SMART WORKING, OVVERO IL COTTIMO NELL’ERA DIGITALE
La proposta di legge, che sarà presto discussa in Parlamento, descrive all’articolo 1 lo smart working come “prestazione lavorativa al di fuori dei locali aziendali, per un orario medio annuale inferiore al 50 per cento dell’orario di lavoro normale”, ovviamente “se non diversamente pattuito”. E come viene pattuita la regolamentazione di questa modalità di lavoro? Come si legge all’articolo 2, attraverso “un contratto scritto tra lavoratore e datore di lavoro, nel quale sono definiti le modalità di esecuzione della prestazione resa fuori dai locali aziendali, gli strumenti telematici utilizzati dal lavoratore e le modalità di organizzazione dei tempi della prestazione lavorativa”.
Qui c’è un primo nodo importante: le modalità di lavoro sono disciplinate con una contrattazione che mette di fronte il singolo lavoratore al datore di lavoro. Quest’ultimo, in una ovvia posizione di maggiore potere contrattuale, di fatto avrà in mano gli strumenti per decidere modalità di esecuzione e dei tempi di lavoro, oltre che (come si legge al comma 2 dell’articolo 2) “le modalità di recesso, con preavviso o anticipato, e l’eventuale proroga o rinnovo”. Insomma, è facile immaginare che sarà l’azienda a decidere su tutto. In base a cosa? Ovvio: per incrementare i profitti attraverso un tentativo di incremento della produttività.
D’altronde è proprio questo lo scopo dichiarato nella proposta di legge. Gli estensori della disegno di legge (Mosca, Ascani, Tinagli, Bonafé e Morassut per il PD e Saltamartini per la Lega) affermano infatti che “allo scopo di incrementare la produttività del lavoro” (art. 1), si introduce una modalità lavorativa “basata su un forte elemento di flessibilità, in modo particolare di orari e di sede”. Tutto questo stride con l’immagine, descritta ad esempio dalla velina di governo – L’Unità – del lavoratore felice, con la possibilità di lavorare serenamente da casa o su una panchina all’ombra di una quercia, con aria più pulita per il ridotto traffico causato dagli spostamenti casa-lavoro e finalmente con più tempo libero da dedicare a sé stesso ed alla propria famiglia. Questa descrizione da epifania del lavoro finalmente liberato contrasta palesemente con l’indagine condotta dalla società Regus, fornitore globale di uffici flessibili e spazi di coworking, presente in tutto il mondo. I risultati di 44.000 interviste dimostrano che “Lavorare diverse ore in più oltre i tradizionali orari d’ufficio è ormai una consuetudine”, non solo per i manager, ma anche per normali professionisti. “In Italia il 21% degli intervistati dichiara di lavorare anche 15 ore in più alla settimana”.
“Il lavoro incontra le nuove tecnologie”, dicono gli estensori del DdL. Ma questo incontro è utilizzato per essere sempre connessi, con “grande vantaggio in termini di flessibilità e di produttività”, si afferma nell’indagine Regus, dove però si ammette che “il corretto bilanciamento tra lavoro e vita privata (worklife balance) viene messo a rischio da un sovraccarico di lavoro e da una sensibile riduzione del tempo libero da dedicare al riposo”. In sintesi, e come al solito, le imprese beneficeranno del maggiore e più intenso carico di lavoro a cui sono costretti i lavoratori che, come nelle intenzioni di Poletti, non vengono retribuiti rispetto all’orario di lavoro ma agli obiettivi raggiunti. Lo dicono esplicitamente gli estensori della proposta di legge: uno degli obiettivi dichiarati è “il passaggio dal lavoro a timbratura di cartellino al lavoro per obiettivi” dove il lavoratore deve portare “a termine gli obiettivi stabiliti nelle scadenze previste”. Da questo punto di vista, lo smart working altro non è che il nome dato all’organizzazione del lavoro nel capitalismo contemporaneo; nell’ipotesi di Poletti è nei fatti un cottimo nell’era digitale. E l’auspicio dichiarato è quello di spremere da questa organizzazione del lavoro “27 miliardi di euro in più di produttività e 10 miliardi di euro in meno di costi fissi”, che, visti i presupposti, difficilmente si può immaginare vengano redistribuiti ai lavoratori.
Niente di nuovo. E osservando oltre la retorica che vorrebbe lavoratori più liberi di gestire il proprio tempo, si nota l’incremento della precarietà dato dall’affermarsi di una relazione strettamente mercantile del rapporto di lavoro, determinato dal contratto stipulato non tra parti sociali ma tra lavoratore e datore di lavoro. Lo smart working, tolta la maschera, si presenta come un lavoro ulteriormente frammentato, precario e perciò più debole, con il quale l’impresa abbassa i costi di produzione e aumenta il suo comando sul lavoro.
Carmine Tomeo
15/1/2016 www.lacittafutura.it
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