Se 87 ore vi sembrano poche …
“Possiate ricordarvene domani mattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di conversare con questi uomini, nei loro confronti dei quali, riconoscetelo, non avete altra superiorità che la forza”. Queste parole, scritte da Antonin Artaud quasi un secolo fa, sembrano accompagnare le immagini del film di Costanza Quatriglio. Film dove si racconta non la vita ma gli ultimi quattro giorni, 87 ore per la precisione, di agonia, tortura, cristologica passione di un maestro anarchico: Francesco Mastrogiovanni. Il 31 luglio del 2009 viene sottoposto a un Trattamento Psichiatrico Obbligatorio (TSO) di dubbia motivazione, ma non è questo il punto. Il punto è il tipo di cura, obbligatoria, che riceve nel Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) dell’ospedale di Vallo della Lucania. Sono le immagini delle telecamere di sorveglianza a registrare i fatti.
A documentare come questa persona entra da uomo, un uomo altissimo, il maestro più alto del mondo lo chiamavano i suoi scolari, entra, nonostante il TSO, come un uomo tranquillo, saluta, stringe la mano degli infermieri, si alimenta, si fa siringare, infine si addormenta. E quando è orizzontale, in posizione clinica, ridotto a corpo, corpo che dorme, viene inopinatamente legato al letto. Inopinatamente perché, seppure si vuole sostenere che talvolta c’è un motivo per legare una persona (e io non lo sostengo), in questo caso le immagini non ce lo spiegano il motivo di questa contenzione al letto. Il film 87 ore ci racconta l’uccisione di Francesco Mastrogiovanni trasformato in homo sacer, in colui che, ci suggerisce Agamben, è una vita uccidibile, perché avendo trasgredito può essere prima escluso dalla società e dopo soppresso. Sotto questa luce i malati psichiatrici, come gli ebrei nei campi di concentramento, o gli immigrati clandestini, sono esseri umani ormai ai margini della società, già morti in vita, homines sacri uccidibili senza troppi scrupoli etici.
Trascorrerà quasi quattro giorni, 87 ore, a dibattersi tra le quattro fasce, questo altissimo Cristo nella sua croce a forma di letto. Scriveva Franco Basaglia, ne L’istituzione negata, che in manicomio ci entra un corpo, già indebolito dalla sua malattia. Però quando penetra in quel luogo dove “prima di uscire vengono controllate serrature e malati”, dove il corpo del malato diventa suppellettile al pari di una serratura o di una porta, ecco che il suo corpo smette di essere soggetto (corpo che sono, leib, per usare le parole di Husserl) e diviene oggetto (körper, corpo che ho). E inizia così, spogliato, disumanizzato, la sua carriera morale di malato mentale. Ma ciò che questo film di Quatriglio, inesorabile, ai limiti dell’inguardabile, ci racconta, attraverso i cinque capitoli a dir poco provocatori e surreali in cui è suddiviso (accettazione, osservazione, mantenimento, visita, dimissioni) è che il manicomio (o i suoi succedanei, come queste piccole istituzioni della violenza che molti reparti psichiatrici ospedalieri d’Italia sono diventati) disumanizza non solo i malati ma, seppure in modo diverso, anche il corpo curante.
L’infermiere che nel film dice che non aveva bisogno di andare nella stanza di Mastrogiovanni, perché lo controllava bene dai monitor delle telecamere, è un essere umano che, almeno quando vive in quel reparto, si è disumanizzato, fatto macchina pure lui, diventato oggetto, suppellettile, chiave, serratura, videocamera egli stesso. Oppure il medico che, a Grazia Serra, la nipote del maestro, che vuole visitarlo, risponde: non c’è bisogno, perché ora è sereno (sereno!) e deve starsene tranquillo per altri dieci giorni a fare questa terapia (questa terapia!), ebbene, costui è quanto di più lontano ci possa essere non solo da un medico etico, ma perfino da un umano decente. Per questo, a tratti, 87 ore sembra essere non un documentario ma un film dell’orrore, attraversato da tanti robot, zombie, sia i poveri malati annichiliti dai farmaci (sono tutti allettati i malati di questo reparto spettrale, chi legato dalle fasce chi legato dai farmaci, e l’unico che, nei primi minuti di ricovero deambulava, era proprio Mastrogiovanni, troppo vitale dunque, e subito ridotto anch’egli a una dimensione di orizzontalità cadaverica), sia i curanti (curanti!) che si aggirano, con movimenti meccanici, in questo labirinto kafkiano, in questa fortezza chiusa, inespugnabile, che è il SPDC. “Ho pensato, signor giudice, di liberarlo, se dipendeva da me l’avrei fatto”, così si giustifica un infermiere.
E sembra di sentire di nuovo Adolf Eichmann nel processo di Gerusalemme che si difende, che si giustifica: eravamo in guerra, avevo degli ordini superiori, non dipendeva da me. Eccolo qui, ancora vivo, quel male non eccezionale ma banale, perfino normale, di chi uccide un uomo e nemmeno si rende conto della sua responsabilità. Allora che fare? Mezzo secolo fa Franco Basaglia scrisse: “la distruzione del manicomio è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio”. Bene. Il manicomio è stato distrutto, distrutto per legge (la 180 del 1978), ma il suo fascino discreto è sopravvissuto, soprattutto attraverso la consuetudine di legare le persone nei luoghi di cura. Questo film spazza via ogni dubbio: la contenzione meccanica è una pratica indegna, e va abolita. Dunque, oggi: la distruzione delle fasce è un fatto urgentemente necessario, se non semplicemente ovvio.
Piero Cipriano
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