Sharing e gig economy: più flessibili, non più contenti
“Da molto, troppo tempo, il mondo del lavoro è sotto attacco. Un attacco tanto efferato che è divenuto impossibile considerare il lavoro la strada attraverso cui poter ancora garantire progresso collettivo, autodeterminazione e indipendenza personale.”
Questo l’incipit con quale si apre il documento conclusivo del Convegno organizzato da Laboratorio (Lecce 1 e il 2 luglio) e contenuto nel libro “ritrovare il Lavoro” che raccoglie tutti i materiali dell’evento in cui si è dato vita ad un confronto interdisciplinare tra sociologi, economisti, giuristi, esperti delle relazioni sindacali, associazioni, sindacato.
Il libro (scaricabile qui) contiene un’analisi approfondita sulla “crisi del lavoro” che partendo dalle condizioni storico-politiche in cui si è sviluppata l’ ”offensiva” al mondo del lavoro, ne analizza le basi teoriche (e le conseguenze macro da un punto di vista economico) le ricadute in termini legislativi (e dell’impatto sui diritti costituzionali), nelle relazioni sindacali e le conseguenze sociali.
Il lavoro, dunque, quale settore che “più d’altri, è stato oggetto diretto delle politiche di deregolamentazione di matrice neoliberista”, realizzate in Italia su richiesta delle aziende e delle istituzioni europee.
La crisi del 2007-2008, sebbene rappresenti l’evidente “corto circuito del modello neoliberista”, è stato il pretesto per sferrare il colpo finale che in Italia ha prodotto prima la riforma Fornero, poi il Jobs Act di Renzi. Quest’ultimo ha introdotto una dose massiccia di flessibilità in grado di rendere “l’azienda (non la legge, sempre meno il contratto collettivo e le parti sociali) il dominus del rapporto di lavoro in grado di determinarne le sorti in una relazione sempre più individuale impresa-lavoratore”; una precarizzazione del rapporto di lavoro tale da determinare un vero e proprio “effetto disciplina” del lavoratore nei confronti dell’azienda.
Sebbene le evidenze statistiche raccontino di un incredibile flop del Jobs Act – pagato con i soldi pubblici in favore di imprese private – esso ci consegna un dato sconfortante: con quest’ulteriore, ennesimo abbassamento delle condizioni lavorative “e del livello di protezione del lavoro del nostro ordinamento giuslavoristico, oggi tra i più bassi d’Europa, chi era già in una condizione di marginalizzazione sarà costretto ad abbandonare la speranza di una transizione positiva verso forme di lavoro più decenti, chi si trovava fuori dal mercato dovrà mettere in conto di restarci”. Il Jobs Act ha innescato dunque un’ulteriore “gara al ribasso” delle condizioni lavorative di cui i voucher e il “lavoro gratis” sono emblemi delle nuove forme di sfruttamento della forza-lavoro.
In questo scenario, il lavoro non è più uno strumento di “riscatto dalla povertà”: se è, infatti, vero che “l’esclusione sociale può avere inizio dalla mancanza del lavoro, tuttavia, la semplice situazione di occupazione non determina di per sé stessa una condizione di sicurezza sociale”.
Attraverso il lavoro è sempre più difficile anche definire un proprio profilo lavorativo-professionale e identificare una posizione nel mercato del lavoro: “prima di essere insegnanti, commessi, operai si è collaboratori, partite iva, intermittenti, voucheristi, precari, lavoratori in nero”.
Dal lavoro come diritto, al lavoro come traguardo, conquista; dal lavoro come elemento di partecipazione e di solidarietà, al lavoro frammentato, diviso; dal lavoro come spazio collettivo, al lavoro come chance individuale: “stiamo assistendo a quello che si potrebbe definire il più grande “genocidio dei diritti sociali” conquistati lungo più di un secolo di lotte (se si escludono gli anni del fascismo) quando è a tutti evidente la necessità di andare verso forme di universalismo dei diritti sociali e del lavoro”.
Dunque, è da qui che occorre ripartire, anzitutto svelando che se l’obiettivo dichiarato del neoliberismo era l’incremento di efficienza, innovazione, produttività e occupazione attraverso la deregolamentazione del lavoro e la liberalizzazione dei mercati di prodotti e servizi, allora occorre registrare un’evidente sconfitta delle ricette mainstream. Per questo è necessario ridefinire “un’azione che sia allo stesso tempo culturale e politica tesa alla ri-costituzionalizzazione del Lavoro.” Nella parte finale del libro, proponiamo una sorta di “manifesto per il lavoro e nuovi diritti sociali”, una scaletta di priorità, così sintetizzabile:
1) attivare, anzitutto, un impegno comune (dei partiti di ispirazione democratico-progressista, delle forze sindacali e culturali) a “riorganizzare” un pensiero attorno al lavoro: un’operazione culturale che sviluppi un rinnovato senso di solidarietà sociale e di consapevolezza che indipendentemente da come è il lavoro di ognuno di noi, siamo tutti al centro di un cambiamento che solo per il momento ha indebolito i nostri diritti e reso difficile il nostro futuro. Una riflessione che riporti il dibattito sul lavoro in una dimensione pubblica e comune e non nel chiuso delle aziende e nello spazio indefinito del mercato;
2) ritrovare un’azione collettiva che connetta al di là delle differenze nelle condizioni lavorative e nel mercato del lavoro, che intercetti dal basso, che recuperi un dibattito anche sulle pratiche di mutualismo sociale, che si occupi tanto della dimensione sociale nazionale, quanto di quella transazionale;
3) aprire i “vecchi recinti” del lavoro subordinato verso il mondo del lavoro autonomoquale spazio attraversato da nuove esigenze e richieste di diritti, luogo foriero di identità e lotte rispetto al quale occorre connettersi all’interno di un più generale conflitto sociale e del lavoro;
4) varare un piano straordinario di assunzioni pubbliche: le politiche restrittive e dei sacrifici hanno reso impossibile l’investimento in risorse umane per la pubblica amministrazione con un risvolto negativo anche sulle politiche attive (basti pensare che nei nostri Centri per l’Impiego lavorano circa 9 mila dipendenti contro i 49 mila della Francia e i 115 mila della Germania);
5) ridefinire i contorni della flessibilità: accompagnare la flessibilità delle imprese con l’azione pubblica (integrando politiche attive e passive, introducendo politiche industriali che premino le innovazioni, gli investimenti in ricerca e formazione), riportare la flessibilità entro i limiti della decenza e del necessario (nel rispetto dei diritti individuali e collettivi), declinare la flessibilità per i lavoratori (dentro il rapporto di lavoro);
6) ridurre l’orario di lavoro: non solo come mezzo per aumentare qualità della vita e benessere sui luoghi di lavoro, ma come strumento per affrontare i cambiamenti del lavoro e il pericolo di nuova disoccupazione tecnologica e, da ultimo, come via per favorire nuova occupazione;
7) eliminare la contrattazione di prossimità, ridare al sindacato il ruolo di attore macroeconomico, sviluppare un’azione politica che punti all’innalzamento dei salariali i cui bassi livelli sono stati causati dalle politiche deflattive che l’Europa ha imposto anche attraverso le relazioni sindacali, nonché dalla condizione generale di diffusa precarietà nel mercato del lavoro, le cui conseguenze macroeconomiche generano disuguaglianze e non assicurano un’esistenza “libera e dignitosa” al lavoratore/alla lavoratrice;
8) ribaltare la vecchia logica del welfare: il sostegno sociale non si ottiene solo se si perde il lavoro, al contrario, esso può essere lo strumento attraverso il quale creare occupazione, accesso al lavoro e ridurre le fratture sociali. All’interno di una rivisitazione complessiva del nostro sistema di Welfare (che oggi appare quanto mai inadeguato e inefficiente) occorre riconoscere forme universali e incondizionate di sostegno sociale senza rinunciare alla battaglia per avere maggiore e migliore occupazione. Istituire un reddito a tutti per dotare ognuno di uno strumento di partecipazione sociale e politica, di autodeterminazione rispetto le proprie scelte, autogoverno volontario anche nel mercato del lavoro.
Andrea Serra
11/10/2016 http://sbilanciamoci.info
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