Se il Ttip espelle i popoli.
Se l’Accordo di Partenariato Transantlatico (Ttip) dovesse andare in porto, quel giorno i popoli europei avranno avuto il loro cartellino rosso. Espulsi dall’“amico americano” da un campo di gioco che un tempo era territorio e spazio presidiato dagli Stati sovrani europei.
Con il Ttip viene, infatti, messa in mora quella forma di Stato della quale ancora, sempre più stancamente, vantiamo nelle nostre aule di Giurisprudenza le “magnifiche e progressive sorti”. Per gli “apostoli del libero scambio” lo Stato sicurezza, lo Stato di diritto, lo Stato socialecostituiscono residui di un “ancien regime” che “illegittimamente” ostacolano la “benefica” concorrenza tra le nazioni, la crescita mondiale, la diffusione del benessere.
I fautori del Ttip vogliono “liberarci”. Abbattere le barriere normative al commercio tra Stati Uniti ed Unione Europea (le differenze nei regolamenti tecnici, nelle norme e nelle procedure di omologazione), aprire entrambi i mercati dei servizi, degli investimenti, degli appalti pubblici.
Sostanzialmente una totale liberalizzazione del commercio transatlantico. Un mercato comuneche procurerà vantaggi all’industria automobilistica delle due sponde dell’Atlantico, a quella chimica e farmaceutica del Regno Unito; e che, di converso, penalizzerà l’agro-alimentare dei paesi mediterranei. Ma che – ci assicurano – procurerà vantaggi diffusi e mirabolanti benefici “sistemici”.
Sulla base di controverse ed incerte proiezioni, di una messianica fiducia globalista, si trattano gli ordinamenti di Stati ancora formalmente sovrani come “prodotti” da mettere in concorrenza per espungere i meno idonei a soddisfare le attese degli investitori. Capovolgendo l’idea tra i comuni mortali, che gli ordinamenti giuridici rappresentano il quadro entro il quale si svolge la competizione economica e non uno degli oggetti di essa.
Darwinismo normativo che privilegia i rapporti materiali di forza sui rapporti giuridici. Capitalismo anarchico che distrugge gli stessi fondamenti istituzionali dell’economia di mercato.
L’ennesimo licenziamento senza giusta causa. Questa volta il bersaglio è lo Stato europeo. LoStato sicurezza, in primo luogo.
La rimozione delle barriere normative compromette, infatti, consolidate garanzie a tutela dei lavoratori, dei consumatori, della salute, dell’ambiente. Controlli, etichettature, certificazioni potrebbero essere considerate “barriere indirette” al libero scambio in settori cruciali quali la chimica-farmaceutica, la sanità, l’auto, l’istruzione, l’agricoltura, i beni comuni, gli strumenti finanziari: è tipicamente il caso degli organismi geneticamente modificati, la cui introduzione massiva nell’agricoltura europea è stata finora rallentata da una serie di regole ispirate all’europeo “principio di precauzione”.
Ma “cartellino rosso” degli “apostoli del libero scambio” non risparmia nemmeno i principi dello Stato di diritto. Il Ttip rende, infatti, possibile citare in giudizio l’Unione e gli Stati nazionali, vanificando la prerogativa pubblica di esercitare il potere giudiziario sul proprio territorio. Le controversie commerciali verrebbero affidate a speciali corti extraterritoriali. Le multinazionali sarebbero autorizzate a trascinare in giudizio governi, aziende, servizi pubblici ritenuti non competitivi, a esigere compensazioni per i mancati guadagni dovuti a regimi del lavoro considerati troppo vincolanti, a leggi ambientali giudicate troppo severe.
Cartellino rosso, infine, anche per lo Stato sociale. Il mercato comune Europa-Usa danneggerà interi settori del sistema produttivo europeo. Questi per “sopravvivere” si appelleranno, in nome del superiore interesse a non deindustrializzare il Vecchio Continente, all’inderogabile esigenza di ulteriori tagli alla tassazione. E, quindi, alla spesa pubblica, alle politiche di welfare.
Un accordo, insomma, colmo di agguati che rischia di spazzare il buono che c’è nell’ acquis communitaire. Sono, insomma, in discussione disciplina e diritti che costituiscono un elemento identificativo dell’european way of life.
Sorprende il silenzio complice delle classi dirigenti dei paesi mediterranei rispetto all’Accordo di Partenariato Transatlantico, aderendo al quale il programma di liberalizzazioni subirebbe un’escalation destinata a cancellare ogni traccia di autonomia politica, economica, culturale dell’Europa.
Barbara Spinelli ha proposto una rappresentazione spietata di questo silenzio. “Re dormienti” che hanno dimenticato cosa siano una corona e uno scettro, ignari dei costi che il mercato comune Europa-Usa comporta per i paesi dell’Unione, in particolare per quelli mediterranei.
Io penso che il silenzio complice copra una scelta consapevole, frutto del consenso trasversale tra elite denazionalizzate, ciniche, senza radici. La maggioranza dell’establishment europeo pensa ciò che la quasi totalità dell’establishment statunitense dice ad alta voce: che è la Cina il convitato di pietra del Ttip, l’ultimo volano per rallentare il declassamento dei mercati euro-atlantici da una posizione di preminenza ad una di semplice predominanza.
A questo obiettivo geoeconomico – in larga misura ideologico – le classi dirigenti dell’Unione sacrificano la crescita armoniosa ed equilibrata delle loro nazioni. C’è solo un nome per definire questa scelta scellerata: secessione. Secessione dei poteri costituiti dai poteri costituenti, delle elite sovranazionali dai loro popoli.
Questo è il movimento fondamentale dei nostri tempi, come dimostra l’ascesa dei diversi populismi. Non basta per contrastare questa scellerata secessione l’appello ai buoni sentimenti. Qualche presidio, un po’ di movimentismo. Serve qualcosa che assomigli a quei contro movimenti sui quali, a suo tempo, si arrovellarono Marx, Polany, Gramsci. Podemos? Io penso di sì.
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