Schiavitù sul lavoro. I braccianti indiani nel Lazio

Intervista a Marco Omizzolo
a cura di Marco Gabbas

Nelle due parti precedenti, il sociologo e attivista Marco Omizzolo ha parlato della sua iniziale ricerca sui braccianti indiani in provincia di Latina, e su come sia riuscito con altre persone ad aiutarli a difendersi contro le ingiustizie.

Anch’io avevo pensato a questo paradigma coloniale o neocoloniale. Però, con l’Eritrea, l’Etiopia e la Somalia – o dei pezzi – portati in provincia di Latina, in questo caso. Tu mi hai accennato poi della resistenza che è andata crescendo. Ma tu hai notizia di dei braccianti che in modo singolo o plurale si siano difesi da aggressioni fisiche?

Immediatamente fisiche? No. Ci sono stati degli episodi occasionali, di alcuni braccianti indiani che dinanzi all’attività di qualche giovane italiano, pontino, che amava aggredirli per pseudo-divertimento, e fargli cadere il turbante (simbolo religioso), magari con uno schiaffo, una bottigliata, hanno reagito tirando fuori il kirpan, il pugnale sacro indiano. Oppure dando una spinta. Ma non ci sono stati atti violenti nei confronti del padrone. Secondo me perché è visto come un soggetto troppo in alto, dentro un rapporto di forza sbilanciato. Non solo perché soggetto, ma anche perché referente di un sistema. I padroni vengono considerati amici dei carabinieri, della polizia, dei giudici, dei politici, quindi potenti. Ricchi, e capaci di corrompere. Da questo punto di vista è difficile che si arrivi alla colluttazione. È vero il contrario, che si venga picchiati anche selvaggiamente. Tanto è vero che anche dopo lo sciopero (la fase in quei mesi era un grande casino) la cosa straordinaria è che molti braccianti hanno organizzato collettivamente delle vertenze dentro le aziende. Cioè, dopo il 18 aprile 2015 sono tornati a lavorare nell’azienda del padrone. Alcuni sono stati picchiati, altri licenziati. Molti si sono organizzati collettivamente, per chiedere i diritti negati e le retribuzioni mancanti. Il padrone è stato spesso preso alla sprovvista, in alcuni casi ha accettato. Determinando un aumento della retribuzione e una maggiore sicurezza. In altri casi abbiamo occupato le aziende.

E la scintilla che ha permesso l’occupazione è avvenuta in maniera autonoma dai lavoratori, che poi mi hanno chiamato e mi hanno chiesto di organizzarle e di gestirle per paura dell’intervento delle forze dell’ordine. Ma questo indica ancora una volta quel passaggio che dicevo in precedenza: dalla classe in sé alla classe per sé.

Da quello che ho capito, tu ti muovi sempre con degli ideali di democrazia e di legalità. Cioè tu vuoi che la legalità venga rispettata.

Ti dico, più che di legalità, di giustizia.

C’è una bella differenza, infatti! Lo strumento che mi hai accennato dell’occupazione, ma talvolta anche dello sciopero, può anche andare contro la legge. Cosa ne pensi? Ne avete parlato?

Assolutamente sì. Io sono andato contro la legge diverse volte. Nell’occupazione delle aziende, nel bloccare i camion carichi di ortaggi che dovevano partire per il Nord Italia o il Nord Europa. Io mi trovai dinanzi a questo bugigattolo, in aperta campagna, dentro una proprietà privata, dove mi portò un ragazzo indiano all’inizio della mia esperienza. E dove trovai un altro ragazzo, chiuso all’interno con un lucchetto. E io in quel caso mi domandai che fare. La mia risposta è: inaccettabile questa condizione. Ruppi quel lucchetto, contravvenendo ad una serie di leggi. Avevo già violato la proprietà privata. Mi sono trovati dinanzi a questa situazione, ho rotto il lucchetto e ho liberato quella persona. E quindi io non prevedo il rigoroso rispetto della norma. Nel momento in cui considero quella norma non solo ingiusta ma tecnicamente e anche sociologicamente indirizzata a legittimare quel sistema di sfruttamento.

Non quindi un legalismo pedissequo.

No. Per esempio, io non consiglio come primo approccio la denuncia. Nel dialogo che ho con i lavoratori c’è l’incontro, il linguaggio, la partecipazione a quell’esperienza anche dal punto di vista emotivo. Una pedagogia dell’incontro, dell’accoglienza, una sociologia dell’accoglienza che poi può prevedere la denuncia. Ma la denuncia, io non fidandomi completamente dello stato italiano, può essere realizzata solo fino a un certo punto, non sempre. Questo riguarda anche la considerazione che ho del sindacato. La denuncia sindacale è una denuncia fondamentale. Quindi rivolgersi al sindacato, ma non a tutti i sindacati, non a tutti i sindacalisti.

Puoi dirmi qualcosa di più preciso?

Ci sono delle differenze fondamentali. C’è chi pratica il sindacato di strada e di lotta e chi no. Ci sono sindacalisti che ti sono accanto mentre lotti e combatti, si assumono la responsabilità di tutto questo, e altri che invece non ci sono. Non c’è un rigore assoluto per quanto riguarda il mondo sindacale che è capace sempre di prendere posizione contro tutto questo. Se in Italia ci sono 450.000 persone che sono gravemente sfruttate solo in agricoltura, questo può indicare anche un lungo percorso che ancora i sindacati devono fare rispetto a questo tema. Non solo la repressione o le riforme del mercato del lavoro. Evidentemente, c’è un tema che non è stato adeguatamente intercettato da tutti i sindacati.

Hai riscontrato una differenza di sensibilità tra i sindacati cosiddetti confederali e quelli cosiddetti di base?

Non adotto questa distinzione. Non mi convince. Io noto delle differenze di approccio sostanziale tra sindacalisti. Cioè, ci sono sindacalisti che hanno una certa storia, una certa capacità di lettura, di interpretazione. Una passione che a volte deriva anche dalla propria storia personale, una preparazione culturale che è adeguata alla complessità del fenomeno. E che mettono in campo le azioni adeguate. Ci sono altri che possono appartenere alla medesima categoria o al medesimo sindacato, che non praticano questo genere di attività. Ci sono dei delegati che sono stati arrestati per caporalato, per truffa. O che sono sotto processo, ma parliamo di sindacalisti di livello! E altri che sono finiti sotto scorta perché con me hanno fatto delle battaglie straordinarie.

Io ricordo Giovanni Gioia, un sindacalista ex segretario della FLAI-CGIL di Latina, che aprì uno sportello di accoglienza in un luogo delle campagne pontine. Il giorno di quella inaugurazione fu fermato da un’auto che gli mostrò un fucile, perché non doveva aprire uno sportello che offriva accoglienza e legalità, giustizia ai lavoratori indiani. Ma è rimasto aperto. E ha continuato a produrre, ad accogliere, ad organizzare vertenze. Io registro quella differenza. Non sono convinto che il confederale sia non adeguato allo scontro. Vicino a me, in questi 15 anni ci sono stati importantissimi sindacalisti della CGIL.

Hai accennato a una certa politicizzazione che cozza con un’immagine che hanno molti italiani degli immigrati, come dei cagnolini un po’ sperduti che non si rendono conto dove sono. Quindi figuriamoci se capiscono la politica italiana! Come spieghi questa politicizzazione con un dato fondamentale: loro non sono dei soggetti politici perché non hanno il diritto di voto?

La mia posizione è diversa. Lo sono, a prescindere dal diritto di voto. La loro soggettività politica deriva dalla loro capacità di sviluppare una coscienza e una consapevolezza rispetto alla loro condizione. Attraverso il linguaggio, attraverso i percorsi amministrativi dove diventano soggetti. Attraverso la loro capacità di dialogare individualmente o collettivamente con le istituzioni, con le forze dell’ordine, con le amministrazioni locali, con la questura. E di agire con la schiena dritta. Anche se non sono titolari di un diritto fondamentale come quello di voto, agiscono come soggetti politici. Nel corso degli ultimi anni c’è una quota di – che è ancora minoritaria, ma crescente – di ragazzi indiani che hanno assunto la cittadinanza.

È una sfida, perché la cittadinanza apre un tema che si lega al mio concetto di emancipazione. In Italia l’emancipazione è considerata sempre positiva, una chance, una possibilità. Ti puoi liberare dalle catene dello sfruttamento, ma non diventare un cittadino consapevole e responsabile che continua la battaglia. Magari diventi un caporale! Oppure diventi un cittadino che ha il diritto di voto, ma accetta di trattare il proprio diritto nel senso di avviare una trattativa con esponenti anche dell’estrema destra, com’è capitato.

Nel momento in cui sai che puoi dialogare con il sindaco, perché sei il referente di altri braccianti indiani che si appoggiano a te, e che hanno il diritto di voto, e quella trattativa può portarti ad assumere potere all’interno della comunità – a prescindere dl fatto che quel sindaco sia di Fratelli d’Italia o della Lega – la trattativa la apri. Anche se arrivi da un’esperienza di lotta contro lo sfruttamento. Questo non è l’espressione di una scarsa conoscenza politica, ma di una scelta. Non è la conferma del fatto che il migrante comprende poco la politica italiana. Il migrante apre un dialogo con un politico, che conosce bene la politica italiana, si incontrano gli interessi. Spesso sono il più grave ostacolo al processo di liberazione dallo sfruttamento, dal caporalato, dalle forme di dominio.

Hai avuto conseguenze personal, negative per la tua attività?

Comunque, conseguenze negative inferiori rispetto a quelle positive. Il mio è un grande viaggio esistenziale, culturale. E osservo da dentro le evoluzioni sociali che sono di una ricchezza sociologica straordinaria e mi rendono più uomo di tanti docenti che sono chiusi dentro le loro cattedrali di vetro, dentro i palazzi della cultura ufficiale. Questo senza alcun dubbio. Le conseguenze sono state diverse. Ho subito degli attentati da parte dei padroni. Anche di un senso mio di responsabilità, perché dove lo scontro arrivava a livelli alti, io non esponevo il lavoratore, ma mettevo il mio nome. Quindi si è concentrata su di me l’attività di soggetti pericolosi, anche legati alle mafie. E quindi, ho avuto quattro intimidazioni, quattro attentati, su di me si è mossa la macchina del fango. Il giorno dopo lo sciopero sono stato accusato con dei volantini dove c’era scritto il mio nome, diffusi in gran parte della provincia. Quindi, con una spesa e una organizzazione rilevanti che erano state immaginate prima dello sciopero! Perché se la organizzi e la applichi il giorno dopo, probabilmente ci hai lavorato un quindici giorni prima. Mi accusavano di essere un trafficante di esseri umani, un caporale, e di percepire il 20% della retribuzione di tutti i braccianti indiani.

La FLAI-CGIL e la CGIL erano accusate di organizzare lo sciopero allo scopo di tesserare i braccianti, ed in realtà posso dire con certezza: non fu fatta una tessera a quei lavoratori. Oppure vittima di discorsi d’odio, di minacce, sui social e non soltanto. Come anche di episodi meno violenti – ma posso assicurare anche più penetranti – di discriminazione. Camminare nella mia città, e sentirsi dire da un uomo che non conosci: l’amico degli indiani, in senso dispregiativo. Trovai camerieri che avevano un atteggiamento ostile nei miei confronti, eppure ero un cliente come tutti gli altri. Magari perché avevano un qualche legame con qualcuno dei padroni. Questo genere di risposte mi hanno pesato di più che la distruzione delle mie auto, la macchina del fango, i proiettili a casa, le intimidazioni. Ricordo che in pieno sciopero, il 18 aprile 2016 ero, tra quattromila braccianti indiani, sotto la prefettura e circondato da un cordone di polizia e

carabinieri. Quindi in un luogo sicurissimo. Eppure, proprio dentro quella piazza fui preso da quattro padroni italiani, che vennero lì appositamente, i quali in maniera arrogante mi chiesero cosa fosse tutto ciò. E mentre stavo spiegando quelli mi risposero: «Stai distruggendo l’unico settore che sta dando lavoro a questa provincia. Sei responsabile della fame che colpirà molti italiani». Però torno a ripetere, questo che io sto compiendo è uno straordinario viaggio. Che non sarebbe stato possibile se non attraverso questo percorso. E le indagini sul caporalato, lo sfruttamento, l’organizzazione di tre scioperi, l’occupazione di oltre quindici aziende. E il blocco, attraverso l’azione nonviolenta, dei camion carichi degli ortaggi macchiati di sangue.

La rottura di sistemi d’interesse mafiosi e non soltanto che facevano capo anche a importanti avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro, ispettori del lavoro, sindacalisti corrotti. Il processo di sostituzione degli indiani con richiedenti asilo dopo lo sciopero. Allo scopo di reclutare nel mercato delle braccia i più fragili tra i fragili. Analizzare e studiare questo fenomeno. La questione del doping, che ho studiato e che sono riuscito a intercettare proprio perché immerso in quella realtà. E cioè l’utilizzo di sostanze dopanti finalizzate a reggere la fatica e lo sfruttamento. La tratta internazionale e i legami transnazionali che legano il Punjab a altri paesi e l’Italia. E cioè a dire la restituzione di un lavoro di ricerca che comprende anche l’esplo-razione della propria dimensione umana. Ed è l’idea per cui io non voglio alcun genere di responsabilità, di complicità con i padroni. Io non accetto, cerco di non avere alcun genere di rapporto con i padroni. Li cerco, cerco di studiarli, di identificarli, di denunciarli e di sconfiggerli sul piano sociale, a volte sindacale, a volte vertenziale, della rivolta. Io amo molto Camus, e anche Sartre. Considero entrambi due punti di riferimento. Amo molto, come ti dicevo, La pedagogia degli oppressi. Ritengo il conflitto la cellula base positiva della democrazia. Questo per me è molto superiore rispetto alle intimidazioni, a tutto quello che ho subito.

Se citi Sartre mi verrebbe da dire: attenzione che Sartre ha ispirato Fanon!

Assolutamente, assolutamente. Io cito Fanon nel mio libro Sotto padrone, non so se te l’avevo citato. Io ho scritto questo mio libro per Feltrinelli, nel 2019, che è un racconto. Non è una ricerca sociologica, ma è anche narrativa. Perché il mio scopo è anche invitare gli altri, i non braccianti immigrati a prendere posizione, a riflettere, a comprendere. E quindi ho citato Fanon nel libro, insieme ad altri autori.

Con tutto quello che mi hai detto ti sei stupito, o ti stupisci che lo stato ti voglia proteggere?

No, io mi stupisco, e non accetto il fatto che lo stato non voglia impegnarsi e proteggere adeguatamente i braccianti e le braccianti. Il fatto che protegga me determina una forma di discriminazione nei confronti di coloro che più di me sono esposti a questo fenomeno e cioè coloro che sono dentro più di me a quei meccanismi di sfruttamento che ti ho sintetizzato. Questo non mi piace. Io ho rifiutato la scorta. Non mi piace la mediatizzazione che deriva da tutto questo. La mia battaglia è una battaglia anche di presenza geografica, dico sempre, di spalla a spalla con questi sistemi. E tutto ciò che prevede la sicurezza prevede anche una sorta di alienazione di tutto questo, e questa è una dimensione che non mi piace, non mi interessa. Preferisco stare coi braccianti, soprattutto quando accanto ai braccianti c’è il padrone. Non quando c’è solo il carabiniere. Penso che la presenza di una sociologia critica e consapevole debba fare, debba fare lo sforzo di stare accanto al bracciante sfruttato, nel momento in cui a un metro da lui c’è il caporale, il padrone. Altrimenti diventa solo rappresentazione.

Ti sei mai pentito di quello che hai fatto?

No, assolutamente, pentito no. Sono stato ferito da tanti tradimenti, a volte ho mandato dei messaggi vocali in cui ho mandato a quel paese molte persone, che con me avevano fatto battaglie straordinarie, perché a un certo punto le ho trovate su un’altra sponda, o capaci di dialogare con i padroni, con i padrini. Scendere a patti con tanti, compresi esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia. Persone che con me avevano occupato le aziende, che avevano millantato di essere i grandi capi, i grandi rappresentanti della comunità indiana, e che poi invece avevano questo genere di rapporti. Ma questo non mi ha mai portato al pentimento. Mi ha permesso di crescere, di far crescere anche il mio livello di consapevolezza e di coscienza. Sai, io sono sempre stato anche un appassionato di Marx. Non ho mai amato i marxisti, ma amo molto i marxiani.

Attento che io sono tra i primi!

Ma sai, non ho mai amato lo chiese, l’ortodossia. A me piace molto l’approccio eretico, non perché deve essere eretico, ma come dire, libero, libertario. Sto scrivendo un libro che tiene dentro anche delle riflessioni anarchiche. Eppure ho scoperto durante questo mio percorso che avevo ancora dei residui piuttosto forti in questo senso. Per l’appunto, l’idea che l’emancipazione fosse in sé sempre positiva, che il lavoratore sfruttato ti accompagnasse in questa battaglia per sempre, soprattutto quando non sfruttato. E invece così non è, molto spesso. Sembra cosa da poco, ma sai, studiare solo sui libri è certamente importante, ma sperimentarlo, nel momento in cui tu compi questo percorso, a un certo punto trovi la persona con la quale hai fatto battaglie straordinarie che stringe accordi politici con sindaci di Fratelli d’Italia o della Lega Nord, che diventano poi anche economici. Poiché io non arrivo mai alle condanne, ma mi fermo all’analisi, allo studio, alla riflessione, ciò mi permette di crescere anche dal punto di vista della mia consapevolezza personale. E quindi anche delle mie riflessioni.

Vuoi aggiungere qualcosa?

Ti posso dire che non abbiamo due nuove iniziative. Una l’abbiamo chiamata Dignità Joban Singh. Joban Singh è il nome di un bracciante indiano che si è suicidato nel 202o, perché dinanzi alla possibilità di essere regolarizzato come chiedeva il governo – purtroppo quella regolarizzazione rafforzava i rapporti di forza tra padrone e sfruttato – andò dal padrone, chiedendo di essere regolarizzato, e il padrone gli chiese 10.000 euro per tutto questo. Cadde in una condizione di frustrazione e di depressione tale che lo portò al suicidio. Per me la memoria è importante. Io non voglio che Joban Singh, e ciò che ha vissuto, passi in secondo piano. Il Progetto Dignità prevede una forma di intervento attraverso avvocati molto qualificati, molto avanzata.

Finalmente siamo noi che entriamo nelle abitazioni dei braccianti, lì dove ce lo consentono. Raccogliamo la storia, tutto gratuito, tutto trasparente, per costruire nuova vertenzialità, e mi fa piacere dire che le prime cinque persone che ci hanno chiesto aiuto e che hanno messo la loro firma sotto la denuncia sono state cinque donne indiane. Molto importante. E la seconda cosa è un progetto che si chiamerà invece Libertà.

Quindi Dignità e Libertà. Che prevede l’organizzazione di una forma di cooperativa più avanzata di quelle sinora sperimentate in Italia, in cui centrali sono i braccianti, lavoratori che hanno denunciato padroni, sfruttatori, trafficanti, e hanno retto questo genere di battaglia. Dove non li portiamo a lavorare nella cooperativa come braccianti, ma sono proprio elementi centrali. Cioè, responsabili dell’intera filiera, dell’intero sistema amministrativo, dell’intera produzione, con un percorso di conoscenza e di approfondimento continuo. E questo è forse il passaggio più avanzato rispetto a tutto quello che abbiamo fatto finora. Ma solo il futuro ce lo dirà.

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