Si fa presto a dire “bamboccioni”
Un articolo dell’Ansa del 9 novembre 2015 (http://www.ansa.it/sito/notizie/economia/2015/11/08/crisi-sei-giovani-su-10-vivono-con-genitori-top-in-ue_b59d5d86-54fe-4a60-b849-5f41432a0946.html) offre una descrizione statistica sulla situazione dei giovani adulti che, nell’Europa a 28, vivono ancora a casa dei genitori. L’Italia risulta al penultimo posto, solo prima della Croazia, per la presenza di giovani dai 18 ai 34 anni che vivono a casa con i propri genitori: 66% dei giovani adulti italiani contro una media di 48,4% di tutti i 28 paesi Ue. Lo scarto è di quasi venti punti percentuali. Il gap italiano aumenta se si confronta con paesi come la Svezia (3,7%), la Danimarca (3%), la Francia (11,2%).
Si sa, i numeri dicono ben poco se non si offre loro una lettura adeguata; possono aprire scenari catastrofici o stigmatizzanti che non descrivono la realtà dal punto di vista storico-sociale. La maggior parte dei discorsi sui giovani, comprese alcune letture sociologiche, dimenticano di ricostruire il contesto nel quale questo “ritardo giovanile” si è accumulato rispetto ai propri coetanei europei. Addirittura si parla di sindrome del ritardo che colpisce il mondo giovanile italiano, puntando lo sguardo sugli effetti più manifesti della questione, piuttosto che sulle molteplici cause.
L’Italia sconta, sin dalla seconda metà degli anni Settanta, un ritardo nelle politiche sui giovani che si è tradotto in difficoltà e impossibilità a realizzare quei percorsi di transizione alla vita adulta che, invece, hanno caratterizzato la vita della generazione dei baby boomers. Politiche per le famiglie, politiche per la casa, politiche per il lavoro, si tratta di una stagione dimenticata all’indomani della crisi petrolifera del ’73. Nei registri della politica comincia ad affacciarsi l’idea che la crescita non potrà più essere illimitata e cominciano a mettersi in campo politiche di conservazione rispetto al futuro, ad essere colpite sono soprattutto le nuove generazioni, quelle nate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta. Le tracce degli investimenti politici possono essere ritrovate negli studi del demografo americano Robert Preston, che già a partire dal 1984 ricostruisce un quadro della società americana in cui si disinveste in istruzione pubblica, prediligendo assistenza sanitaria e previdenziale. Preston, portando all’estremo i suoi studi, sostiene che vi è una precisa scelta politica di salvaguardia, per fini elettorali, di quella generazione che, a partire dal secondo dopoguerra, ha usufruito dei benefici di un welfare una semper. Una generazione nata e cresciuta con un welfare costruito a sua immagine e somiglianza.
Le sue tesi sono riprese dallo storico David Thomson che con il suo noto studio degli anni Novanta, Selfish generation, parla di “riscrittura del patto generazionale” e giungono ai nostri giorni con gli studi di Kotlikoff e Burns che addirittura discutono di youthanasia, cioè di un vero e proprio abuso economico e fiscale compiuto sulle nuove generazioni. Questi studi, in Italia, vengono ripresi dai contributi del sociologo Giovanni Battista Sgritta circa la possibilità di un ritorno sulla scena politica di un conflitto generazionale. Il sociologo romano, di adozione, sostiene che ormai in tutte le democrazie occidentali avanzate si assiste ad una progressiva diminuzione del peso dei giovani in tutti i campi del potere, questo potrebbe portare a uno scontro di tipo generazionale.
Aldilà della ricostruzione sociologica, sulle origini della questione, quello che qui conta evidenziare è che le politiche, almeno in Italia, si sono misurate con un welfare tradizionale che ha scaricato sulla famiglia ogni onere di cura e mantenimento dei figli. Oltre ad uno sconsiderato aumento delle disuguaglianze intragenerazionali, questa deresponsabilizzazione pubblica ha creato anche uno iato tra le generazioni che non sarà facile risolvere senza interventi strutturali.
Se da un lato la famiglia sostiene, dall’altro strozza, con enormi conseguenze sociali. In primo luogo i destini dei giovani tendono sempre più a polarizzarsi: riesce a transitare alla vita adulta solo chi ha in dotazione un capitale economico e sociale più solido. In secondo luogo si nega l’emersione sulla scena sociale di modelli culturali nuovi che, sicuramente, sono maggiormente adatti a cogliere, interpretare e traghettare questo passaggio d’epoca. Il depotenziamento delle giovani generazioni ha, dunque, costi individuali e collettivi molto elevati.
Nonostante in tutti i paesi occidentali a economia avanzata si stia registrando una progressiva esclusione dei giovani dalle funzioni e dai posti dei comando, è sicuramente in quelli caratterizzati da un welfare mediterraneo che si riscontra un maggiore ritardo nel perseguimento delle tappe che definiscono la vita adulta. Dove la famiglia viene lasciata sola come unico agente di welfare per le nuove generazioni, si sviluppano i maggiori slittamenti. A essere in ritardo, dunque, non sembrano essere i giovani italiani ma le politiche pubbliche, sempre più dimentiche del peso che le giovani generazioni hanno nell’interpretazione del cambiamento come momento di grande opportunità.
Sicuramente non basta lasciare poltrone vuote ai giovani, bisognerebbe cambiare i contesti in cui ci si trova ad operare: far entrare idee innovative, utilizzare logiche di condivisione, partecipazione e disintermediazione diffusa, sostenere i processi di transizione all’età adulta anche con politiche passive efficaci, come un reddito di cittadinanza. Si fa presto a dire bamboccioni, quando l’unica interpretazione che dei giovani viene fornita è quella che li esclude da qualsiasi possibilità di autonarrazione e autodefinizione della propria esistenza.
Marina Mastropierro
19/11/2015 www.sbilanciamoci.info
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!