Se trentasei mesi sembrano pochi
Sono sicuro che, se fosse concesso, dal “Monumentale” di Milano si leverebbe, spesso, un grido angoscioso!
Anna Kuliscioff (pseudonimo di Anna Moiseevna Rozenstejn), la rivoluzionaria russa naturalizzata italiana – tra i fondatori, nel 1982, del Partito dei Lavoratori Italiani (successivamente Partito Socialista dei Lavoratori Italiani e, dal 1895, Partito Socialista Italiano) – non potrebbe fare altrimenti nel verificare quale sorte è, di norma riservata, attraverso gli articoli pubblicati sul sito della Fondazione a lei dedicata, ai lavoratori.
Naturalmente, il vero e proprio tsunami che ha sconvolto, nel breve volgere degli ultimi 17/18 anni, tutto quanto realizzato in Italia grazie al forte contributo delle forze socialiste – dalla legge per la tutela del lavoro minorile e femminile[1] allo Statuto dei Lavoratori[2] – renderebbe, oggi, per lo meno, avventuristici e fuori luogo, toni rivoluzionari e intenzioni bellicose, nel senso di una più o meno prossimo cambio del “senso di marcia”.
Ciò nonostante, personalmente, considero ancora legittimo pretendere che gli studiosi, gli “esperti” e, ovviamente, anche i c.d. “addetti ai lavori”, esprimano le proprie posizioni in ossequio all’onesta intellettuale richiesta a tutti coloro che trattino materie di rilevante importanza sociale; senza assumere posizioni “di parte” e, soprattutto, “a prescindere”.
In questo senso, nel leggere alcune news, nella rubrica della Fondazione dedicata al Mercato del lavoro, non mi pare si siano fatti molti sforzi per evitare di assumere posizioni che riflettono e sostengono, in sostanza, esclusivamente le ragioni dei datori di lavoro!
Alludo, in particolare, ad almeno un paio di (recenti) articoli sui contratti a termine.
Partendo da un’ipotesi minimale di riforma – tutto sommato, quasi marginale – cioè la riduzione di un terzo della durata massima dei rapporti di lavoro a tempo determinato (portandola da 36 a 24 mesi), si coglieva, in sostanza, l’occasione per cercare di sviare l’attenzione dalla loro natura di lavoro precari e, soprattutto, dalle loro peculiarità; esclusivamente italiane.
A questo riguardo, quando si richiamano altri paesi dell’UE, sarebbe cosa buona e corretta estendere il campo del confronto, piuttosto che limitarlo a qualche dato specifico. Infatti, non è sufficiente, né corretto – ma esclusivamente strumentale – confrontare il numero complessivo e le relative percentuali dei contratti a termine tra l’Italia e, per esempio, la Germania, piuttosto che l’Olanda, se (poi) si evita, accuratamente, di indicare le profonde differenze normative che caratterizzano la stessa tipologia contrattuale.
Tra l’altro, è altrettanto scorretto quell’esercizio che consiste nel riportare dati statistici (pur) corrispondenti alla realtà ma che andrebbero, necessariamente, approfonditi al fine di capirne il significato concreto.
Mi spiego: rilevare che, nel corso del 2015, il 36,9 per cento dei contratti a termine aveva durata iniziale pari o inferiore a un mese; il 24,7% da 1 a 3 mesi; il 20% da 3 a 6 mesi; il 16,7 % da 6 a 12 mesi e l’1,7 % superiore a 12 mesi e, quindi, trarne la conseguenza che consentire o meno le proroghe – eventualmente, anche riducendone la durata – “non servirebbe a cambiare la situazione”, è utile solo per distogliere l’attenzione dai tanti aspetti negativi della legge. Senza nulla togliere al fatto che il rapporto di lavoro a tempo determinato, così come oggi regolamentato in Italia, è la rappresentazione classica del più avanzato e dolente stato di “precarietà”.
Tra l’altro, visto che, praticamente – come sostenuto nel breve articolo – nessun contratto raggiunge la fatidica soglia dei 36 mesi; perché non cominciare con il ridurre (almeno) il limite massimo di utilizzo a 24 mesi?
Per lo stesso motivo, perché non cancellare la possibilità di stipulare un ulteriore contratto – tra gli stessi soggetti, previo accordo presso la Direzione territoriale del lavoro – della durata di altri 12 mesi, una volta trascorsi gli attuali 36?
Qual è il problema?
L’autore dell’articolo arriva a scomodare Ivan Pavlov – lo scienziato che approfondì lo studio della relazione fra stimoli ambientali e risposte comportamentali – per minimizzare e ridicolizzare quasi, la richiesta di parte sindacale e politica di riduzione del limite massimo di mesi.
Più modestamente, invece, senza bisogno di fare riferimento ad alcuna sindrome o psicosi collettiva, è il caso di evidenziare che, in sostanza, si vuole continuare a garantire (esclusivamente) il massimo possibile di flessibilità al datore di lavoro; anche quando si riconosce che non se ne ravvisa alcuna esigenza pratica.
In effetti, di là dalle elucubrazioni cui si dedicano gli esperti “di turno” – cui, almeno in alcuni casi, andrebbe ricordato che preferire l’ignavia alla denuncia della realtà conduce, inevitabilmente, alla perdizione eterna – la normativa vigente in Italia, relativamente al tempo determinato, non ha equivalenti in tutta l’UE.
Di conseguenza, quando, si richiamano altri paesi per evidenziare che l’occupazione a termine in Italia – in termini percentuali rispetto al totale degli occupati – è ancora molto più bassa, sarebbe opportuno mostrare l’onestà intellettuale sufficiente per evidenziare che, in Germania[3] ad esempio: “E’ ammesso il termine di un contratto di lavoro, se esso è giustificato attraverso una ragione concreta”.
Così come, in Olanda[4], invece, chi abbia lavorato per lo stesso datore di lavoro per due anni con contratti a tempo determinato ha diritto al contratto permanente se il rapporto di lavoro continua. Precedentemente, questo avveniva dopo tre anni.
La realtà è che, in Italia, la logica che ha dettato le scelte politico/sociali degli ultimi 17/18 anni ha operato esclusivamente in termini di contro/riforme; con l’obiettivo prioritario di ridurre i diritti e le tutele a garanzia dei lavoratori.
Ciò ha prodotto, in concreto, la cancellazione del 1° dei tre punti dell’Accordo Quadro dell’UE sui contratti a tempo determinato; quello che prevedeva l’indicazione delle “Ragioni obiettive mediante le quali il rinnovo dei contratti a tempo determinato può essere giustificato”. Non solo questo: la normativa previgente nel nostro Paese prevedeva che anche per la prima stipula fossero indicate le motivazioni oggettive del ricorso a rapporti di lavoro a tempo determinato.
Non è un caso, infatti, che la Corte di Giustizia dell’UE giudichi[5] che “i contratti non possono essere rinnovati per compiti permanenti che appartengono alla normale attività del servizio ospedaliero ordinario”.
È appena il caso di sottolineare che a nulla valgono eventuali “distinguo” per il fatto che la sentenza sia relativa al caso di un rapporto di lavoro pubblico. Al riguardo, l’incipit della Corte non lascia alcun dubbio di merito. Infatti, così recita:” Con la sua odierna sentenza la Corte stabilisce che il diritto dell’Unione osta ad una normativa nazionale che permette il rinnovo di contratti a tempo determinato per far fronte ad esigenze provvisorie in quanto a personale mentre, in realtà, tali esigenze sono permanenti “.
Resta dunque alto il rischio che, nel suo complesso, la normativa italiana, in tema di rapporti di lavoro a tempo determinato, sia da considerare non perfettamente in linea con gli indirizzi della Corte di Giustizia dell’UE. Certamente non è coerente a una logica volta ad evitare che un lavoratore, in virtù di un dettato legislativo sin troppo permissivo – in ossequio a interessi padronali “di parte” – resti prigioniero in una condizione di sostanziale ed irreversibile precarietà lavorativa e, quindi, esistenziale!
[1] Testo elaborato da Anna Kuliscioff, approvato come legge Carcano del 19/6/1902
[2] Legge 20/05/1970 nr. 300, della quale è considerato “padre politico” l’allora ministro del Lavoro Giacomo Brodolini
[3] Fonte: LUISS, “Il contratto a tempo determinato. Italia e Germania a confronto”,
[4] “Paesi Bassi Guida: Contratti di impiego e legislazione sul lavoro”.
[5] Sentenza del 14 settembre 2016
Renato Fioretti
Esperto Diritti del Lavoro
Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute
15/2/2018
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