Sapere, potere e controllo della natura: l’intreccio tra tecnologia militare e accademia
Quello che hanno creato e creano tuttora le occupazioni di sostegno alle lotte di liberazione, sono stati momenti di confronto utili per approfondire ed allargare sguardi. Mettere in discussione equilibri, muovere coscienze critiche: fa parte del bagaglio resistente che si alimenta, si fortifica agendo contro il coinvolgimento in dinamiche predominanti e oppressive che tentano di sopire le coscienze e sfruttare le menti.
Come Ecologia Politica Torino pensiamo che sia necessario ritagliarsi gli spazi per discutere di saperi e contro-saperi, narrazioni e contro-narrazioni riferite agli scenari globali in cui siamo immersi. Queste giornate di occupazione sono state un’occasione in più per riflettere collettivamente. Le Intifade hanno messo a centro campo la questione della politicizzazione del sapere e quindi della non neutralità della scienza. Per noi da sempre l’ecologia è politica, per cui un certo modo di organizzare il vivente diventa espressione di specifiche volontà. Questo ragionamento è estensibile a tutto ciò che compone la galassia delle scienze e che quindi compone la fabbrica del sapere. La scienza e la tecnica, una loro critica, ma soprattutto la loro complicità e il loro ruolo nello sviluppo di tecnologie belliche impiegate in un genocidio sono stati i punti fermi di analisi collettiva durante le occupazioni e anche il ragionamento che ha portato a un attacco all’inettitudine e all’accettazione della componente universitaria di prendere parte a dinamiche mortifere. Le diramazioni delle scienze e della tecnica sono sottili e articolate, bisogna seguirle e percorrerle per avere evidente il legame tra luoghi del sapere e luoghi di oppressione e guerra. Un legame che abbiamo tentato di sottolineare ed evidenziare con l’aiuto di Diana Carminati, a partire dai suoi libri editi da Derive e approdi (Gaza e l’industria israeliana della violenza, 2015- Esclusi, 2017 – Come si liquida un popolo, 2023) e il professore di sociologia, Dario Padovan.
Buona lettura!
Sulla questione della tecnica e della sua militarizzazione
Con il termine tecnica intendiamo il complesso tecnologico industriale composto da diversi elementi. Vi rientrano le istituzioni che portano avanti ricerche scientifiche, le imprese che contribuiscono alla loro produzione e implementazione, infine rientra chi le governa per sfruttarne la capacita trasformatrice, utilizzandola strategicamente in campo geo-politico ed economico.
Da sempre, infatti, le rivoluzioni tecnologiche hanno innescato dinamiche di competizione per ottenere la padronanza e il controllo di tali innovazioni, in grado di garantire un vantaggio a livello produttivo e riproduttivo. L’obbiettivo prioritario per gli stati è diventato, di conseguenza, quello di trasformarsi in potenze tecnologiche. Per concorrere a tale scopo, il consenso culturale e la coesione sociale sono diventati altri perni attorno cui costruire una narrazione positivista e propagandistica della tecnica. La società, l’economia, la cultura e la conseguente mobilitazione delle risorse sono impattate dal complesso tecnologico industriale che esprime su di esse il carattere totalitario di chi le applica. La tecnica è una manifestazione di potere sulla sfera materiale e biologica, ma anche sulla sfera dell’immaginario.
Se ripercorriamo la storia degli avanzamenti tecnologici degli ultimi secoli, vediamo come ciò che spesso ha mosso il progresso scientifico/tecnologico è stata la necessità di innovazione in ambito militare, quindi la ricerca in ambito bellico. La scienza, come la tecnica, è legata a doppio filo a fini produttivi bellici e così, le applicazioni delle conoscenze scientifiche inseguono i diktat del settore delle armi o le necessità del contesto militare dell’epoca.
Il tema della sicurezza è al primo posto nel dettare priorità e obiettivi in campo tecnologico, in cui a dominare -negli ultimi anni – è la tendenza alla digitalizzazione degli assetti militari.
La rivoluzione digitale e l’utilizzo dell’IA sono in grado di ridefinire gli scenari bellici attuali. La loro implementazione è strettamente connessa all’estrazione di alcuni materiali strategici, come le terre rare, che diventano al centro di un’ulteriore contesa e potenziali conflitti.
Le varie politiche relative alla transizione digitale diventano quindi, più che vettori di sostenibilità, vettori di dominio e avanzamento delle prestazioni tecnologiche.
La Palestina come laboratorio di nuove tecnologie belliche
Protagonista dell’innovazione in campo tecnologico è l’apparato militare e sicuritario israeliano. Il quale, proprio in quanto leader del settore, ogni anno riceve miliardi di dollari dagli Stati Uniti.
Negli ultimi decenni, Israele ha sviluppato tecnologie avanzate nel campo della sicurezza e del controllo, che vengono poi esportate e adottate da vari governi a livello globale. L’occupazione permanente dei territori palestinesi ha permesso ad Israele di sviluppare sofisticati sistemi di sorveglianza e controllo.
Gaza è stata descritta come un’area di sperimentazione per nuove tecnologie di sicurezza, inclusi sistemi di sorveglianza basati sull’intelligenza artificiale. Attraverso quest’ultima, Israele ha perseguito l’obbiettivo di disumanizzare la popolazione palestinese, condizione necessaria per poter perpetrare il genocidio in corso. Questi sviluppi tecnologici hanno sollevato preoccupazioni riguardo agli effetti che possono avere su diritti umani e privacy.
Si tratta di know how che fanno di Israele il punto di riferimento in tali ambiti, molte innovazioni sono state copiate e incollate in altri contesti geopolitici, per fare un esempio, queste innovazioni sono le stesse che vengono impiegate nei sistemi di controllo delle frontiere dell’Unione Europea, nelle pratiche di sorveglianza e repressione della popolazione più in generale.
Gli avanzamenti nel controllo militare, vengono spesso applicati anche al controllo civile.
Le tecnologie di repressione e sorveglianza, che alle nostre latitudini sono embrionali, derivano da un modello di sicurezza razzializzata, affinata negli anni da Israele.
Questa primavera grazie alle mobilitazioni pro palestina nelle università italiane, si è messo in luce proprio l’evidente legame che esiste tra le tecnologie implementate nei “luoghi del sapere” e l’industria bellica. In particolare, tra le richieste portate avanti, vi era il boicottaggio degli accordi riguardanti tecnologie dual use, tecnologie che possono avere applicazione sia in ambito civile che militare.
Un’accoppiata resa ancora più esplicita tramite il Bando MAECI (Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale) che ha fatto emergere la complicità delle istituzioni di ricerca italiane con Israele. Il bando indicava l’Accordo di cooperazione industriale, scientifica e tecnologica con le università israeliane, i cui progetti e risultati rientrano nel dominio dual use e quindi applicabili in contesti sia civili che militari.
Dal momento che la ricerca universitaria ricopre un ruolo fondamentale nello sviluppo di tecnologie belliche, non può non porsi il problema relativo all’utilizzo che ne viene fatto. Eppure la connivenza tra mondo del sapere e mondo militare è un dato di fatto che istituzioni e governo intendono assumersi a braccia aperte, nascondendosi dietro la solita burocrazia da bradipi e le simboliche e vuote parole “pace” o “cessate il fuoco”.
Durante le mobilitazioni, le università, non disponibili a rinunciare ad accordi di collaborazione con determinate istituzioni o imprese, hanno dato prova dell’impossibilità della neutralità della scienza. Determinate ricerche vanno a costituire un primo ingranaggio nella macchina della filiera bellica e della produzione di armi.
Se la scienza e le istituzioni che la impartiscono non possono essere neutrali, allora dovrebbero essere in grado di schierarsi o almeno di assumersi le conseguenze che determinate relazioni accademiche provocano. Delle relazioni che intercorrono da tempo e che hanno consolidato e legittimato l’accademia israeliana in tutto il mondo, nonostante il regime di apartheid palestinese sia in atto da ben prima del 7 ottobre.
Le Intifade studentesche sono riuscite a denunciare ciò che in Palestina prende forma da ormai troppo tempo, una determinata modalità di Israele di annientare la popolazione per conquistarne i territori: il colonialismo di insediamento.
Il colonialismo di insediamento
Questa espressione indica il progetto esplicito di irrompere in territori a cui non si appartiene e di espellere i nativi che li abitano. Non si tratta di una forma di apartheid, ma dell’espulsione o eliminazione degli abitanti nativi in toto. Il sionismo già dalla fine del 19esimo secolo ha cercato di costruire uno Stato senza nativi, eliminandoli dalla loro terra. Questo processo, come abbiamo visto negli ultimi otto mesi, è arrivato ad ammassare in un angolo estremo della striscia di Gaza, quasi 2 milioni di persone – dopo averne uccise migliaia- per poi tentare di espellere o annientare i sopravvissuti.
Il progetto sionista di insediamento ha attraversato una prima fase di divisione territoriale con conseguente espropriazione delle terre ed espulsione della popolazione palestinese in altre aree, seguita da una seconda fase ovvero quella della distruzione dell’economia palestinese. Tematica- quest’ultima- poco analizzata e affrontata dal contesto di sinistra europeo. Lo smantellamento dell’economia palestinese ha comportato diverse trasformazioni: la devastazione dell’agricoltura palestinese, la frammentazione delle strade palestinesi e la ricostruzione di strade unicamente israeliane, comportando un isolamento delle città palestinesi più piccole e conseguenti difficoltà nella mobilità e nel commercio. Tramite gli accordi di Oslo si sono poi interrotte in maniera definitiva le attività di import-export dell’economia palestinese, tutto doveva passare attraverso le dogane israeliane, che imponevano pesanti tassi in ingresso e uscita. Il sistema economico palestinese si e dunque impoverito moltissimo e con esso molti dei lavoratori che lo alimentavano.
Il colonialismo di insediamento, infatti, passa attraverso la distruzione delle possibilità di lavoro, l’accrescimento della povertà e il controllo burocratico della sopravvivenza.
Dal 2006\2007 in Palestina furono razionati tutta una serie di beni necessari alla vita quotidiana, l’importazione di generi alimentari fu ridotta a 114 tipologie di alimenti in modo da ridurre al minimo possibile le calorie necessarie a seconda del sesso e dell’età. Sotto un attento controllo figurava anche l’erogazione di elettricità, benzina, acqua.
A partire dalla necessita di canali di scambio più agili, già dal 2007\2008 venne implementato un sistema di tunnel, utilizzati da sempre tra i beduini del sinai e i commercianti di Rafah, i quali divennero il principale sistema di importazione di beni come auto e animali, ma anche di conservazione di un determinato modo di riproduzione che altrimenti sarebbe stato annientato.
Che centra l’ecologia?
La questione ecologica è centrale all’interno dei conflitti, dove la natura viene rielaborata e strumentalizzata.
Se in altri tipi di colonialismo vi erano delle pratiche inclusive come quella della schiavitù, intesa come messa a valore del capitale umano per un obiettivo di produzione e sfruttamento delle risorse naturali, con il capitalismo di insediamento cambia anche il modo in cui la natura viene estratta e sfruttata attraverso l’utilizzo di minoranze razzializzate. La natura viene utilizzata come uno strumento bellico, piegata alle esigenze della guerra, impiegata per indebolire l’avversario attraverso la sua privazione, come nel caso della mancanza di acqua o di energia.
Anche le infrastrutture che sono usate per governare queste risorse, ad esempio le dighe o gli impianti energetici, diventano delle armi contro i nemici.
L’uso dell’energia è l’epitome dell’utilizzo della natura a scopi bellici, perché viene utilizzata sia per ottenere profitti attraverso cui si finanzia la guerra, sia come carburante per il proprio esercito.
L’energia è anche uno strumento che ha permesso a Israele di uscire in parte dall’isolamento con i paesi arabi che la circondano stringendo accordi con l’Egitto, Arabia Saudita, Barhein ed Emirati Arabi.
Legato al tema dell’utilizzo della natura come arma vi sta anche il processo inverso: laddove si distrugge la natura c’è un processo di deumanizzazione degli umani che vivono in quegli habitat, perché vengono distrutte le condizioni di riproduzione. Si utilizza in questo modo la natura come strumento contro il nemico, anche distruggendola, l’obbiettivo: indebolire l’avversario.
Cosa potrebbe comportare una visione dell’ecologia politica della guerra?
Un collegamento tra due grandi dimensioni: quella dell’ecocidio e quella del genocidio, inserendola in una visione più ampia definibile con il termine di biocidio generalizzato o ecocidio, ovvero la distruzione degli ambienti in toto, con tutti i viventi che li abitano, umani e non. In questa logica il movimento ecologista e non solo ha di che rimboccarsi le maniche, tentando di capire come inscrivere questo tema in una logica più ampia di un capitalismo globale che non si ferma nemmeno di fronte a quelli che sono gli ostacoli del suo processo di auto-valorizzazione.
Ora ci sono delle trasformazioni in corso: le occupazioni universitarie in tutto il mondo, da parte di studenti che lottano contro questo sistema, dimostrano che ci sia una volontà di immaginare un sapere, una scienza e quindi anche una tecnica diversi. Genocidi e conflitti ci pongono davanti la vera essenza mortifera che sottosta al sistema in cui viviamo, che minaccia attraverso l’accaparramento di risorse e al tempo stesso le annienta per eliminare l’avversario. Le complicità del sistema della formazione occidentale con lo stato di Israele ci portano a costruire un ponte di conflitto in cui schierarsi diventa un obbligo e un dovere. Schierarsi a fianco della resistenza palestinese vuol dire schierarsi contro logiche ecocide ed estrattiviste che da Israele ai governi occidentali vengono messe in atto per alienare conoscenze, popoli e territori.
15/7/2024 https://www.infoaut.org
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