SICUREZZA NEL LAVORO IN SOLITUDINE
Il lavoro in solitudine si sta diffondendo sempre di più, ponendo problemi non solo relativi agli aspetti infortunistici, ma anche a quelli psicosociali e a quelli relativi alle capacità decisionali dei lavoratori. L’articolo si sofferma specificatamente su questi due ultimi aspetti spesso non adeguatamente considerati.
Riteniamo interessante portare l’attenzione sul lavoro in solitudine, sia perché molti segnali indicano un aumento di questa modalità lavorativa, sia perché (a parte alcuni specifici divieti) nella legislazione italiana non sembra esistere una posizione organica su questo argomento, sia infine perché il tema va considerato nella sua complessità, non solamente legato agli aspetti relativi ai possibili infortuni sul lavoro.
Il lavoro in solitudine si riscontra in molteplici comparti, dalle aziende produttive (impianti caratterizzati da elevata automazione, magazzini), all’agricoltura, fino al terziario (tecnici controllo impianti, addetti a servizi di vigilanza, ad attività di pulizie notturne).
Può svolgersi sia di giorno che di notte: e in questo secondo caso le problematiche sono potenziate da molteplici fattori.
Ci occupiamo di questo tema perché il lavoro in solitudine presenta tre caratteristiche rilevanti per la salute e la sicurezza del lavoratore, ma anche per la sicurezza generale nell’azienda:
– in primo luogo espone alla possibilità di non essere soccorsi in caso di malore o in caso di infortunio;
– in secondo luogo mette il lavoratore in condizione di affrontare da solo situazioni che richiedono una consapevolezza della situazione e una presa di decisione, a fronte di eventi più o meno anomali legati al processo lavorativo e alla sua sicurezza;
– la terza criticità è collegata ad aspetti di natura psicologica e sociale che possono avere importanti ripercussioni sullo stato di benessere del lavoratore: ed è il tema dello stress legato alla specifica condizione del sentirsi da solo.
Quando si tratta di lavoro dipendente, queste tre problematiche devono essere prese in considerazione dal datore di lavoro, che sulla base dell’articolo 17 del D.Lgs.81/08 ha il dovere di valutare i rischi, individuare in quali attività sia permesso o meno il lavoro in solitudine (alcuni divieti compaiono anche nella legislazione italiana, ma altri riferimenti sono interessanti, come quelli reperibili nel codice SUVA) ed infine adottare le soluzioni più idonee a far fronte ad un lavoro così organizzato.
Per quanto riguarda l’aspetto legato all’allarme a fronte di malori, infortuni, incidenti, oggi le soluzioni tecnologiche (sistemi di trasmissione, GPS, applicazioni ai cellulari, segnalatori automatici di malessere, eccetera) sono in grado di offrire una risposta, soprattutto se combinate tra loro.
Il tema del rapporto tra la solitudine e i processi decisionali è invece scarsamente affrontato da chi si occupa di questi argomenti.
Vi sono molte situazioni nei quali il lavoratore è chiamato a prendere delle decisioni. Può trattarsi di eventi improvvisi, anche se non inattesi, di eventi che possono compromettere la sicurezza per lui stesso, per il processo produttivo e anche per le strutture aziendali.
Per la maggior parte di queste situazioni è verosimile (e obbligatorio) che l’azienda abbia condotto delle previsioni, sviluppato piani di intervento se non addirittura dei veri piani di emergenza. E che abbia impegnato il lavoratore in opportuni corsi di formazione, ripetuti nel tempo.
Pur tuttavia vi è sempre un margine decisionale da parte del lavoratore sia nel dare risposta agli eventi (accorgersi di un’anomalia, di un malfunzionamento), sia nel decidere quale soluzione adottare per risolverli.
Molte mansioni lavorative richiedono una piena efficienza del lavoratore, la cui consapevolezza è importante per la sicurezza. Pensiamo alla situazione di un affaticamento legato a condizioni personali di vita (insonnia, attività fisiche pregresse, malessere generalizzato, ecc.) che il singolo, in assenza di un confronto con i colleghi può non riconoscere.
Questo aspetto è simile alla condizione di altri lavoratori, che pur non essendo definibili come lavoratori in solitudine si possono trovare ugualmente soli nel prendere decisioni vitali: pensiamo agli infermieri soli di notte nei reparti ospedalieri, o agli operatori di notte nelle case di riposo: appunto non soli, ma con responsabilità di persone a loro affidate, le cui condizioni di salute possono aggravarsi in breve tempo. Anche il loro processo decisionale si svolge, almeno per un certo tempo, in solitudine e sotto la tensione di una forte responsabilità, condizione in cui è più facile sbagliare, pur tuttavia non è una piena solitudine, perché vi è un contatto possibile con esseri umani.
Il terzo aspetto riguarda le componenti psicologiche e sociali del lavoro in solitudine.
Il vivere una situazione di solitudine e di isolamento può comportare delle sofferenze importanti per la persona, basti pensare che la risonanza magnetica funzionale (FMR) mostra che la regione emotiva del cervello attivata quando una persona si sente emarginata è la stessa che registra le risposte emotive al dolore fisico: il cingolo anteriore dorsale. Ciò mostra che il dolore determinato dalla solitudine è una ferita in grado di sconvolgere profondamente la persona anche dal punto di vista fisico.
D’altra parte il nostro bisogno di vivere connessi ad altre persone deriva dal fatto che i primi esseri umani avevano più probabilità di sopravvivere rimanendo in gruppo e si può pensare che l’evoluzione abbia selezionato i geni che generano piacere quando si è assieme ad altri e sensazioni di disagio quando si è da soli, perché si tratta di una situazione di insicurezza e di pericolo.
Il lavoro in solitudine può arrivare a farci sentire insicuri come se fossimo minacciati anche fisicamente.
E’ il caso di ricordare che le reazioni delle persone non sono uguali tra loro né matematicamente prevedibili: si può arrivare a un vissuto critico per fattori oggettivi particolarmente pesanti (la complessità della situazione da affrontare, l’orario notturno che è certamente più sfavorevole, ossia i fattori di stress legati alla situazione), oppure per fattori soggettivi (la persona non se la sente, non ce la fa), oppure per un intreccio dei due fattori, che peraltro può anche variare nel tempo.
Ecco allora la possibilità, specialmente di notte, di vedere attorno mille pericoli, di diminuire la capacità di valutazione di quello che accade, fino ad un aumento dell’aggressività verso gli sconosciuti che si incontrano.
In queste situazioni può crescere la tendenza all’abuso di bevande alcoliche, del fumo, di farmaci, di droghe e anche di cibo, come strategia, peraltro inefficace, di controllo dello stress e della sofferenza. L’abuso di tutto ciò può a sua volta divenire un fattore di difficoltà nell’assunzione di decisioni in situazioni critiche, e quindi rappresentare un fattore di rischio per la persona e un pericolo per il processo produttivo. Formazione e piani di emergenza possono essere vanificati da questi comportamenti.
Anche il semplice abuso di cibo è contrario al benessere e alla salute del lavoratore.
E’ ben vero che si tratta di comportamenti spesso vietati nell’ambiente di lavoro, ma è altrettanto vero che esistono, e che non prendere in considerazioni il fatto che possano essere stimolati o accentuati da determinate condizioni di lavoro non appare produttivo per chi si voglia veramente occupare del benessere dei lavoratori.
Anche il medico competente, che si è espresso sulla idoneità del lavoratore alla attività in solitudine, deve tenere sotto controllo nel tempo questi comportamenti, e considerarli indicatori importanti di malessere.
Se il lavoro in solitudine non rappresenta di per sé un rischio, bensì una condizione di lavoro che può esporre il lavoratore alle tre situazioni di rischio accennate, è allora il caso di ridurlo al minimo, soprattutto di notte. Tra le misure da adottare, la valutazione dei rischi, la formazione ripetuta, la sorveglianza sanitaria, la valutazione dello stress lavoro correlato. Tra le scelte organizzative, è il caso di prevedere, ad esempio, che non siano sempre gli stessi soggetti ad essere adibiti al lavoro in solitudine, indipendentemente dalle loro opzioni. Riteniamo infatti sia compito dell’organizzazione favorire la rotazione e non caricare di turni di solitudine coloro che si offrono. Occorre, in altri termini, abbandonare la logica della disponibilità per abbracciare quella dell’idoneità.
Altra misura di attenuazione può consistere in un periodico e frequente contatto audio/video con il lavoratore che opera in queste condizioni.
Antonio Zuliani e Emenuela Bellotto
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