Si muore prima, ci si cura peggio
Si muore di più. Ci si cura di meno. I motivi? Scarsa prevenzione, calo delle vaccinazioni, pochi screening oncologici e soprattutto diminuzione della spesa sanitaria. “Abbiamo avuto la più grande epidemia di mortalità della storia dall’Unità d’Italia: i 54 mila decessi in più nel 2015 rispetto all’anno precedente sono dovuti sicuramente alla popolazione vecchia, ma anche all’influenza e alle sue complicanze, e ai servizi che non riescono più a dare risposte ai cittadini. Ci sono parti del paese in cui i cittadini fanno fatica ad accedervi”.
La diagnosi del presidente dell’Istituto superiore di Sanità, Walter Ricciardi, orienta la lettura del fittissimo rapporto Osservasalute 2015 presentato ieri all’Università Cattolica di Roma. Davanti a quest’ammassarsi di tombe e di nuovi malati, bisognerebbe almeno avere la lucidità di comprendere che le minori risorse destinate al Sistema sanitario nazionale, e la conseguente incapacità di soddisfare i bisogni dei cittadini, non c’entrano nulla con l’ineluttabilità della morte ma fanno parte di una precisa strategia politica che risponde a una logica di profitto, e apre enormi spazi al settore sanitario privato.
Per la prima volta nella storia d’Italia sta calando l’aspettativa di vita degli italiani, un fenomeno che ha pochissimi precedenti nel mondo occidentale. Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è stata di 80,1 anni e per le donne di 84,7 (tre mesi in meno rispetto al 2014). E le differenze registrate nei territori sono scandalose. “Oggi i cittadini di Campania e Sicilia – spiega Ricciardi – hanno un’aspettativa di vita di quattro anni in meno rispetto a chi vive nelle Marche o in Trentino. Abbiamo perso in quindici anni i vantaggi acquisiti in quaranta. E se è vero che l’Italia ha uno dei migliori sistemi sanitari al mondo, questo vale solo per una minoranza di italiani”. Potrebbe andare diversamente? Difficile se l’Italia, come dice il rapporto, è il paese europeo che oggi spende meno per la prevenzione, e se la spesa sanitaria continuerà a diminuire come già accade dal 2010.
Le conseguenze e lo stato di salute degli italiani del resto sono state fotografate anche da un recente rapporto dell’Ocse secondo cui il 7,1% degli italiani (più di 4,2 milioni di persone) rinuncia a farsi curare perché il costo della prestazione è troppo alto, le liste d’attesa troppo lunghe oppure l’ospedale troppo lontano. Il dato raddoppia nel caso in cui gli intervistati appartengano al 20% della popolazione più povera. Inoltre, segnala l’Ocse, ticket cari e liste d’attesa, spingono molti italiani a farsi curare nel privato.
I numerosi elementi di criticità sottolineati da Walter Ricciardi sono piuttosto sconfortanti. La spesa sanitaria pubblica è passata dai 112,5 miliardi di euro del 2010 ai 110,5 del 2014, una contrazione che è servita a contenere i deficit regionali ma ha coinciso con il blocco o la riduzione del personale sanitario (e dei consumi). Il dato di 1.817 euro di spesa sanitaria pro capite dice che l’Italia è tra i paesi he spendono meno. Nell’ultimo anno, per esempio, il Canada ha speso il doppio, la Germania il 68% in più e la Finlandia il 35%. Sembra che ci sia poco altro da spolpare. Nel 2014 la dotazione di posti letto negli ospedali era di 3,04 per 1000 abitanti per la componente “acuti” e di 0,58 per 1000 per post-acuzie, lungodegenze e riabilitazioni: sono valori già inferiori agli standard normativi. Anche la spesa per il personale, in rapporto alla popolazione, è diminuita del 4,4% nel triennio 2010-2013. “Il fattore preoccupante – spiega Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni – è che i tagli di personale operati nel corso degli ultimi anni potrebbero produrre degli effetti sull’erogazione e sulla qualità dell’assistenza, e in maniera differenziata nelle diverse aree del paese” (nel 2013 sono state assunte 85,6 persone ogni 100 pensionati).
La scarsità dell’investimento nella prevenzione provoca morti: l’Italia destina solo il 4,1% della spesa sanitaria totale all’attività di prevenzione, una quota che ci colloca tra gli ultimi trenta dell’area Ocse. Risultato: è in aumento l’incidenza di alcune patologie tumorali prevenibili. “Siamo il fanalino di coda nella prevenzione nel mondo, e questo ha un peso”. Un altro capitolo con risvolti anche drammatici riguarda le vaccinazioni, in particolare l’antinfluenzale per gli over 65: dal 2003 al 2015 la copertura è passata dal 63,4 al 49%, un calo preoccupante che allontana l’Italia dal livello minimo del piano nazionale che indica una percentuale al 75%. Detto questo, il ministro della Salute Beatrice Lorenzin ha avuto una idea geniale: “Nel nostro paese dobbiamo tornare a investire nella prevenzione primaria e secondaria, la prevenzione è una cosa alla quale le Regioni, tutte, devono prestare il massimo dell’impegno e dell’attenzione”. Il ministro ha anche invitato gli italiani a seguire uno stile di vita corretto.
Gli italiani sono messi così così. I fumatori sono in calo: nel 2010 fumava il 22,8% della popolazione, nel 2013 il 20,9%. I consumi di alcol, invece, sono in leggera crescita. Con calma, stiamo diventando più sportivi: nel 2014 il 28% della popolazione ha dichiarato di svolgere un’attività di tipo amatoriale (passeggiate, corsa, bici, nuoto). I consumi alimentari non sono proprio da popolazione ben educata: nel periodo 2001-2014 la persone in sovrappeso sono passate dal 33,9 al 36,2% (più magri al nord, più in carne al sud). Ma è un altro tipo di consumo che meriterebbe di essere approfondito con dati non solo di natura statistica: gli antidepressivi in Italia sono sempre in aumento. Tecnicamente – ma il dato non può che essere sottostimato considerando che l’automedicazione è prassi – su 1000 abitanti si registrano 39,30 dosi di ansiolitici o antidepressivi. Sono in leggero aumento anche i suicidi (7,99 casi su 100 mila nel 2011-2012). Un’altra spia che dice che il sistema non funziona – non solo sanitario.
Luca Fazio
28/4(2016 www.ilmanifesto.info
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