Soldi alla guerra, tagli ai Comuni

Supererà i 32 miliardi la spesa militare del nostro Paese nel 2025, con un balzo del 12% sull’anno precedente e del 60% sull’ultimo decennio. E ancora non basta, perché in sede Nato già si parla di futura destinazione alle spese per la Difesa per ogni Paese membro di almeno il 3% del Pil.

In un contesto di Unione europea che, contro ogni logica che non sia quella dei grandi interessi finanziari, ha reintrodotto il patto di stabilità e le conseguenti politiche di austerità, la domanda “da dove verranno presi quei soldi?” risulta senz’altro retorica.

Se la coperta è stata volutamente resa corta e la priorità è diventata l’economia di guerra, le risorse per quest’ultima saranno giocoforza sottratte ai servizi pubblici (sanità, istruzione, sociale), ovvero ai diritti delle persone.

E poiché piove spesso sul bagnato, perché non colpire di nuovo i Comuni, i cui rappresentanti hanno ormai interiorizzato il ruolo di subalternità loro assegnato dai governi degli ultimi decenni di qualsivoglia colore politico?

Togliere risorse ai Comuni significa spingerli sulla strada della privatizzazione dei servizi pubblici, della svendita del patrimonio pubblico, della messa a valorizzazione finanziaria del territorio, con una profonda espropriazione di diritti per le comunità territoriali.

D’altronde, se il modello è la Milano-Dubai del sindaco Sala, dove case di due-tre piani vengono sostituite da grattacieli che nascono come funghi, senza richiesta di permessi di costruzione, né piani particolareggiati pubblici, salvo poi elemosinare un decreto al governo “nemico” che condoni tutto ed estenda il modello all’intera penisola, la visione è chiara: i Comuni e le città non sono i luoghi dell’abitare e delle comunità, bensì mezzi di produzione di valore finanziario.

E’ dentro questa logica che i tagli ai Comuni vengono perseguiti con tenacia e senza alcuna soluzione di continuità. Il paradosso è che tutto questo viene motivato con la necessità di riduzione del debito e di contenimento della spesa pubblica.

Peccato che si ometta ogni volta di dichiarare come la quota parte di debito pubblico attribuibile ai Comuni non superi l’1,4 %, e come la quota parte di spesa pubblica in carico agli stessi sia pari a solo il 6,5%.

Come se non bastassero tre decenni di tagli agli enti locali, che hanno comportato una riduzione del 30% del personale, ridotto al lumicino i servizi pubblici erogati e azzerato gli investimenti, anche la nuova Legge di bilancio chiede ai Comuni di “concorrere agli obiettivi di finanza pubblica”.

Comuni che già stanno concorrendo a quegli obiettivi, grazie alla Legge n. 178/2020, che per il 2024-2025 prevede un taglio di 100 ml per i Comuni e di 50 ml per le province e le città metropolitane e grazie alla Legge di bilancio 2024 (governo Meloni) che ha imposto un taglio di 200 ml/anno per i Comuni e di 50 ml/anno per le province e le città metropolitane per il periodo 2024-2028.

Con la Legge di Bilancio 2025, il governo Meloni fa il bis e prevede un ulteriore taglio di 1,3 miliardi per i Comuni e di 150 milioni per province e città metropolitane per il periodo 2025-2029.

Sommando i costi dei provvedimenti vecchi e nuovi in essere, sappiamo che nel 2025 i Comuni avranno 430 ml in meno, cifra che salirà a 460 ml per il triennio 2026-2028 e che si attesterà a 440 ml nel 2029. A fronte di questo quadro finanziario, le dichiarazioni di “moderata soddisfazione” da parte dell’Anci dimostrano la subalternità culturale sopra ricordata.

Ma le comunità territoriali possono continuare ad accettare supinamente questa espropriazione di risorse, di diritti, di senso dell’abitare e di relazioni sociali? Oggi più che mai, riprendersi il comune diventa un obiettivo strategico per un’alternativa di società.

di Marco Bersani 

21/12/2024 https://attac-italia.org/

(articolo pubblicato su il manifesto del 21 dicembre 2024 per la rubrica Nuova Finanza Pubblica)

Foto: pagina facebook del Movimento No Base – né a Coltano né altrove

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