Sarah Jane, storia di un’italiana a Dakar
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Intervista a cura di Agatha Orrico
Sarah Jane Capelletti è una di quelle donne che sarebbe un peccato non conoscere. Forte, spontanea
e senza filtri, ha la voce squillante e una verve contagiosa che probabilmente sono un misto di Italia
e Senegal, i due Paesi ai quali sente di appartenere. La stessa allegria la trasmette al telefono, dove la contatto per quest’intervista, scaturita da un dialogo lunghissimo, quasi un flusso di coscienza.
Sarah, un lungo percorso nell’attivismo, di mestiere fa l’attrice. È stata modella e danzatrice, e da diversi anni si è trasferita a Dakar.
Buongiorno Sarah Jane. Che bello il tuo nome, c’è una storia dietro?
Sì, è un nome che i miei genitori hanno scelto in onore di una pellicola americana del 1959, “Lo Specchio della vita”. Narra la storia di una ragazza mista che si finge bianca per non attirare il pregiudizio razziale su di sé. Quel film li aveva talmente colpiti che hanno deciso, se avessero avuto una figlia, di chiamarla così.
Papà è bergamasco, mamma è sarda, tu sei nata e cresciuta a Romano di Lombardia. Quando accade che la tua storia si interseca con il Senegal?
Quello è stato un percorso naturale, iniziato quando ero ancora una ragazzina. Si può dire che sia cresciuta con la diaspora senegalese in Italia, è negli anni dell’adolescenza che è cominciato il mio attivismo.
Andiamo per gradi: tuo marito come l’hai conosciuto?
Conobbi Macou nel 2004. Lavorava per un’importante azienda navale e quasi ogni sera, dopo il lavoro, si fermava al pub dove lavoravo. Inizialmente non ero per niente interessata a lui, anche se mi aveva colpito il fatto che avesse tantissimi amici del luogo e che parlasse benissimo la lingua; mi aveva dato l’idea di essere un uomo responsabile e indipendente. Poi però lui diede il via a un corteggiamento serratissimo, durato sei mesi: mi spediva mazzi di rose rosse, mi invitava a cena, mi faceva trovare delle scritte fatte con i petali… insomma, un vero galantuomo. E così ci siamo innamorati, nonostante caratterialmente fossimo l’opposto. Pensa che ha chiesto la mia mano ai miei come si faceva una volta. Ha avuto fretta di sposarmi, temeva molto il giudizio della diaspora senegalese.
La sua famiglia come ti ha accolto?
Mia suocera fu felice della notizia, a differenza di mio suocero che all’inizio nutriva molte riserve. E ci tengo a dire una cosa: mio marito ha undici anni più di me, quindi niente stereotipi sulle donne italiane più grandi. Scrivilo!
Sì, lo scrivo. E avremo modo di parlare anche degli stereotipi. Voi avete quattro figli…
Sì, la più grande ha 16 anni, la più piccola 6. Hanno tutti due nomi, uno italiano e uno wolof, perché appartengono a due etnie. Abbiamo deciso insieme che andassero rispettate entrambe, per noi era molto importante.
Nel 2017 ti sei trasferita a Dakar, dove vivi tuttora. So che è stata una tua decisione.
Durante i primi anni di matrimonio si andava in Senegal in vacanza a trovare la sua famiglia. Quando il settore nautico dove lavorava Macou cominciò a entrare in crisi, lui decise di trasferirsi: aveva il desiderio di portare in Senegal quello che aveva imparato in Italia. Inizialmente lo raggiungevo con i figli, finchè ho capito che a me mancava un marito e a loro un padre. D’impulso, durante l’ultima vacanza, quella del 2017, ho deciso di rimanere. È stato un modo per riunire definitivamente la famiglia. Inoltre ci tenevo che i miei figli conoscessero anche l’altra loro metà, le loro origini. Era un percorso che prima o poi avrebbero dovuto intraprendere.
Mi hai fatto venire in mente una frase di Margaret Thatcher che secondo me ti si addice: “Se vuoi che qualcosa sia detto chiedilo a un uomo, ma se vuoi che sia fatto, chiedilo a una donna!” È stato difficile lasciare l’Italia?
Sì, molto! Ma ho riflettuto anche sul fatto che forse in Senegal, come madre e donna ancora giovane, avrei potuto ritagliarmi uno spazio per me, tornando alle passioni artistiche che avevo accantonato. In Italia facevo fatica a trovare un lavoro che conciliasse la gestione economica con la crescita dei figli. E poi mi spaventava dovermi confrontare con il razzismo, forse è stato uno dei motivi che mi ha spinta a trasferirmi. Allora a un certo punto mi sono lanciata, di pancia, senza organizzare nulla. Non ti nascondo che è stato un percorso difficoltoso: ho dovuto reinventarmi e ricominciare da zero.
Molti senegalesi emigrano in Europa, tu hai fatto il percorso inverso. Come si vive in Senegal?
Io mi trovo molto bene, sono integrata e ormai considero il Senegal la mia seconda patria. Dal lato economico devo dire che in Senegal è tutto molto caro, specie nelle città come Dakar, e gli stipendi molto bassi: quello medio va dai 100 ai 200 euro. C’è crisi in molti settori, penso ad esempio ai pescatori, che non riescono più a guadagnare come prima. Ecco perché talvolta l’unica soluzione è rimanere nella casa familiare dove si condivide tutto; in una famiglia numerosa, se ognuno dà il suo contributo, si riesce ad affrontare le spese quotidiane. Però questo genera un carico notevole di stress nelle coppie che, dividendo la quotidianità con suocere, cugini e nipoti, devono rinunciare alla loro intimità.
Per un uomo di famiglia la spesa si quadruplica perché deve farsi carico non solo dei suoi figli, ma anche di tutto l’entourage familiare. Da un lato questa mentalità ha salvato l’economia di molte famiglie, dall’altro ha sacrificato tutto il resto. Il sacrificio più alto lo fa il senegalese che è emigrato all’estero, senza l’aiuto del quale certe famiglie si troverebbero nell’oblio più assoluto.
Parlando di immigrazione, la questione sbarchi in Europa provoca da sempre divisioni e tensioni sociali ed è uno dei temi più strumentalizzati sia dalla destra che dalla sinistra. Nessuna delle due compagini affronta in modo efficace la questione della mobilità che dovrebbe passare dall’agevolazione dei visti e dei documenti di viaggio. Vorrei che tu mi aiutassi a fare chiarezza, spiegandoci cosa deve fare un senegalese che decida di venire in Europa regolarmente. Qual’è l’iter che deve seguire, quali requisiti servono e quanto costa?
Il problema degli sbarchi andrebbe studiato alla radice e, come hai detto tu, trae origine dalla trafila dei visti, che nella maggior parte dei casi non vengono concessi. L’iter è lungo, bisogna dimostrare di avere un conto bancario e l’equivalente di almeno 1500 euro sul conto. Per la concessione del visto turistico di tre mesi spesso viene chiesta la fidejussione bancaria. È complicato ottenere un appuntamento, dietro al rilascio dei visti si cela un un sistema non del tutto trasparente. Chi possiede 3-4000 euro potrebbe acquistare un biglietto aereo andata e ritorno e viaggiare con il proprio passaporto. Purtroppo invece c’è un business spaventoso dietro l’immigrazione, e questo fa comodo anche ai dirigenti. Chi vede il cugino che si fotografa davanti al Colosseo fa nascere in lui il desiderio di andare a visitarlo.La frustrazione nasce da lì: sapere che non puoi fare una cosa aumenta la voglia di farla. Negli anni ’90, quando si veniva in Italia senza visto, molti arrivavano in estate e poi rientravano. Chiaramente questo rientrare continuo creava un distacco dalla realtà italiana e poca integrazione, ma questo è un altro discorso.
Hai mai parlato con qualcuno che ha fatto la traversata verso l’Europa?
Certo, e ti posso dire che quella a cui stiamo assistendo è una nuova schiavitù. Ho parlato con gente che ha fatto la traversata nel deserto, per poi arrivare nei ghetti libici, dove danno proprio la caccia
ai neri per imbarcarli verso l’Europa.
I governi africani hanno una grande responsabilità in tutto questo. Certamente, di fronte alle tragedie in mare, si fa molto più rumore in Europa che in Africa, mentre è qui che bisognerebbe mobilitarsi davanti alle ambasciate. In questo momento c’è tensione verso l’ambasciata francese perché la gente sta chiedendo- giustamente – il rimborso dei visti.
È facile spostarsi all’interno dell’Africa?
Ti ringrazio per questa domanda perché è uno di quegli argomenti che non vengono mai affrontati.
La mobilità all’interno dell’Africa non è per niente facile e varia a seconda dei Paesi. Non solo i biglietti aerei sono carissimi, ma per entrare in alcuni stati servono dei permessi speciali. I senegalesi benestanti, quelli che non hanno nessun tipo di problema economico, hanno voglia di uscire dal Paese, credo che ognuno abbia il diritto di viaggiare.
Il Senegal è anche Paese di immigrazione. Qual’è la situazione degli immigrati?
In generale c’è armonia, però ci sono anche molte contraddizioni. I guineiani fanno tutti i lavori che i senegalesi non vogliono più fare: dalla consegna delle bombole del gas alla vendita di arachidi in strada. Spesso sento fare gli stessi discorsi che critichiamo in Italia: che sono venuti a rovinargli il Paese, che sporcano… anche su questo tutto il mondo è paese. Molti guineiani, come anche i maliani, finiscono col fare i mendicanti per strada.
Vorrei aggiungere che il Senegal è ancora un Paese di caste, dove si fanno differenze tra etnie. Le colf sono tenute a un gradino più basso nella società.
Veniamo a te e alla tua passione artistica. Quando è nata?
Fin da piccola ero appassionata di musica e danza.E ho sempre amato il cinema, sono praticamente cresciuta con i film di Sophia Loren e Federico Fellini. Da ragazza ho cominciato a esibirmi come artista di strada; quella per me rappresentava la libertà assoluta di espressione, l’assenza di regole. Inoltre lavoravo nella pubblicità ed ero insegnante di danza orientale. Diventando mamma ho dovuto mettere da parte le mie ambizioni.
In Senegal invece è proseguito il tuo percorso artistico. Hai recitato in tante produzioni: in Black and White del cineasta senegalese Moussa Sene Absa; nel corto di Jean Luc Herboulot; nella serie televisiva Woudjou Tubab per Pikini Production, solo per citarne alcune. Recentemente hai partecipato a un video clip dell’artista DJ Awadi, per Studio Sankara, girato interamente sull’isola di Gorèe. La clip è molto forte, che messaggio volevate veicolare?
DJ Awadi è un cantante molto conosciuto in tutta l’Africa e impegnato sul fronte panafricanista. Principalmente il messaggio è contro il neocolonialismo, parla dell’Africa che perde i suoi beni materiali esportandoli. Poi c’è la questione endemica della corruzione, del tradimento da parte dei propri connazionali e della pressione asiatica sul continente. Invertendo la narrazione – gli schiavisti
sono gli africani e i bianchi le vittime – Awadi voleva mandare un messaggio forte, un invito a provare a mettersi nei panni dell’altro, per agire sulla fratellanza e non sull’astio, affinchè certe violenze non si ripetano mai più. Del resto è un sistema, quello schiavistico, presente ancora oggi in molte aree e, se tutti ci ribellassimo, certe realtà si estinguerebbero. Ma c’è sempre chi si lascia comprare, chi vende i propri fratelli, chi pensa solo alla propria realizzazione e al denaro.
Pensi che la clip avrà un peso sull’opinione pubblica?
Sicuramente. Nel video io ho il ruolo di una schiava che fa di tutto per salvare la propria bambina dalla violenza, per ora sto ricevendo tantissimi complimenti. Non vediamo l’ora di capire che reazioni susciterà, soprattutto da parte degli afroitaliani, che sono sempre i più critici.
Quali sono i ruoli che vengono assegnati a un’attrice europea?
Sempre ruoli stereotipati. Tempo fa venni contattata per un casting. Al telefono – io parlo bene il wolof – il produttore era molto interessato a me, ma quando al colloquio dissi di non avere origini africane, saltò tutto. I ruoli per una bianca sono davvero pochi. È molto difficile che un’europea venga inserita in un contesto cinematografico, di certo non in una serie che parla del quotidiano. Le parti che mi hanno sottoposto in questi anni rispecchiano il pregiudizio che ci precede: siamo viste da un lato come donne facili – mi propongono sempre di fare la prostituta o l’amante – e questo nonostante noi occidentali siamo considerate prive di sex appeal rispetto alle senegalesi.
Dall’altro lato veniamo rappresentate come donne non all’altezza di creare una famiglia, che non sanno cucinare, che non sono in grado di gestire la casa. Una serie incentrata sulla quotidianità, dove io venga vista come una qualunque cittadina senegalese, è impensabile. In alternativa c’è il ruolo della colonialista (ride). Me ne hanno proposti parecchi, dato che ultimamente c’è un fermento di produzioni di film storici e d’epoca, ma ho sempre rifiutato.
In realtà è il motivo per il quale in questi anni ho dovuto scartare la maggior parte dei ruoli: dopo una vita nell’attivismo passata a combattere il cliché sull’immigrato africano, non vedo perché qui dovrei accettare lo stesso stigma verso le donne bianche.
Parlando di serie televisive però in Woudjou Tubab – sono terminate da poco le riprese – hai il ruolo di co-moglie. È una serie che ti ha dato parecchia visibilità.
Sì, devo dire che è un ruolo che mi sta dando notorietà e la gente si sorprende ancora che io parli wolof. Quantomeno abbiamo rotto lo stereotipo della bianca che non può vestire gli abiti tradizionali. Il mio ruolo è quello di una co-moglie che fa di tutto per mandare via la prima. Nel film si litiga in continuazione per questo uomo, ci facciamo un sacco di dispetti (ride).
Sento spesso descrivere la poligamia dalla diaspora italosenegalese come qualcosa di normale, accettata dalle donne. Stando a quanto riportano le cronache però la situazione appare diversa: si legge di continue liti e incidenti tra co-mogli. È una pratica ancora in uso, è relegata a certe zone, o va diminuendo?
È un discorso complicato. Anticamente, in periodi di carestia dove le donne erano in difficoltà, soprattutto le vedove, ha contribuito a farle uscire dai margini della società. Ci sono villaggi dove le donne devono ancora andare a prendere l’acqua per chilometri, fanno una vita difficile, e allora dividersi il lavoro è un aiuto in più. Una volta la poligamia era gestita con più consapevolezza e c’era più rispetto. In merito alla diaspora, si è creata un suo mondo, un Senegal suo in Italia. Alcuni, essendo stati forzati dalle madri a sposare una donna non scelta da loro, quando si innamorano sono più propensi verso una seconda moglie. Riguardo alle donne, c’è anche chi decide coscientemente di accasarsi con un uomo già sposato, ma la maggior parte di quelle che conosco non è felice. Vivono una vita facendosi dispetti, ogni tanto si legge di incidenti orribili, la prima moglie che butta l’olio bollente sulla seconda, gelosie tra i figli e così via. Del resto bisognerebbe prima risolvere il problema dei matrimoni forzati. Giorni fa c’è stato il suicidio di una giovane domestica, che ha ingerito del veleno perchè costretta a sposare un uomo più anziano che non amava.
Che rapporto hai con le attrici autoctone?
Dipende. Alcune sono affascinate dal fatto che io sia straniera, altre hanno un pregiudizio molto radicato. A un casting tre anni fa una ragazza si avvicinò a me urlando davanti a tutti che dovevo andarmene perché le stavo rubando il lavoro. Non la biasimo, ci sono persone che non sono mai uscite dal Senegal. Poi c’è la questione di chi ha conosciuto uomini che evidentemente hanno tenuto il piede in due scarpe: fanno lo stesso con le occidentali descrivendo le donne senegalesi.
Sono gli uomini che hanno creato questo stereotipo sulla donna occidentale?
Come ti dicevo prima, la donna bianca, l’occidentale, viene sminuita in continuazione, forse per non creare gelosie. Nell’immaginario collettivo non sa badare ai figli, non sa cucinare, non sa occuparsi del marito – convenzioni che qui contano ancora molto. Poi c’è la questione morale: mia figlia, che frequenta la scuola senegalese, ha avuto un insegnante che parlava sempre male delle europee, descrivendole come donne poco rispettabili. Per fortuna questo era solo un caso, in genere gli insegnanti sono più aperti.
A questo si aggiunge il solito cliché di chi ci definisce “bancomat”. All’inizio, quando andavo al ristorante con mio marito, il conto lo consegnavano direttamente a me, dando per scontato che fossi io a pagargli la cena. Mi capita spesso di sentire discorsi che sottolineano che l’africano in generale non sceglie una donna occidentale per amore, ma solo per la posizione economica vantaggiosa.
Di microaggressioni quotidiane ne avrei un’infinità da raccontare. Come quella volta in cui, mentre eravamo in macchina insieme, mio marito venne insultato per una manovra da un signore senegalese, che si rivolse a lui dando per scontato che fosse il mio autista.
O come quel giorno nel quale ero in macchina durante il periodo delle piogge, c’erano pozzanghere ovunque e ho schizzato per sbaglio un ragazzo in motorino.
Mi inseguì e quando abbassai il finestrino per capire cosa volesse cominciò a imprecare urlando di tornare al mio Paese. Questi episodi fanno arrabbiare più Macou che me: in questi anni ho imparato a lasciar correre, a rispondere con diplomazia, ma appena la discussione si fa un po’ più accesa, mi viene subito rinfacciato di essere una straniera, che dovrei tornare da dove sono venuta.
Come mai secondo te c’è tanta omertà su questo argomento?
Quando si denuncia un certo pregiudizio, puntualmente ci viene rinfacciato il passato colonialista, come se ogni bianco dovesse rassegnarsi ad accettare una dose di odio. Io non sono d’accordo, il passato va ricordato, ma non può diventare una scusa per creare nemici. Spesso ci dimentichiamo che il passato si intreccia, che la generazione dei nostri nonni – sia quelli europei che quelli africani – ha vissuto momenti di sofferenza, senza conoscere l’uno la storia dell’altro. Mi spaventa molto questa visione separatista, penso soprattutto ai miei figli che sono mixed. In Europa stanno crescendo generazioni frustrate che stanno incentivando a separarci. Io non ho intenzione di giustificare questo sentimento: è necessario iniziare un percorso di pace e di unione sincero. Da entrambe le parti.
Hai menzionato spesso i tuoi figli. Avendo un background migratorio, stanno crescendo con una doppia eredità. Come viene percepito il fatto di essere mixed in un Paese africano, nel tuo caso in Senegal?
Anche loro, purtroppo, hanno subito discriminazioni. Mio figlio è stato picchiato e spesso preso in giro. L’avevano soprannominato “fils de papier” (figlio di documenti). Giorni fa al mercato, stavo scherzando chiacchierando in wolof con una signora; un signore anziano si è avvicinato ed è intervenuto dicendo che i meticci come mio figlio non saranno mai dei veri africani. Con questo ovviamente non voglio generalizzare, però. Oggi che c’è un metissage molto forte, non vorrei più assistere a questi separatismi. Io parlo sempre bene del Senegal, porto rispetto verso il Paese che mi ospita, ma allo stesso tempo credo sia importarte infrangere questo tabù che impedisce di parlarne.
Allora parliamone. In America il BLM ha puntato molto sull’orgoglio dei neri e sulla valorizzazione delle loro origini. Cancel culture, woke e blackwashing sono ormai una realtà esportata anche in Europa. Questo ha favorito la nascita di gruppi e pagine social che, con l’espediente della fierezza, sono contrarie alle coppie miste e manifestano antagonismo e ostilità verso tutto l’Occidente. Anche in Senegal avverti questo sentimento?
In Senegal, come anche in altri stati africani, c’è un problema enorme che è quello della depigmentazione, specie delle donne. Sono prodotti a bassissimo costo che rovinano la pelle per farla diventare più chiara. Le prime battaglie – che erano sacrosante – sono nate per sradicare questa pratica. L’essersi sempre sentiti inferiorizzati ha fornito l’input per questa lotta, per sentirsi apprezzati e forti. Come in tutte le questioni però, l’estremizzazione rischia di nuocere alla causa, creando una contro narrazione che sminuisce qualunque occidentale. Non notano di quanto moltissime donne e uomini occidentali nutrano rispetto e fascino verso di loro, senza alcuna competizione.
In merito alle coppie miste, sapessi quante donne europee ho conosciuto in questi anni, arrivate in Senegal in coppia, felici, scoppiare a piangere per situazioni spiacevoli dopo tanti anni che stavano insieme, proprio per questi stereotipi che ci sviliscono in continuazione! Anche io ho avuto un momento di crisi ma, grazie a mio marito, l’ho superato.
Invece il momento più bello da quando vivi in Senegal, nel quale ti sei sentita davvero accolta, qual è stato?
Sicuramente quando ho conosciuto la splendida famiglia di mio marito, una famiglia molto colta che mi ha vista crescere e non mi ha mai fatto pesare il fatto di essere diversa. Il nostro primo incontro è stato un momento molto emozionante, che non scorderò mai. Lo scorso settembre invece ho vissuto un’esperienza speciale, durante le riprese di una serie per la tv. Mentre eravamo in pausa al ristorante, dei bambini mi hanno riconosciuto e, sentendomi parlare nel loro dialetto, hanno deciso di farmi una sorpresa, con balli e canti nella loro lingua. È stato un momento improvvisato ma speciale, che porterò sempre nel mio cuore.
A proposito di cuore, il tuo futuro lo vedi in Senegal o in Italia?
Questa è una domanda veramente difficile. Sia io che mio marito amiamo moltissimo entrambi i Paesi. A volte, quando crollo, sarei tentata di rientrare in Italia, Paese che amo e del quale vado molto orgogliosa, poi ci ripenso: amo troppo il Senegal. Il sogno mio e di mio marito sarebbe quello di poter vivere sei mesi qui e sei mesi in Italia. Ad oggi sarebbe davvero impossibile scegliere!
Agatha Orrico
Giornalista freelancer, si occupa di femminismo e temi sociali
Official Web Site: agathaorrico.com
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
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