Schiave, serve, lavoratrici domestiche

La dipendenza delle gerarchie è costituita da una microfisica di contrattazioni e lotte quotidiane, individuali e collettive. Anche le elaborazioni teoriche, le leggi e la letteratura normativa hanno un ruolo

Quando pensiamo ai rapporti gerarchici viene alla mente il concetto di dipendenza. Si tratta di un concetto difficile da definire, influenzato da dinamiche socioeconomiche e politiche ma anche da fattori all’apparenza più intimi, personali. Il terreno su cui si costruisce la dipendenza è costituito da una microfisica di incessanti contrattazioni e lotte quotidiane, individuali e collettive, nelle quali anche le elaborazioni teoriche, le leggi e la letteratura normativa hanno un ruolo importante. La dipendenza è una questione di potere, dipende da aspetti strutturali e relazionali. Storicamente lo spazio della casa fornisce una lente interessante per indagarne le ambiguità, come vedremo. Infatti, esiste un modo di pensare e costruire la dipendenza, in particolare in occidente e nel contesto europeo, che ha origini lontane ed esercita pesanti influenze sulla contemporaneità. Il lavoro domestico e di cura, storicamente, coinvolge sempre nuovi soggetti, costruiti come figure della dipendenza e imbrigliati in modelli di oppressione vischiosi che, invece, sembrano quasi delle scatole tetragone difficili al cambiamento. In una prospettiva di genere e femminista, il punto di partenza è la decostruzione delle sfere separate (privata, femminile, naturale e riproduttiva l’una; pubblica, maschile, politica e produttiva l’altra). Oggi, per fare questo, occorre cominciare da una maggiore conoscenza delle esperienze e delle voci delle soggettività che, da almeno cinquant’anni, partono dal Sud globale e attraversano lo spazio di frontiera costituito dalle case occidentali, dove svolgono lavoro domestico e di cura retribuito.

La casa e lo Stato fino al medioevo     

Partiamo da lontano, da Aristotele, che ne La Politica tratta dello Stato a partire dall’amministrazione familiare e dell’amministrazione familiare a partire dal grado zero dei rapporti di potere identificati nella relazione schiavo-padrone. Per Aristotele la casa è la cellula base dell’organizzazione statuale e la relazione con gli schiavi è una delle tre che strutturano i rapporti del capofamiglia nella compagine familiare – le altre due sono quella che egli ha con la moglie in qualità di marito e con i figli in qualità di padre. Gli schiavi sono definiti come strumenti animati, privi di arbitrio e volontà; le donne come maschi mancati. Tutte queste relazioni, per quanto radicalmente diverse, sono accomunate dalla dipendenza personale dal capofamiglia, cui si è tenuti a obbedire poiché si risponde alla sua autorità.

Benché la casa-famiglia sia posta alle radici dell’organizzazione statuale, privato e pubblico sono pensati e costruiti come ambiti separati. Le gerarchie familiari, interpretate come naturali, influenzano la politica nella misura in cui determinano una diversa accessibilità alla sfera pubblica. Questa possibilità, però, esiste solo per maschi adulti, liberi e non stranieri; solo per questa ragione, lo spazio pubblico è ritenuto pensabile come sistema di relazioni tra eguali.

La distinzione tra pubblico e privato decade passando per alto medioevo e prima età moderna ma, al contempo, resta molto forte l’influenza del pensiero aristotelico. Nelle società di antico regime la famiglia viene interpretata come un perfetto punto di raccordo tra il singolo e la collettività, ambito fondamentale dell’assetto civile. La sfera politica inizia a esser considerata come diretta emanazione delle relazioni familiari, che ne legittimano l’impostazione profondamente gerarchica. Rimane forte l’idea dello strumento animato, quand’anche iniziano a cambiare le condizioni giuridiche delle persone di servizio: non solo schiavi e schiave di proprietà del padrone, ma anche servi e serve che, tramite accordi temporanei, entrano in questo tipo di rapporto – spesso esercitando forme di libero arbitrio individuale che, per quanto influenzate dalle condizioni socioeconomiche, contraddicono l’idea iniziale di strumento animato. 

Sfera privata e sfera pubblica dall’Illuminismo al ventesimo secolo

Un passaggio fondamentale è quello segnato dal pensiero giusnaturalista e illuminista, che traccia di nuovo una distinzione tra pubblico e privato e introduce la teoria del contratto sociale. Quest’ultima ha in sé una portata innovativa che, tuttavia, si ferma sulla soglia di casa. Le gerarchie dello spazio familiare continuano a essere legittimate come frutto di un ordine naturale all’interno del quale si articolano e costruiscono vari rapporti di dipendenza, con la costante del dominio del capofamiglia su moglie, figli, schiave, schiavi, serve e servi Si continua a sostenere l’esclusione dalla partecipazione politica per le persone sottoposte all’autorità del capofamiglia. A partire dal Settecento e per tutto il secolo successivo, pensatori illuministi e dell’economia classica come Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx elaborano differenti teorie del valore che portano ad associare il lavoro produttivo alle attività pagate e generatrici di reddito. Smith è il primo a introdurre una chiara distinzione tra attività produttive e improduttive, identificando le prime nei lavori manifatturieri e retribuiti e definendo tutte le altre come improduttive, dunque, non generatrici di valore – tra queste le attività domestiche. Parallelamente, i lavori di casa venivano equiparati a risorse «naturali», in affinità con il pensiero illuminista, e non esisteva alcuna valutazione dell’apporto del lavoro domestico non retribuito nell’assicurare la produzione e il mantenimento della forza lavoro. A differenza degli altri autori, Marx ha ampliato il ragionamento introducendo il  concetto di riproduzione sociale. Tuttavia, con questo concetto si è riferito al «lavoro necessario» per il sostentamento, cioè alla prima parte di lavoro svolta nella fabbrica dagli stessi operai e scambiata con il salario, senza considerare il contributo delle attività domestiche – questa prospettiva sarebbe poi stata ribaltata dalle femministe marxiste degli anni Settanta del Novecento, tra cui Maria Rosa Dalla Costa e Silvia Federici ma, inizialmente, con scarsa attenzione al lavoro domestico retribuito. 

Queste trasformazioni conducono da un lato a devalorizzare il lavoro domestico; dall’altro a delavorizzare lo spazio domestico – che invece, in epoca preindustriale, sia nei contesti urbani, sia in quelli rurali, era luogo dove tutti i membri delle famiglie erano variamente coinvolti in attività di produzione (per sé e per il mercato), consumo, riproduzione, trasmissione e cura e dove ciascuna di queste attività era considerata «vero» lavoro. Nello stesso periodo si ha una graduale femminilizzazione del servizio domestico, che prosegue per tutto l’Ottocento e il Novecento – pur non essendo un fenomeno del tutto nuovo, poiché storicamente si può notare una certa alternanza tra fasi di mascolinizzazione e femminilizzazione del servizio domestico. Questa tendenza influenza anche la dimensione di genere della sfera domestica e della famiglia. Si ha così una femminilizzazione delle case, che iniziano a presentarsi come spazi di donne e per donne. Contemporaneamente, la graduale estensione del suffragio maschile universale e l’inclusione dei servi passa anche per la funzione del lavoro come criterio di accessibilità politica. Ciò avviene mentre si verificano trasformazioni nella divisione del lavoro tra i generi e mentre si consolida la costruzione di due sfere rigidamente separate: una sfera del privato (associata alla domesticità, alla femminilità, ad attività «naturali» e non produttive) e una sfera pubblica (associata alla dimensione extradomestica, alla mascolinità, alla produttività e al «vero» lavoro). La casa continua, dunque, a precludere l’accessibilità alla cittadinanza. Donne a servizio e donne padrone vivono così una forma di uguaglianza al ribasso: le due figure femminili sono accomunate dall’esclusione dai diritti politici e il genere diventa (quasi) l’unico elemento decisivo nel precluderne o permetterne il godimento. Si tratta di una trasformazione di estrema rilevanza in una prospettiva di storia di genere, definibile come femminilizzazione della dipendenza – ossia la tendenza sempre più marcata, nel XIX e in una parte del XX secolo, a considerare e costruire la dipendenza come condizione tipica delle donne piuttosto che degli uomini, tendenzialmente visti e costruiti come individui indipendenti. La figura della dipendenza resta, ancora una volta, confinata in casa.

L’estensione globale del lavoro riproduttivo

In epoca contemporanea, soprattutto a partire dagli anni Settanta del Novecento, l’estensione globale della divisione del lavoro riproduttivo – che tra l’altro era fruito da buona parte delle femministe che non argomentarono questo problema sin dal principio, confermando un divario di classe oltre che di genere – ha definito una riconfigurazione ulteriore dei soggetti coinvolti nel servizio domestico e, dunque, ha determinato la costruzione di nuove figure della dipendenza. Si trattava e si tratta soprattutto di donne – ma anche uomini – che migrano dal Sud al Nord globale. I soggetti coinvolti sono mutati, così come le mansioni e i ruoli, ma esiste ancora un apparato di idee, concezioni e pregiudizi che ha perpetuato e perpetua tutt’oggi un modo di pensare e costruire la persona di servizio come figura della dipendenza. Al contempo, continuano le implicazioni più immediatamente politiche. Gli individui coinvolti nel processo di democratizzazione vengono costruiti come «oggettivamente» inadatti e si presentano come soggettivamente indisponibili a ricoprire il ruolo di servizio, per il quale sono necessarie soggettività marginalizzate o marginalizzabili. Le persone di servizio migranti, almeno durante le prime fasi del processo migratorio, sono perlopiù escluse dalla cittadinanza e dal pieno godimento dei diritti politici e sono frequentemente pensate e costruite come strumenti animati, confinati nello spazio privato della casa, nonostante si tratti di soggetti con chiari progetti migratori, che avviano e controllano complesse catene migratorie, che con il loro lavoro di colf e badanti mantengono o addirittura arricchiscono le loro famiglie, che con le loro rimesse sostengono intere economie e che, anche nel rapporto di lavoro e nelle relazioni che intessono nei gruppi di immigrazione e nei territori di arrivo, elaborano tattiche utili a recuperare agency e spazi di autonomia – benché di rado fuoriuscendo dai rapporti di lavoro domestico.

Inoltre, la costruzione della casa come spazio privato non ha permesso di problematizzare molte delle forme di sfruttamento che la attraversano e che emergono con chiarezza se si assume la prospettiva del lavoro domestico retribuito.

Lavoratrici domestiche a Roma

Ho avuto l’occasione di intervistare molte lavoratrici domestiche capoverdiane, eritree, etiopi, filippine a Roma, per il mio attuale progetto di ricerca. Dalle interviste alle lavoratrici sono emersi molti dati sul rapporto di lavoro, sui legami strutturatisi nel paese di arrivo, sulla riconfigurazione di quelli con il paese di provenienza e su come si è trasformato il progetto migratorio. Questo, di per sé, pone in dialogo spazi intimi, locali, nazionali, transnazionali, globali, che di «privato» hanno ben poco. Rimanendo sulla specificità della relazione lavorativa, quasi tutte le intervistate hanno sottolineato il mancato rispetto dei parametri contrattuali di riferimento nazionale. Mi riferisco in particolare ai lunghi orari, ai bassi salari, all’assenza di tempi di riposo e delle ferie, ai contributi non pagati, alla trattenuta del biglietto aereo di andata e ritorno. 

Le intervistate hanno condiviso anche molte altre esperienze relative a un esercizio di controllo da parte datoriale sulla vita delle stesse, che vanno ben al di là del rapporto di lavoro e che  sono difficilmente rilevabili, poiché relegate nello spazio del privato. Una larghissima parte delle intervistate ha testimoniato in merito alla lesione, fortemente connotata per genere, dei propri diritti riproduttivi da parte datoriale. Ne è emerso un alto numero di tentati stupri e stupri. Inoltre, molte donne sono state costrette in modo più o meno diretto a rinunciare alla costruzione di una propria famiglia, ad abortire, o a lasciare i figli in collegio nei paesi di arrivo, o alla famiglia nei paesi di provenienza – a livello legislativo il ricongiungimento familiare è stato possibile solo dal 1986. Per lungo tempo, infine, queste condizioni sono state in qualche modo sancite per legge. Nel 1991 è stata emanata una circolare, valida fino al 1995, che non permetteva di recidere il contratto di lavoro domestico per i primi due anni dall’entrata. Questo ha spesso portato persone migranti ad accettare soprusi oltremodo efferati. Anche ciò ha avuto ben poco di «privato».

Olimpia Capitano è dottoranda in studi storici all’università di Teramo e autrice del libro Livorno 1921. Dentro e oltre la Classe operaia. Si occupa di studi intersezionali e storia sociale del lavoro, con particolare attenzione alla storicizzazione del concetto di classe e alla storia del lavoro domestico. È attivista della piattaforma Obres.

1/12/2023 https://jacobinitalia.it/

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