I palestinesi ricordano Sabra e Chatila.
Beirut, 18 settembre 2015, Nena News –
Sono passati trentatré anni da quei drammatici giorni del settembre dell’82, quando le falangi fasciste, con la complicità dell’esercito israeliano, fecero strage di palestinesi nei campi di Sabra e Chatila. Anni che non hanno cancellato il dolore e la rabbia nel vedere i carnefici di allora restare impuniti. Non dimenticare Sabra e Chatila significa non dimenticare le tante stragi compiute in questa regione negli ultimi decenni, significa non dimenticare Deir Yassin, Jenin, Bourj Shamaly, Gaza… un elenco lunghissimo. Non dimenticare quella strage, significa però, innanzitutto, non dimenticare i vivi, i rifugiati palestinesi che continuano a vivere in condizioni inumane dentro campi che sono ora prigioni e ora formicai indescrivibili.
Trentatré anni sono tanti. Anni che hanno visto nascere generazioni di palestinesi, donne e uomini che a loro volta hanno visto scorrere davanti ai loro occhi la storia e che oggi vivono una realtà allucinante. Gli si nega il presente, attraverso l’assenza di diritti e vessazioni di ogni tipo, e gli si nega il futuro, disperdendoli nel mondo e cercando di cancellarne la memoria.
“Mio nonno era un palestinese e abitava vicino ad Acco, in Galilea, poi venne la guerra, bruciarono i nostri villaggi, arrivarono gli israeliani e fummo costretti a lasciare le nostre case. Ci rifugiammo prima in Libano, poi quando si capì che non saremmo ritornati in tempi brevi nelle nostre abitazioni andammo a Damasco, dove vivevano dei nostri amici. Da allora la mia famiglia divenne palestinese rifugiata in Siria. Io sono nata a Yarmuk, uno dei tanti campi palestinesi fuori dalla Palestina, non ho mai capito bene cosa ero: palestinese, ma anche siriana… Non potevo negare le mie origini, la Palestina, ma la Siria era il paese che aveva accolto la mia famiglia e io ci vivevo bene. Poi la Siria è esplosa, Yarmuk è diventato teatro di scontri e violenze e sono fuggita in Libano, ero diventata così una palestinese rifugiata in Siria che viveva da profuga in Libano. Mio figlio oggi non vuole restare qui, ha 23 anni e vuole raggiungere un suo zio in Norvegia. Cosa diventerà? Un palestinese, uno dei tanti rifugiati siriani? un libanese in cerca di una vita migliore, oppure un norvegese? Non sappiamo più cosa siamo!”.
Questo breve racconto è di Amal, una donna che vive alle porte di Beirut, una dei tantissimi profughi che sono arrivati in questi mesi dalla Siria, se ne contano circa un milione e mezzo (eppure in Libano nessuno grida all’invasione). La sua storia è uno spaccato della tragedia palestinese, dalle sue parole traspare tutta la disperazione di questo popolo. Per lei il massacro di Sabra e Chatila, che proprio in questi giorni ricorre, è solo un ricordo, uno dei tanti brutti ricordi.
Sono in tanti a voler scacciare l’ombra del massacro compiuto dalle falangi libanesi (cristiani maroniti) con la complicità di Ariel Sharon, allora a capo dell’esercito con la stella di David. Lo fanno da sempre gli esecutori, che a distanza di decenni continuano a negare spudoratamente quel crimine. Lo fanno la maggioranza dei libanesi, stritolati fra il desiderio di lasciarsi alle spalle gli anni bui della guerra civile e la paura di ricadere dentro alla spirale di violenza e morte. Lo fa anche una parte della popolazione palestinese, frustrata dalle troppe ingiustizie subite e schiacciata da un futuro inesistente. Ma quel ricordo, quella memoria, resta viva, come una ferita aperta. Una ferita che si palesa negli occhi dei familiari delle vittime, che ostinatamente chiedono giustizia per i loro cari. Donne e anziani che non si rassegnano e portano sulle spalle la responsabilità di traghettare la memoria del popolo palestinese e la sua catastrofe alle nuove generazioni. Una impresa titanica visto che in tanti vorrebbero chiudere questa partita. La crisi dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi), che in queste settimane ha rischiato di far restare a casa settecentomila studenti palestinesi, è solo l’ultimo dei tentativi di annientare la resistenza di questo popolo. Mettere in discussione la salute e l’istruzione di un popolo significa farlo morire. Alla fine i soldi si sono trovati, sono arrivati dagli stati del Golfo e dall’Arabia Saudita, ma a prezzo di quali pressioni, di quali ricatti?
Sono loro, queste famiglie di Chatila, la vera ossatura del Comitato Per non dimenticare Sabra e Chatila, fondato nel 2000 dal giornalista del Manifesto e acuto studioso del Medio Oriente Stefano Chiarini, insieme a pochi amici italiani, a Kassem Aina, anima di Beit Atfal Assomoud, una ong palestinese che da sempre lavora per portare aiuto ai rifugiati palestinesi in Libano, e Talal Salman, grande intellettuale arabo e direttore del quotidiano libanese Assafir. Il Comitato in questi giorni è a Beirut per chiedere giustizia per i morti e diritti per i vivi, quei quattrocentomila palestinesi che nel Paese dei Cedri non si vedono riconosciuti diritti fondamentali, quali quello di lavorare, di potersi curare, di spostarsi liberamente e di avere proprietà.
Quest’anno insieme alla delegazione italiana c’è una vasta rappresentanza proveniente da altri paesi: Usa, Malesia, Singapore, Norvegia, Francia, Finlandia, Spagna, ma soprattutto tanti palestinesi che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania, gli stessi che nelle scorse settimane hanno supportato le carovane del Comitato per non dimenticare il diritto al ritorno. Il diritto al ritorno unisce il popolo palestinese e unisce le sue componenti politiche e sociali. Quello che abbiamo fatto in questi mesi con il lavoro del Comitato per non dimenticare il diritto al ritorno vuole essere il nostro piccolo contributo a quell’unità spesso invocata ma che non può che costruirsi su contenuti concreti. Un filo che si intreccia e che implementa i rapporti fra la solidarietà internazionale e il popolo di Palestina.
Sono proprio i palestinesi di Gaza a denunciare con forza la condizione inumana a cui è condannata la popolazione che vive a Chatila, a Bourj al Barajne… nei campi in Libano. “Non possiamo restare zitti, dobbiamo fare qualcosa per cambiare questi luoghi che non sono campi, sono cimiteri”. Lo grida il coordinatore delle associazioni caritatevoli della Cisgiordania, “ieri ho visitato Chatila – prosegue – e ho provato vergogna. Una situazione intollerabile! Come si è arrivati a ciò? Come è stato possibile?”. Dare una risposta a queste domande è fondamentale per assicurare un futuro alla causa palestinese.
A distanza gli risponde il sindaco di Ghobehiry, la municipalità dove insiste il campo martire, un combattente della resistenza libanese che in questi anni ha fatto molto per alleviare le sofferenze dei cittadini di Chatila: “Questo campo è un luogo inumano, inadatto alla vita delle persone. Lo sanno tutti, ma nessun vuole cambiare questa situazione. Da tempo denuncio questo e chiedo di poter intervenire drasticamente, e mi scontro contro un muro di gomma. I libanesi hanno paura che i palestinesi si stabilizzino qui, ma non sarà così, la loro patria resta la Palestina”.
Ed è proprio la paura che sembra farla da padrona in questa parte del mondo. Paura dell’integralismo di Dahesh, e del suo fanatismo cieco. Paura di ricadere in conflitti confessionali che la Siria sembra voler regalare al proprio vicino. Paura di una economia che schiaccia via via tutte le classi sociali libanesi, propagando egoismo e diffidenza, a vantaggio di un sempre più esiguo numero di ricchi. Ma anche paura di essere dimenticati, come rischiano di esserlo i rifugiati palestinesi in Libano: “Le crisi si sommano – ci spiega Salman Natour – prima i profughi dell’Iraq, ora quelli dalla Siria, nessuno sembra più volersi occupare dei palestinesi e dei diritti che gli vengono negati”. Abbandonati e senza futuro. Così vivono la propria adolescenza i giovani dei campi, sempre in bilico fra le tentazioni della droga, la disperazione e i rischi di consegnarsi all’acquirente di turno.
Ci spiegano cosa vuol dire vivere in un campo i rappresentanti del comitato popolare del campo di Jalil, vicino a Balbek a pochi chilometri dal confine siriano, sono loro a farci toccare con mano questo ulteriore dramma che si sta consumando: “Tanti giovani ci comunicano di voler partire, di voler prendere il mare per provare a raggiungere l’Europa. Noi gli diciamo di no, di restare, gli raccontiamo delle morti nel Mediterraneo, dei respingimenti delle vostre polizie, gli spieghiamo che si deve restare qui per continuare a lottare affinché un giorno si possa ritornare in Palestina, ma poi ci accorgiamo che oltre le parole non abbiamo nulla da offrirgli e li lasciamo alle loro scelte. Senza un lavoro e senza la possibilità di avere un futuro cosa possiamo fare?”. Una chiusa amara come amaro è vedere dopo tanti anni i responsabili del massacro di Sabra e Chatila liberi e protagonisti della politica libanese (Samir Geagea resta uno dei principali candidati alla presidenza della Repubblica).
In questo contesto è straordinario il lavoro che portano quotidianamente avanti i nostri amici di Assomoud. Kassem e i suoi ragazzi non si arrendono mai, e sono un esempio oltre che per il loro popolo anche per noi. Non si arrendono e lavorano. Un lavoro prezioso, come quello che nei campi di Bourj Shamali e Rashidiye ha fatto nascere gruppi folkloristici, giovani e giovanissimi che attraverso le canzoni e le danze fanno vivere la cultura del loro popolo. Ogni volta che li si vedono vengono gli occhi lucidi, felicità e commozione si mischiano giocando brutti scherzi. La Palestina è soprattutto questo, sono le piccole e grandi resistenze di ogni giorno nei campi in libano come nei sobborghi di Amman, a Bil’iin come a Gaza, a Yarmuk come a Hebron. Perché, non dimentichiamolo mai, la Palestina è una, come una è la causa di tanto dolore: l’occupazione israeliana delle terre Palestinesi.
Maurizio Musolino
18/9/2015 Nena News
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