Sono nigeriani
Sono nigeriani, possono anche morire a migliaia, poche voci per indignarsi. Commenti sulla orrenda nuova strategia, imbottire bambine di tritolo e farle esplodere nei mercati, sono bambine e per di più femmine, il sentirne parlare fa inorridire ma lo si accetta come “inevitabile”. Il colonialismo becero di cui gran parte della cultura occidentale è ancora intriso, il razzismo ipocrita e fondato su una ignoranza che parte dai programmi scolastici delle scuole, si trascina negli stereotipi più o meno soft porta a non voler vedere, a non voler capire. Eppure la Nigeria è un Paese fondamentale per gli scambi economici con l’Europa, le estrazioni petrolifere hanno distrutto il delta del Niger, le foreste sono state frantumate, le città da Lagos, immenso territorio in cui, fra grattacieli e baracche vivono 15 milioni di persone a Benin City ad Abuja, la capitale federale, sono metropoli, non i villaggi che fanno parte di un miserrimo immaginario diffuso. Metropoli circondate da bidonvilles, quartieri per i bianchi e per l’alta borghesia nera, protetti da immensi apparati di sicurezza e poi la quotidiana fatica di vivere. La Nigeria per l’immaginario maschile italiano è rappresentata ancora dalle ragazze messe in vendita nelle strade, spesso minorenni, dalle nuove e vecchie paure dell’ “uomo nero”. Chi sa cosa è Nollywood come ormai chiamano l’industria cinematografica nigeriana, una delle più prolifiche del pianeta? E chi ha mai letto una riga di Ken Saro Wiwa, Wole Soynka, Chinua Achebe, solo per fare alcuni nomi? Chi ricorda la musica dell’immenso Fela Kuti? Niente di tutto questo trapela nella nostra percezione del più popoloso paese africano, repubblica federale divisa in 36 stati e un distretto, in cui si parlano oltre 250 dialetti, dove il pidgin l’inglese reso creolo dalla mescolanza, è elemento comunicativo unificante, come lo è purtroppo l’esercito, come lo sono le voraci grandi compagnie petrolifere fra cui la nostrana Eni. Un pianeta troppo complicato evidentemente per le semplificazioni nostrane, meglio immaginare un mondo rimasto selvaggio e feroce, bestiale, come fa comodo, ha sempre fatto comodo pensare a vecchi e nuovi colonizzatori. Ed in un contesto simile, fatto anche di corruzione endemica (può l’Italia scagliare la prima pietra?), di guerre civili e di golpe continui, ha cominciato a espandersi già nel 2001 un gruppo che lentamente si sta impadronendo del nord est del Paese. Boko Haram, la traduzione letterale del termine è “l’istruzione occidentale è impura”. Lentamente hanno conquistato villaggi e sono arrivati a prendere intere città, causando migliaia di morti. La sharia come legge le donne, soprattutto le donne come oggetti. Lo stupro come arma di guerra e la guerra come stupro di una regione. Il sogno è quello di un altro califfato, capace di espandersi verso i confini di altri Stati, dal Camerun al Niger al Mali, quegli stessi Stati disegnati con le righe dagli antichi padroni occidentali. E ci saranno uomini e donne in fuga da respingere che i nostri “democratici governi” chiameranno, “clandestini” e ci saranno barriere e frontiere di filo spinato magari anche nel mare e quelli che si salveranno dal fondamentalismo jihadista rischieranno di crepare per mano del fondamentalismo dei mercati e dei privilegi da riservare solo ai ceti alti dell’Occidente. Ma si potrebbe fare qualcosa per impedire l’avverarsi di facili profezie? Certo non ripetendo le fruttuose, per chi le finanzia, “missioni di pace” che importano la democrazia attraverso tonnellate di tritolo, ma neanche rimuovendo da ciò che resta della coscienza di un continente votato al declino, la capacità di indignarsi e di mobilitarsi. E allora perché la splendida piazza di Parigi – splendida se privata dei volti dei potenti criminali venuti ad appropriarsi anche del dolore popolare – non torna a riempirsi ancora una volta. A riempirsi issando i ritratti delle ragazze rapite da Boko Haram e delle bambine dilaniate, delle combattenti kurde, palestinesi, congolesi, centrafricane e dei tanti angoli dimenticati del pianeta. Un’Europa diversa, quella di cui ci sarebbe bisogno, sarebbe capace di dire “noi siamo loro”, sarebbe capace di rompere un muro apparentemente invalicabile, fatto di esclusioni e discriminazioni, in cui le vite hanno un valore diverso in base alla religione professata, al colore della pelle, al passaporto. Non sarebbe sufficiente a fermare lo scorrere del sangue ma chissà quanti e quante si sentirebbero per una volta nella vita meno soli e abbandonati, meno oggetti, merce da sfruttare e gettare. Mai come oggi ci sarebbe bisogno di un vero e radicato movimento contro le guerre, ogni guerra, quelle ipertecnogiche che mandano avanti l’industria bellica, quelle sotterranee, combattute con ogni mezzo, da chi trova nel martirio una propria identità. Un movimento radicale nella sua proposta e insieme globale nella determinazione a coinvolgere tutti gli uomini e le donne animati dal sogno di farla finita con le guerre e lo sfruttamento. Uno spazio di ricostruzione di relazioni in cui non possano pesare i politicismi di misere mediazioni di potere ma che ridia la possibilità di sognare a quei bambini e a quelle bambine che potrebbero svegliarsi senza il terrore e con la gioia dell’infanzia.
Stefano Galieni
13/1/2015 www.rifondazione.it
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