Siccità: Le conseguenze sull’economia e sull’agricoltura
L’estate del 2022, in molte parti d’Italia, sarà senz’altro ricordata come quella della siccità e delle temperature tropicali.
E come l’estate più calda di sempre, come ha rilevato il Cnr, con la temperatura che è andata 2 gradi e 26 sopra la media.
Il cambiamento del clima, da argomento per studi scientifici diventa realtà quotidiana per molti territori con tutte le sue connessioni: fiumi ormai allo stremo, comuni che scelgono di razionare l’acqua, settori economici in ginocchio.
E, con lo scioglimento dei ghiacciai, tragedie come quella della Marmolada.
Tutto questo viene definito “emergenza” e solo ora in molti si rendono di come possa condizionare il nostro modello di sviluppo, la nostra economia, il nostro modo di vivere.
In realtà, però non si dovrebbe parlare di emergenza: proprio la ricerca, a molti livelli e in tutto il mondo, è da anni che ammonisce su questi fenomeni e ci ricorda che è proprio il nostro di sviluppo a dover cambiare.
Vertici su vertici, appuntamenti internazionali sempre descritti come decisivi o risolutivi non hanno però cambiato nulla: si è continuato a non decidere, a scegliere mediazioni al ribasso gridando al successo per misure di impatto assolutamente inconsistente rispetto ai problemi che abbiamo davanti come è successo a Glasgow nella Cop 26.
E a proposito di impatto dei cambiamenti climatici per il più importante fiume italiano, il Po, questa estate è stata un’estate davvero tragica.
Chi vive e lavora lungo il Po quest’anno ha scoperto che cos’è il fenomeno del cuneo salino, cioè l’ingresso dell’acqua del mare in quella del fiume, favorito dalla riduzione della portata dell’acqua e dal progressivo abbassamento dell’alveo.
“L’ingresso dell’acqua fa cambiare le caratteristiche della falda- spiega Meuccio Berselli, segretario dell’Autorità distrettuale del fiume Po- La falda di acqua dolce diventa salmastra e brucia le coltivazioni. Il danno per certe aree può essere irreversibile. E in più ci sono 750 mila utenze per l’uso civile con l’acqua pescata dal fiume, potabilizzata e distribuita dagli acquedotti” .
Il cuneo salino è risalito tra i 45 ed i 50 km, la portata del Po, a Pontelagoscuro , nel ferrarese, ha toccato , secondo i rilievi dell’Autorità di Bacino, il suo record negativo di sempre con 104 metri cubi al secondo.
I danni sono devastanti per tante categorie, dalla pesca all’agricoltura alla zootecnia, molte centrali idroelettriche hanno chiuso
Soia, grano, mais, pomodori, hanno registrato cali di produzione enormi: dal 30 al 40% , la frutta anche del 60/70% del raccolto, le risaie sono in allarme rosso soprattutto nella zona tra la Lombardia e il Piemonte dove parte dell’economia gira proprio intorno al riso.
Le stime delle associazioni di categoria parlano del 50% della produzione a rischio per il nord e di un calo del 10% su tutta la quota di P.i.l. prodotta dall’agricoltura.
E’ tutto un sistema, basato sull’altissimo sfruttamento delle risorse idriche che andrebbe ripensato alla luce del cambiamento climatico: dall’agricoltura all’allevamento, dalla produzione energetica all’industria.
L’acqua non è una risorsa infinita, tutt’altro: se pensavamo che un fenomeno come la siccità ci fosse estraneo o appartenesse ad altri continenti, questi durissimi mesi estivi ci hanno presentato il conto dimostrando che stiamo continuando a sbagliare.
Oltre a cambiare le logiche energivore della produzione agro industriale e degli allevamenti intensivi, la crisi idrica che stiamo vivendo ci insegna che l’acqua andrebbe gestita diversamente da come è stata gestita finora.
Ma di una gestione diversa, basata sulla cura e sulla conservazione delle nostre riserve idriche e di cambiare il nostro modello di sviluppo pare non ne vogliamo proprio sapere.
Un esempio di questo è la vicenda dello stabilimento della Coca Cola di Nogara, in provincia di Verona, che ha beneficiato, nonostante il periodo, dell’aumento della quantità di cubatura dell’acqua che ha in concessione: un aumento particolarmente generoso, il 37%, tra l’altro a fronte di costi di gestione risibili, 14 mila euro all’anno.
Se i comitati e movimenti ambientalisti e per la giustizia climatica hanno protestato- prendendosi anche qualche manganellata, tra l’altro- per la politica locale e regionale va bene lo stesso così, perché “l’azienda porta lavoro”.
Intanto però i segnali che la crisi climatica stia diventando irreversibile e che di tempo per correre ai ripari ne è rimasto davvero pochissimo, si moltiplicano: i ghiacciai delle Alpi ce li stiamo praticamente giocando.
Diversi studi ci dicono che: “ La carenza di risorse idriche che stiamo vivendo è causata dai cambiamenti climatici- sostiene ad esempio Antonello Parisi, fisico del clima e membro del Cnr- Questa condizione è irreversibile, non si torna indietro. Se non si mette un freno al riscaldamento globale si potrebbe andare incontro allo scenario peggiore: nel 2100 rimarrebbe soltanto un 5/10% dei ghiacciai che ci sono oggi”.
Un altro studioso- Giacomo Parrinello, ordinario di storia ambientale a Parigi- fornisce un inquadramento storico che dal passato arriva proprio a queste torride giornate estive: “ Per capire la crisi del bacino del Po bisogna risalire almeno all’inizio del XIX° secolo, quando si inizia a delineare un programma di intensificazione dell’uso dell’acqua finalizzato alla prosperità ed alla crescita: è un programma che caratterizza tutti gli interventi fatti fino alla fine del XX° secolo e vede una alleanza di fatto tra il capitalismo agricolo e industriale e l’azione dello stato che è alla radice dei processi che hanno portato all’antropocene, alla discontinuità dovuta all’intervento umano”
Il termine antropocentrismo è infatti citato da vari ambienti anche per la crisi idrica.
Ma poi ci sono le scelte politiche e le risorse a disposizione.
Il problema più urgente è la tenuta della nostra rete idrica con le perdite che arrivano fino al 40%. Ma ci sarebbe bisogno del potenziamento degli acquedotti, delle reti e degli impianti di depurazione. Molti gestori- aziende multiservizi ormai diventate vere e proprie holding con una presenza anche nella finanza- preferiscono redistribuire utili invece che occuparsi degli interventi necessari.
Le risorse del Pnrr- spesso descritto come una sorta di panacea in grado di guarire qualsiasi male- non è che siano proprio risolutive ne particolarmente abbondanti: si potrà contare su un po’ meno di 4 miliardi e mezzo, piuttosto poco per dare continuità agli interventi sulla rete.
E la crisi idrica tradisce delle somiglianze con quella sanitaria: esiste infatti un piano di adattamento ai cambiamenti climatici, eleborato dall’Ispra- l’Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale- nel 2015, così come esisteva un piano pandemico di cui molto si è parlato nei primi mesi di diffusione del Covid.
Questo piano è rimasto nei cassetti per 6 anni per poi essere approvato nel 2021, ma non è mai stato finanziato.
Ma ci sono altre dinamiche che pure abbiamo recentissimamente vissuto in tempi di pandemia: la proliferazione dei centri decisionali, con tanti soggetti coinvolti e la conseguente polverizzazione delle competenze con le decisioni che non arrivano o che, se arrivano, arrivano tardi.
E poi ci sono i conflitti tra i vari organi istituzionali.
In questi mesi di siccità abbiamo visto la Lombardia chiedere acqua alla Svizzera, la Valle d’Aosta rifiutarla al Piemonte, i comuni del lago di Garda che si sono tenuti stretta l’acqua del lago- che tra l’altro è quello che gode di salute migliore rispetto agli altri- e non hanno contribuito all’emergenza per la siccità del Po pur potendolo fare per non compromettere la loro stagione turistica.
Un film già visto, mentre stiamo vivendo una crisi che imporrebbe una visione decisamente diversa all’altezza di una sfida complicatissima e un veloce e radicale cambio di direzione.
In autunno, intanto, ci sarà un nuovo vertice sul clima, stavolta in Egitto.
Naturalmente sarà definito decisivo, ma le decisioni saranno probabilmente rimandate al vertice successivo…
Cristiano Bordin
9/8/2022 https://www.intersezionale.com
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