Scolpire la liberazione. Le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin
Samah Jabr – psichiatra e psicoterapeuta, direttrice dell’Unità di salute mentale del ministero della salute palestinese, assistente professore clinico alla George Washington University – è nata e vive a Gerusalemme Est. Autrice di Dietro i fronti e Sumud, editi da Sensibili alle foglie, ha scritto questo articolo nel marzo 2024, mettendo in connessione la scultura di Marco Cavallo a Trieste con Al-Hissan, Cavallo di Battaglia di Jenin, costruito nell’estate 2003 dalla collaborazione tra l’artista tedesco Thomas Klipper e i bambini di Jenin, con i rottami delle ambulanze e altri materiali recuperati tra le macerie. Questa scultura è stata distrutta dall’esercito israeliano a fine ottobre 2023 nella Cisgiordania occupata. A Jenin nel 2002 ebbe luogo un massacro di civili palestinesi1.
Nelle storie di resilienza e resistenza sono emersi molti simboli degni di nota. Per quanto mi riguarda, due di essi sono stati delle statue di cavalli – una scultura chiamata Marco Cavallo e l’altra nota come Al-Hissan, il Cavallo di Battaglia di Jenin. Le loro storie intrecciano insieme i fili dell’arte, del simbolismo e un intricato mix di fattori sociali e politici che modellano la salute mentale. Le storie di queste due sculture offrono una visione profonda dell’universale necessità umana di esprimersi e delle sfide uniche affrontate dalle persone che vivono sotto oppressione.
Immaginatevi tra le mura del manicomio San Giovanni di Trieste, dove si erge la scultura chiamata Marco Cavallo, un faro di speranza nel cuore dell’avversità. Costruito nel 1973 grazie alla collaborazione di pazienti, artisti e staff, questo maestoso cavallo blu simboleggia il viaggio trasformativo della de-istituzionalizzazione che ha attraversato i servizi psichiatrici italiani. Sotto la guida del visionario Franco Basaglia, il direttore del manicomio, la statua Marco Cavallo è diventata più di una semplice scultura; è diventata una testimonianza del potere terapeutico dell’arte e della comunità nell’ambito della salute mentale. Intitolata al suo predecessore equino, Marco il cavallo, questa scultura incarna il desiderio di libertà e dignità all’interno dei confini del manicomio, segnando profondamente la svolta verso la ri-connessione degli internati con il mondo esterno.
Ora spostate il vostro sguardo sulle strade martoriate di Jenin, dove la comunità palestinese ha assistito alla nascita di un altro simbolo: il Cavallo di Battaglia di Jenin. Ergendosi tra i detriti del conflitto, questa scultura alta sedici piedi (circa cinque metri), ricavata dai resti metallici delle ambulanze distrutte, è diventata un faro di resilienza e sfida. Progettato dall’artista tedesco Thomas Klipper, in collaborazione con i bambini di Jenin – bambini che hanno vissuto gli orrori del massacro del 2002 –, Al-Hissan incarnava la capacità dello spirito umano di superare la tragedia. Eppure, in una crudele torsione del destino, l’esercito israeliano ha preso di mira questo cavallo simbolico, cercando di cancellare non solo la sua presenza fisica, ma anche la memoria della forza e dell’identità palestinesi che quest’opera d’arte rappresentava. La statua è stata distrutta.
I destini contrastanti di Marco Cavallo e Al-Hissan ci consentono di vedere le lotte affrontate dai palestinesi alle prese con la perdita e l’oppressione. Mentre Marco Cavallo simboleggia la liberazione all’interno delle mura del manicomio, la distruzione di Al-Hissan riflette la battaglia in corso contro la violenza dei coloni e il tentativo israeliano di cancellare la storia e l’identità palestinesi.
I simboli hanno una profonda importanza psicologica, soprattutto di fronte alle avversità. Essi diventano contenitori di narrazioni soppresse e affermazioni di identità, agendo come potenti forme di resistenza contro la cancellazione. In Palestina, dove i fattori politici influenzano pesantemente la salute mentale, l’arte e il simbolismo emergono come risorse vitali per l’espressione e la guarigione, sollecitando interventi culturalmente sensibili e contestualmente rilevanti.
Da una prospettiva umana, sia Marco Cavallo sia Al-Hissan sono veicoli per l’innata necessità umana di simbolismo e memoria collettiva nei momenti traumatici. Mentre Marco Cavallo rappresenta il progresso e l’emancipazione nel campo della salute mentale, la distruzione di Al-Hissan riflette il perdurante trauma sopportato dalle comunità palestinesi.
Tuttavia, un simbolo non può essere distrutto. Le storie di Marco Cavallo e del Cavallo di Battaglia di Jenin offrono nuove e approfondite consapevolezze sulla resilienza dello spirito umano e sulla potenza della memoria collettiva. Esse ci ricordano il ruolo fondamentale che i simboli svolgono nella salute mentale e mettono in evidenza l’urgenza di offrire un supporto completo alle comunità colpite da conflitti e oppressioni. Riflettendo sulle loro storie, ci torna in mente il perdurante significato dei simboli nella lotta per la libertà e la giustizia, e il profondo impatto che essi hanno sulle comunità oppresse in tutto il mondo. (samah jabr / traduzione di sensibili alle foglie)
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1 Da Bambini in Palestina: “Il 3 aprile 2002, centinaia di soldati dell’esercito israeliano, con circa 450 carri armati e decine di elicotteri da guerra Apache, iniziano un’operazione militare nel campo profughi di Jenin. Il campo, allestito come tendopoli di emergenza nel 1953, occupa oggi circa dieci chilometri quadrati e ospita circa tredicimila persone, di cui almeno cinquemila bambini sotto i sedici anni, secondo i registri dell’Unrwa. I palestinesi resistono a questa occupazione e inizia un combattimento tra le parti che, nonostante l’evidente sproporzione di forze, andrà avanti per circa una settimana. In questo periodo, e per undici giorni consecutivi, a nessuno è permesso entrare o avvicinarsi a Jenin: non ai giornalisti, né israeliani né stranieri, non alle ambulanze e al personale di soccorso, non ai convogli umanitari che cercavano di rifornire di cibo, acqua e medicamenti la popolazione assediata e bombardata. I soldati hanno sistematicamente impedito il soccorso medico ai civili feriti e hanno, a più riprese, sparato contro ambulanze della Croce Rossa e in un caso ucciso un’infermiera in uniforme, Farwa Jammal, di ventisette anni. Il 7 aprile, Jamal Fayid, trentasette anni, paralizzato, è stato schiacciato in casa sua dai bulldozer, dopo che i soldati avevano negato ai suoi familiari il tempo necessario per consentirgli di uscire, prima di distruggere la casa. Il 10 aprile Kamal Zghair, un handicappato su sedia a rotelle, è uscito sulla strada principale di Jenin con una bandiera bianca ed è stato prima ucciso dai soldati israeliani e poi schiacciato dai tank dell’esercito. I corpi dei feriti e dei morti vengono lasciati per giorni sulle strade e anche quando l’esercito israeliano impone una tregua per recuperare i corpi dei ventidue soldati israeliani uccisi, non permette ai palestinesi di uscire dalle loro case. Saranno necessari mesi per accertare il numero dei morti che, secondo stime attendibili, sembrano essere sessantadue. Tutti i testimoni concordano sull’odore dei corpi in decomposizione in ogni angolo del campo, quando, il 17 aprile, hanno potuto entrare, sotto la sorveglianza armata dell’esercito. Allora il campo di Jenin si è presentato ai loro occhi come un unico ammasso di detriti, macerie, polvere, resti di oggetti casalinghi, spianato nei giorni precedenti dai bulldozer”.
27/3/2024 https://www.monitor-italia.it/
Immagine: archivio disegni monitor
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