Smart-working e lavoro digitale: come rompere l’hikikomori lavorativo?

1. Negli studi psicologici, e nell’immaginario sociale, molto si discute del diffondersi di una sindrome denominata Hikikomori (ritiro sociale); il fenomeno, studiato in Giappone per la prima volta negli anni ’90, consiste nella progressiva autoreclusione di giovani adulti, pressati da contesti e regole sociali fortemente competitivi. Metaforicamente, di fronte ad alcune forme di lavoro, sembra si possa parlare di una sorte da ‘involontari’ Hikikomori. Infatti, l’individualizzazione dei rapporti, anche sotto forma di lavoro autonomo spurio; i fenomeni di esternalizzazione di fasi rilevanti della produzione, che genera segmentazione contrattuale e degli interessi; da ultimo, proprio l’assenza di una sede di lavoro fisica, quando il rapporto di lavoro nasce e vive nel mondo virtuale, inducono cioè un ritiro sociale dei lavoratori, rendendo oggettivamente più complessa la “aggregazione di soggetti, almeno potenziale” che, secondo G. Giugni (Diritto Sindacale, Cacucci, 2004), qualifica strutturalmente l’esperienza sindacale. Proprio il complesso di questi fattori può contribuire a creare un ambiente competitivo tra i lavoratori, inducendo un’individualizzazione degli stessi rapporti di lavoro e impedendo il formarsi di una solidarietà collettiva tra i lavoratori – una “coscienza di classe”. Nelle forme di lavoro accomunate dall’utilizzo delle ICT per eseguire e controllare a distanza la prestazione (nella forma prodromica del telelavoro, evoluta poi nello smart working e da ultimo nel lavoro tramite piattaforma), l’interazione e l’aggregazione fisica tra i lavoratori tende ad essere limitata rendendo più difficile, nel contesto di un “mercato del lavoro strutturalmente solitario” (Johnston, Land-Kazlauskas, 2018), il coagulo d’una soggettività collettiva dei lavoratori digitali, indispensabile nella fase genetica del fenomeno associativo in sé. Già nel lavoro agile, ove il luogo e il tempo della prestazione perdono rilievo legale – “modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato (…) senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro” – pur non essendo in discussione il riconoscimento della libertà sindacale e dell’attività sindacale, tuttavia, l’effettiva capacità di esercitare tali libertà può essere significativamente ridimensionata. Lungo una scala evolutiva di remotizzazione del lavoro, all’estremo, si pone oggi il crowdwork (il caso più noto è Amazon Turk), ove la piattaforma registra offerte di lavoro che rivolge alla “folla” di lavoratori. Paradossalmente in questa tipologia, che si qualifica proprio per l’esistenza di una collettività (crowd), la folla diviene “monade isolata” al momento di esecuzione della prestazione lavorativa: la possibilità di eseguire un’opera o un servizio senza il vincolo della prossimità fisica, fermo restando il potere del datore di verificare la fase della loro esecuzione, determina l’impossibilità per i crowdworker di aggregarsi.

In tutti questi contesti di lavoro diviene necessario pertanto ripensare alle modalità di esercizio dei diritti sindacali, con una diversa organizzazione ed un linguaggio differente. A proposito dell’hikikomori si è sottolineato che: “(…) appare sempre più chiaro, invece, come la Rete funzioni, rispetto al ritiro, in modo difensivo (…) una specie di rifugio (…) e non, come era lecito supporre inizialmente, la causa del ritiro” (Piotti, 2014). Allo stesso modo nell’Hikikomori lavorativo, la tecnologia può fungere da strumento difensivo per contrastare gli aspetti più anti-socializzanti del lavoro digitale e cioè le “nuove tecnologie possono essere utilizzate per completare e facilitare (e non sostituire quando sono ancora possibili) forme di organizzazione sindacale face-to-face” (Woodcock, 2019).

2. Come detto, queste stesse problematiche, già presenti, acquisiscono ora un rilievo del tutto inatteso. L’emergenza sanitaria, e il connesso distanziamento sociale, infatti, da una parte, hanno spinto alla adozione di misure per favorire la diffusione del lavoro agile, determinando, di fatto, l’obliterazione di uno dei suoi caratteri fondamentali è cioè la volontarietà; nel settore pubblico questo è, sino alla fine dell’emergenza, “la modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”, in quello privato è “applicabile in via automatica”, senza cioè la necessità dell’accordo con il lavoratore (d.l. n. 6/2020). Peraltro, esso continua a rappresentare l’unica forma di lavoro ammessa per i settori ancora in lockdown, mentre in quelli aperti è comunque fortemente raccomandato “in quanto (…) strumento di prevenzione” del contagio (dpcm 26 aprile 2020). Sempre nel settore privato, infine, nell’ultimo provvedimento di urgenza approvato (il cosiddetto Decreto Rilancio), è addirittura qualificato come un diritto dei lavoratori, se genitori di bambini under 14: di fatto, una sorta di misura tampone alternativa alla riapertura delle scuole.

D’altro canto, il food delivery (la consegna a domicilio) non è mai stato in lockdown; anzi, sino alla cd. seconda fase, che consente anche l’asporto, esso rappresentava l’unica modalità consentita di vendita nella ristorazione. In sostanza, l’emergenza epidemica modifica sostanzialmente, portandolo in primo piano, il ruolo delle piattaforme digitali; si assiste ad un rafforzamento della posizione di alcune piattaforme (oltre al food delivery, si pensi all’e-commerce), mentre altre subiscono conseguenze negative, perché permettono – permettevano – la “condivisione” di beni e servizi in settori, di fatto, bloccati dall’emergenza (ad es. car sharing e home sharing). Sintomatico in proposito è quanto sta avvenendo negli Stati Uniti. Mentre in rete si parla esplicitamente di “Airbnb Apocalypse” e l’azienda annuncia massicci licenziamenti, Uber ha deciso di muoversi, appunto, dal ride-sharing al labour-sharing per consentire ai propri rider di trovare – espressamente – “essential work”, trasformandosi, di fatto, in una agenzia privata di intermediazione al lavoro: le gig offerte, infatti, non sono solo all’interno della stessa piattaforma (Uber Eats, Uber Freight), ma anche presso altre aziende. Ciò, mentre Amazon ha creato uno specifico portale per reperire manodopera, posta l’aumento della domanda di servizi. Insomma, le piattaforme di lavoro potrebbero assumere un ruolo di traino all’occupazione, una sorta di “settore rifugio” per lavoratori espulsi da altri, soprattutto ove perdurino le politiche di distanziamento.

In questo contesto, la diffusione dell’Hikikomiri lavorativo potrebbe rendere ancor più evidenti le difficoltà aggregative dei lavoratori, a fronte di una generalizzata e preesistente dinamica di declino degli iscritti ai sindacati in particolare tra i lavoratori non standard (Oecd, 2019). Peraltro, la nostra legge settoriale sulle piattaforme di lavoro (l. n. 128/2019), seppure “conceda ampi spazi di manovra alle organizzazioni sindacali” (Giubboni, 2019), non riconosce immediatamente diritti sindacali ai lavoratori autonomi delle piattaforme – a meno di una riconduzione giudiziale al lavoro etero-organizzato – al contrario di quanto previsto in altri ordinamenti (ci si riferisce alla legge francese detta “El Khomri” del 2016).

3. L’Hikikomori, come detto, caratterizza allo stesso modo smart workers e crowdworkers; questi ultimi – di regola qualificati come lavoratori autonomi – si vedono, inoltre, interdetto l’accesso e il concreto esercizio dei principali strumenti di tutela e promozione delle libertà sindacali, perché incardinati sul lavoro subordinato. Tuttavia, proprio dal lavoro delle piattaforme emerge un dato esperienziale “sorprendente” e cioè il diffondersi, a particolari condizioni, di fenomeni di azione collettiva e forme di coalizione fra i lavoratori. Diversi studi, anche comparati, ne hanno passato in rassegna e classificato le caratteristiche, la continuità e novità. Così, sono emerse forme di mobilitazione di varia natura, alternative a quelle tradizionali di azione collettiva. Diverse esperienze mostrano che il primo ostacolo superato, il dato genetico imprescindibile, e che ha poi garantito l’esistenza stessa di queste aggregazioni, è stata la creazione di un punto di contatto, prima virtuale e poi fisico, nella comunità dei lavoratori; un momento di condivisione e di riconoscimento di comunanza di interessi. Gruppi di discussione virtuali privati sono al centro di iniziative volte a controbilanciare le asimmetrie informative che indeboliscono la posizione dei lavoratori e il dominio socio-economico esercitato dalle piattaforme digitali. Si pensi in particolare alle note e studiate esperienze di “FairCrowdWork Watch” e “Turkopticon”, due Community che forniscono ai lavoratori delle piattaforme un luogo virtuale di incontro con finalità reputazionali, in cui cioè gli utenti possono comunicare, scambiandosi esperienze e consigli, in particolare sulle condizioni di lavoro applicate dalle piattaforme.

Questa triplice funzione delle ICT – in sintesi aggregazione/proselitismo/contropotere – potrebbe essere riorganizzata e stabilizzata, affinché la tecnologia diventi una fase della procedura di perfezionamento di una volontà collettiva giuridicamente rilevante. A questo fine dovrebbe essere implementata una proiezione informatica del diritto di assemblea già riconosciuto dallo Statuto dei lavoratori, che potrebbe fungere da fondamenta sui cui progressivamente costruire altri diritti sindacali basilari (diritto di associarsi, di contrattazione collettiva, ecc.). La differenza fondamentale rispetto agli ordinari gruppi di discussione, già largamente diffusi tra i lavoratori, oltre agli effetti giuridici che l’ordinamento dovrebbe attribuire alla assemblea così indetta, sarebbe rappresentata anche nella struttura proprietaria in cui “risiede” il gruppo di discussione. Anche per la verifica dell’orario di lavoro, la struttura hardware e software dovrebbe essere aziendale: si tratta, per così dire, della proiezione informatica, del fatto che, l’assemblea tradizionale (quella off-line) si svolge in orario di lavoro e dell’obbligo del datore di fornire/garantire una sede sicura ed adeguata per lo svolgimento dell’assemblea. Posto che lo stesso art. 20 St. Lav. espressamente delega la contrattazione collettiva, anche aziendale, a definire “ulteriori modalità” per l’esercizio del diritto di assemblea, già le parti sociali potrebbero veicolare, operativamente, l’assemblea sindacale virtuale, perlomeno nell’ambito del lavoro agile. Nell’ambito del lavoro autonomo etero-organizzato, nello stesso senso potrebbero invece agire gli “accordi collettivi” espressamente previsti in materia (d.lgs. n. 81/2015).

Un’altra questione va rimarcata. La rivitalizzazione informatica del diritto di assemblea ha senso solo se contemporaneamente vengono garantite due condizioni: la struttura software e hardware dovrebbe essere del datore/committente, ma a condizione di garantire il pieno esercizio della libertà di pensiero dei lavoratori, escludendone perciò l’accesso dei primi, attraverso opportuni sistemi di criptazione.

Infine, accanto e a sostegno della soluzione tecnologica, sarebbe opportuno immaginare la costituzione di un organo bilaterale, interno all’azienda, finalizzato al monitoraggio ed alla tutela delle libertà sindacali online, cui i sindacati (rsu) possano partecipare con prerogative analoghe a quelle dei responsabili dell’azienda*.

*Devo quest’ultima proposta al suggerimento di un anonimo referee, che ringrazio.

Manuel Marocco

30/5/2020 https://www.eticaeconomia.it

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