero ingenui se si pensa che la pandemia con il suo carico drammatico di morte, con la sua capacità di ingenerare crisi a più livelli, possa di per sé determinare una quasi automatica propensione alla revisione delle politiche per la salute che abbiamo conosciuto negli ultimi trent’anni. Se si aprirà una nuova stagione per queste ultime lo si dovrà al fatto che uomini e donne, operatori sanitari, forze politiche e sindacali, associazioni e movimenti sapranno, con modalità per molti versi da sperimentare, aprire e tenere aperte per lungo tempo delle brecce nel soffitto di vetro che le strategie ordoliberiste ci hanno costruito. Quelli che con pazienza certosina hanno sostituito ai concetti di democrazia e uguaglianza quelli di concorrenza, efficienza e merito, quelli che hanno imposto le forsennate valutazioni attraverso gli indicatori econometrici come l’alfa e l’omega di qualsiasi istituto sociale (dall’Università, alla Pubblica Amministrazione, alla sanità appunto…), quelli che pensano che i suddetti indicatori permettano sempre
una valutazione e decisioni razionali, che siano naturalmente superiori alle farraginose procedure democratiche (basta la tecnocrazia ad applicare, tutt’al più un esecutivo), ecco bisogna sapere che nessuno di essi ha o avrà mai l’intenzione di mollare l’osso. Per quanto impegnativo, sfidante e “senza rete” il percorso possa essere non abbiamo che quello: la rimessa in campo di un intelligente e determinato conflitto sociale. Bisognerà velocemente porre a critica radicale la spinta nazionale (piagnucolosa e plaudente come qualcuno l’ha descritta), quella dei balconi tricolori, per rideterminare una presenza fisica negli spazi pubblici, fuori anche dalle terribili illusioni della rete. Qualcuno, come ad esempio Medicina Democratica, ha già da tempo provato a far convergere più soggettività di vario genere sul terreno di una ripresa della lotta. Occorre andare in ogni caso in quella direzione in modo determinato e tenendo presente due cose. Da una parte vi è la necessità di coinvolgere democraticamente un’area larga di persone, che vadano oltre la stretta militanza politica, sindacale e di movimento. Questo significa tra l’altro fare i conti sino in fondo con situazioni potenzialmente spurie, confuse, che però non sono aggirabili se si desidera una soggettività potenzialmente di massa. Dall’altra andrebbe a poco a poco, dentro una ricostruzione comune di coscienza dove abbiano parola le storie di tutt@ e di ognu@, messo al centro il tema dell’emancipazione. Oggi il diritto alla salute è calpestato da tutte le parti e con esso la dignità delle persone. Come si dovrebbe sentire se non profondamente umiliata, schiacciata e impotente una persona, magari anziana, che non si può curare non perché la cura non esiste, ma perché non ha risorse a sufficienza? Ecco, allora, che va ricominciato un cammino lungo il quale la rivendicazione del diritto alla salute deve essere considerato esattamente come parte essenziale di percorsi di ri-emancipazione, di possibile determinazione personale fuori dagli assoggettamenti imposti con sempre maggiore e brutale raffinatezza.
Terzo nodo: l’approccio al cambiamento possibile. Non bastano risorse e rapporti di forza favorevoli per portare a casa una stagione riformatrice degna di questo nome. Qui, su questo specifico punto, uno studioso sicuramente stimolante come Ivan Cavicchi sta insistendo da tempo, da ben prima che arrivasse il COVID a portare la sua burrasca. Si può essere più o meno d’accordo con lui, ma è un fatto che la qualità di un’idea riformatrice, le domande fondamentali intorno, per esempio, all’ idea di tutela, o di cultura dei servizi, o di formazione e profilo della professione medica sono davvero ineludibili per tutti, o almeno lo sono per coloro i quali non si accontentano di continue riorganizzazioni senza mai farsi domande sul modello di fondo. Ne abbiamo ben viste in questi anni di riorganizzazioni siffatte, basti pensare agli ospedali: tagli, ridimensionamenti, chiusura di reparti, chiusura dell’ospedale tout court. Tutto questo con logiche puramente di contenimento della spesa, senza mai cercare di capire se le modellistiche di fondo non fossero semmai diventate obsolete. La sfida a questo punto dovrebbe essere quella di mettere tutta l’articolazione del sistema sanitario alla prova dei cambiamenti avvenuti nella società, esercitandosi parimenti con un approccio che tenga in debito conto la complessità. Per quella via sarebbe poi possibile affrontare la vexata quaestio della sostenibilità del sistema attraverso una strategia non ragionieristica, ma individuando tra tutti i possibili modi per collegare i costi ai singoli obiettivi di salute quelli che meglio rispondono al doppio scopo del soddisfacimento del bisogno e del buon utilizzo delle risorse; un’adeguatezza complessiva che, una volta tanto, non richiederebbe i soliti sacrifici sul lato dei diritti. E’ giunto il momento di fare memoria di come negli anni il diritto alla salute si è sviluppato dalla base costituzionale per declinare sino ad oggi. Se è vero che le stagioni controriformatrici si sono susseguite senza sosta e interessando vari colori politici, occorre anche affermare il bisogno di nuovi sguardi sui principi basilari in quanto tali. Lo stesso art. 32 della costituzione andrebbe ripreso non già per indebolirlo, ma semmai per rafforzarlo ampliandone la portata oltre una interpretazione semplicemente difensiva. E’ il momento drammatico che stiamo vivendo, con i suoi incroci perversi di crisi economica, ambientale e sanitaria, che spinge verso una proposta di costruzione della salute, di politica che si dispone ad agire prima dell’instaurarsi dei problemi di salute e della stessa prevenzione per come la conosciamo. Il pensiero riformatore in questo campo dovrebbe essere consustanziale con la vecchia/modernissima richiesta della classe operaia del lungo ’68 italiano: cosa, come, per chi, in quale quantità produrre? Ogni scelta in campo economico, urbanistico, ambientale, infrastrutturale o culturale che sia dovrebbe avere al suo interno già svolta una valutazione sulle possibili ricadute in termini di salute; si affermerebbe così una reale trasversalità foriera di riallocazioni delle risorse nel medio e lungo periodo, non certo per finanziare la malattia come è avvenuto sinora (con grande lucro per la sanità privata, tra l’altro). Sul territorio piemontese battaglie di questo tipo sono certo desuete, eppure più di 10 anni fa Mario Valpreda, all’epoca Assessore regionale, aveva impostato il suo lavoro esattamente su questi binari. Continua a rimanere valida oggi più che mai la sua esperienza interrotta, ma pur sempre gravida di una energia inespressa che attende nuovi recettori per svilupparsi ulteriormente.
L’amore e la riconoscenza verso il sistema della salute (i suoi uomini e le sue donne) si è riconfigurato in queste settimane. Serve agire ancora su queste disposizioni che vanno maturando, cercando di guidarle verso atteggiamenti sempre più consapevoli e critici, fuori dall’indifferenziato plauso nazionale. Il servizio sanitario, le sue possibilità di intervento sono il frutto, come recentemente hanno ricordato Dardot e Laval, di una relazione solidale esistente tra le persone. Esso è pubblico perché è al servizio del pubblico ed è nelle disponibilità del pubblico. Andrebbe ancora e sempre ricordato, in modo particolare quando questi o quei rappresentati dello Stato lo intendono come loro proiezione e a loro disposizione. Essi dovrebbero semmai garantirlo entro un rapporto radicalmente democratico, che intende rovesciare gli automatismi delle regole liberiste ridotte a stato di natura.
Alberto Deambrogio
Collaboratore redazionale
Articolo pubblicato sul numero di maggio www.lavoroesalute.org
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