Si chiama “autonomia differenziata”, ma è la rottura dell’unità del Paese
Che cosa succederebbe se, in virtù della riforma del Titolo V, le materie (tra cui sanità, sicurezza sul lavoro, beni culturali, infrastrutture, istruzione e ricerca, sicurezza sul lavoro) previste nel terzo comma dell’art. 117 della Costituzione, che attualmente sono di legislazione concorrente stato-regioni, passassero alla legislazione esclusiva regionale? Cosa accadrebbe, inoltre, se le materie previste dal terzo comma dell’articolo 116 (norme generali dell’istruzione, ambiente, giustizia di pace), attualmente di legislazione esclusivamente statale, divenissero anch’esse di competenza esclusivamente regionale? Accadrebbe precisamente ciò a cui – dal 28 febbraio 2018, quando Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna stipularono, a 4 giorni dalle elezioni, le pre-intese con il governo Gentiloni – quelle regioni stanno mirando.
Dietro il nome “autonomia differenziata” si nasconde né più né meno che la divisione del Paese: la rottura del patto repubblicano, un diverso accesso e una diversa esigibilità dei diritti universali garantiti a tutte/i le/i cittadine/i ugualmente e su tutto il territorio nazionale.
E’ il vecchio “vizio” delle classi dominanti: liquidare tutto ciò che è “pubblico”
L’autonomia differenziata liquida definitivamentetutto ciò che è “pubblico”,cioè finalizzato all’interesse generale, destinato a diminuire le differenze tra ricchi e poveri. Principi e diritti sociali previsti nella prima parte della Costituzione di fatto vengono annullati. Ogni Regione farebbe da sé, con i propri fondi, trattenendo la maggior parte del proprio gettito fiscale.
La stampa nazionale continua a tacere colpevolmente della questione, in un misterioso e trasversale (dal governo giallo-verde, passando per quello giallo-rosa, fino al governo Draghi) top secret su una vicenda che tocca ciascuno/a di noi. La Gelmini continua ad annunciare l’imminente presentazione di un testo di legge quadro in Parlamento, che darebbe avvio al perfezionamento delle pre-intese con le 3 regioni e all’accesso al processo di altre regioni candidate; contemporaneamente, il governo collega al Def, per il quarto anno consecutivo, il disegno di legge per la realizzazione dell’autonomia differenziata.
Zaia e Bonaccini siglano con una stretta di mano il “patto d’acciaio” per accelerare il processo che porterà le loro regioni ad ottenere l’agognata autonomia (su tutte e 23 materie il primo, su 16 il secondo, mentre Fontana, per la Lombardia, ne chiede 20).
Rinasce l’Italia delle “signorie” e l’ingiustizia diventa legge: ricchi da una parte e poveri dall’altra
Regioni diversamente fameliche porterebbero comunque alla declinazione di diritti esigibili su base territoriale, individuando in questo modo cittadinanze a marce diverse: di serie A, B e persino Z, considerando che quasi tutte le regioni italiane (persino molte di quelle del Sud!) hanno cominciato a muovere i primi passi verso l’autonomia differenziata: potenzialmente 20 signorie più o meno potenti, con le proprie scuola e università, sanità, gestione del territorio, infrastrutture, sicurezza sul lavoro ecc.
Tutto ciò e molto altro accade in un Paese – il nostro – che, quando c’è recessione, ha recessioni più profonde di tutti i paesi europei; e che, quando c’è ripresa, cresce meno degli altri. Un Paese quasi tramortito sotto il fuoco di fila, nella successione, del crollo finanziario del 2008, della crisi europea dei debiti sovrani, dell’1-2 Covid/guerra: un aumento costante e implacabile di povertà, marginalità e diseguaglianze.
Il lavoro sporco si fa nell’ombra
La strategia dell’occultamento, del “non disturbate il grande manovratore” (alla quale purtroppo gli italiani si stanno assuefacendo) sta dando i propri frutti. Dell’autonomia regionale differenziata non sa infatti nulla quasi nessuno: non ne sanno i parenti delle vittime del Covid; né i parenti dei morti sul lavoro (l’Inail segnala, da gennaio a marzo, 189 decessi, in un costante progresso annuale del dato) e i lavoratori tutti, che vedrebbero – se l’autonomia differenziata passasse – una ulteriore restrizione di tutele e garanzie, nonché la regionalizzazione dei contratti, che decreterebbe la fine del contratto collettivo nazionale; non ne sa chi prende il caffè al bar, il laureato, il tranviere, il portuale, il ricercatore, il disoccupato, l’ambulante, il chirurgo, l’insegnante.
La scuola deculturalizzata: funzionale all’impresa e antidoto al conflitto sociale
Prendiamo ad esempio e solo marginalmente la scuola (un tema che richiederebbe – soprattutto oggi – ben altri spazi), ma il discorso riguarda qualsiasi settore, considerando la logica che ha orientato le politiche del lavoro negli ultimi 25 anni.Il ribaltamento della prospettiva si è già realizzato nel passaggio da una scuola di emancipazione e complessificazione del rapporto tra individuo, collettività e realtà, che faceva del pluralismo e della laicità il cuore pulsante di un progetto democratico di società, certamente perfettibile, ma animato da una dinamica positiva e non ancillare al mondo del lavoro, cui ha fornito – grazie a quelle caratteristiche – classi dirigenti, quadri, tecnici e artigiani consapevoli del valore del conflitto e della partecipazione. Oggi il modello di scuola è piegato, prono alle modalità e alle caratteristiche che l’economia ha imposto al mondo del lavoro: flessibile, precario, deculturalizzato, basato non più sulla conoscenza, ma su competenze trasversali ed elementari; un modello individualistico e individualizzato, perché parcellizzazione e separazione sono l’antidoto alla tentazione del conflitto stesso. Cosa accadrà quando il sistema di istruzione sarà gestito direttamente ed esclusivamente dalle regioni?
Un “requiem” per il Sud
L’autonomia differenziata, quindi, è già tra noi: nel Paese in cui ci si ammala di cancro più al Nord, ma si muore più al Sud; in cui la regione Lombardia ha privatizzato oltre il 40% della sanità e – nonostante sia stata, in una certa fase del primo lock down, la zona del mondo con il più alto tasso di mortalità nel rapporto tra estensione territoriale ed abitante – chiede voracemente ulteriore autonomia; nel paese della Tav e, contemporaneamente, della linea unica Corato-Andria, con il suo carico di vittime pendolari nel 2016. Il paese in cui, secondo gli ultimi dati Istat, nel 2020 i cittadini e le cittadine dai 15 anni in su con un titolo di scuola primaria o senza nessun titolo di studio erano il 13,95% al Nord, il 14% al centro, il 19,39% al Sud; i diplomati il 38% al centro e al Nord, il 33% al Sud; i laureati il 15% al Nord, il 18% al centro e il 12% al Sud; in cui, su un 13% di casi di abbandono tra i 18 e i 24 anni sul territorio nazionale, l’11% sta al Nord, l’11,5% al Centro, il 16,3% al Sud. Al cospetto di dati del genere, non è difficile immaginare come il processo dell’autonomia differenziata porteràsubito a sprofondare le Regioni del Sud, cui verrà negata la perequazione e che saranno colpite dalla clausola che l’operazione dovrà essere portata avanti “senza oneri aggiuntivi” per lo Stato. Vuol dire, cioè, che a costo 0 si abbatteranno uguaglianza, solidarietà, democrazia e l’unità stessa della Repubblica. Ma saranno colpiti anche i cittadini del Nord, innescando una competizione tra territorio e territorio, anche all’interno della stessa regione. Il contratto collettivo nazionale non sarà più esclusivo e verrà affiancato da quello regionale, si diceva. Un atto di separazione gravissimo tra lavoratori, che – oltre che contrattualizzare di fatto l’iniquità e la disomogeneità di trattamento e a riportare all’attualità lo spettro delle gabbie salariali – porterà ad alimentare divisioni tra lavoratori e lavoratrici, depotenziando ulteriormente la capacità conflittuale.
Federalismo fiscale e “autonomia differenziata”: apologia della disuguaglianza
Ancora: è di qualche tempo fa l’audizione della Corte dei Conti presso la Commissione parlamentare per l’attuazione del Federalismo Fiscale. Tra Nord e Sud molte differenze nella spesa pro capite: al Nord si spendono in media 100 euro in più a cittadino rispetto al Sud. E per la Corte gli indici di valutazione dei LEA (Livelli Essenziali di Assistenza, nella sanità), secondo la vecchia e la nuova disciplina, sono una testimonianza delle differenze tra i sistemi sanitari regionali. Dinanzi a questi dati, che parlano più di qualsiasi dichiarazione dei sedicenti, aggressivissimi e famelici “governatori” la stessa Corte dei Conti[i] si è pronunciata sulla “Gestione delle risorse 2013-18 correlate alla realizzazione dell’autonomia differenziata, con particolare riguardo alle politiche del lavoro, dell’istruzione e della formazione”, rilevando che non si dispone ancora “di un quadro di insieme su quelli che potranno essere gli effetti (finanziari e non) del regionalismo differenziato; né, allo stato attuale, le informazioni pervenute consentono di dimostrare che il trasferimento delle competenze dallo Stato alle regioni a statuto ordinario possa migliorare l’efficienza degli interventi o, di converso, che la stessa possa essere destinata a ridursi”. Di cosa stiamo parlando, allora?
I giochi, però, non sono fatti
Qualcosa, però, si sta muovendo, grazie anche ai 3 anni di lotta contro questo processo eversivo, svolta dai Comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata e da quanti hanno compreso la funzione devastante di questo processo. Alcune importanti prese di posizione, innanzitutto. A partire dalla relazione finale al congresso Anpi del presidente Pagliarulo[ii] che – con parole molto chiare – ha segnalato l’avversione dell’Associazione Nazionale Partigiani nei confronti dell’autonomia differenziata. Il maggior sindacato dei dirigenti sanitari ha poi dichiarato che l’autonomia differenziata uccide il servizio sanitario[iii]. Forze sindacali di base (Cobas, USB, SGB) e la Flc-Cgil, insieme a partiti o movimenti politici (PRC, PCI, Dema, Possibile, Sinistra Italiana) sono parte del Tavolo[iv] NO AD (che ospita molte importanti associazioni), costituitosi nello scorso ottobre, che – insieme ai Comitati Per il ritiro di ogni autonomia differenziata – pone al centro lo scopo di fermare il progetto. Il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, ha recentemente[v]rilasciato dichiarazioni in netto contrasto con quelle del presidente di regione ER, Bonaccini. E sarebbe il momento che i comuni, la cui autonomia è già enormemente condizionata dal ddl concorrenza, si rendessero finalmente conto di quanto anche il regionalismo differenziato rappresenti una potenziale insidia alla loro autonomia e al legittimo esercizio delle loro prerogative.
Anche in parlamento c’è vita
Infine, grazie al neonato gruppo Manifesta alla Camera (PRC e Potere al Popolo, con le deputate Suriano, Benedetti, Ehm, Sarli) e al senatore Gregorio De Falco al Senato (AS 2618, con i cofirmatari Fattori, Cataldo, Granato, Nugnes) sono state presentate due proposte di legge costituzionale, i cui testi prevedono la cancellazione del comma 3 dell’art 116 della Costituzione[vi], frutto della “riforma” del Titolo V del 2001.
La proposta di abrogare questo comma mira a disinnescare l’autonomia differenziata, una vera e propria mina per l’unità della Repubblica; essa rende impossibile alle regioni a statuto ordinario accedere a “forme ulteriori di autonomia”. L’unità della Repubblica, come configurata dall’articolo 5 della Costituzione, è la garanzia
dell’uguaglianza dei diritti dei cittadine e delle cittadine, ovunque siano nate/i e ovunque risiedano. Il regionalismo differenziato è un disegno di secessione delle Regioni forti che ritengono zavorra il resto del Paese e che, nello stesso tempo, mirano ad avere mano libera in determinati territori per portare a termine i processi di privatizzazione avviati in questi anni, di disarticolazione dei contratti nazionali, di rimessa in causa di tutte le conquiste sociali e democratiche.
Aborriamo questa logica devastante e riteniamo necessario utilizzare le risorse comuni, come quelle fiscali, per superare gli squilibri territoriali e per rendere effettiva l’uguaglianza dei diritti a prescindere dal luogo in cui si risiede.
L’iniziativa dei e delle parlamentari dà ulteriore concretezza all’obiettivo centrale delle mobilitazioni, avviate dai comitati da oltre 3 anni. Le proposte di legge mirano a dare attuazione ai principi di uguaglianza, solidarietà, dignità delle persone, secondo il dettato del 2 comma dell’art 3 della Costituzione. Solo l’unità della Repubblica può consentire la rimozione “degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori” alla vita del Paese.
Contro ogni logica di secessione, guidata da spirito proprietario ed egoistico, il Comitato per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti si impegna a organizzare una campagna di informazione di questa importantissima iniziativa parlamentare e invita i/le parlamentari di ogni schieramento politico a sottoscrivere le proposte di legge per abrogare il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione. Allo stesso modo, auspica che tutte le forze democratiche del Paese, che abbiano a cuore i principi fondamentali contenuti nei primi articoli della Carta, diano il proprio contributo per sventare una minaccia che – nonostante le fasi alterne – i nostri avversari non hanno cessato di evocare e che, se malauguratamente le previsioni relative alle prossime elezioni dovessero essere giuste, si avvierebbe ad una rapida concretizzazione.
[i] Deliberazione 29 marzo 2022, n.4/2022/G, p. 17
[ii] https://www.anpi.it/media/uploads/files/2022/03/Relazione_Pagliarulo.pdf, p. 7
[iii] https://www.anaao.it/content.php?cont=34061
[iv] https://www.fanpage.it/politica/il-tavolo-contro-lautonomia-differenziata-il-governo-usa-la-manovra-come-cavallo-di-troia/
[v] https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/03/11/autonomia-regionale-il-patto-di-zaia-e-bonaccini-fa-paura-per-fortuna-ce-chi-va-controcorrente/6517769/
[vi] https://www.senato.it/istituzione/la-costituzione/parte-ii/titolo-v/articolo-116
Marina Boscaino
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