Sono un medico che non indossa un camice: nei manicomi era stato l’abito di scena di una psichiatria disumana.

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Sono un medico che non indossa un camice. C’è per questo una ragione ben precisa. Il camice era stato nei manicomi l’abito di scena di una psichiatria disumana, che si fingeva scienza per esercitare un potere che la società le aveva delegato. Il potere di controllare, rinchiudere gli esseri umani sofferenti che le venivano consegnati. Una legge règia del 1904 definiva le ragioni del ricovero: pericolosità per sé e per gli altri e pubblico scandalo.

Se il camice era la divisa del medico e dell’infermiere – per quest’ultimo corredato di un grosso mazzo di chiavi – il pigiama grigio era quella del degente, che si aggirava per il salone del reparto con un sacchetto contenente pochi effetti personali e la sua roba sporca da consegnare alla famiglia. Da essi non si separava mai, era quello che gli restava.

Le donne potevano perdere i figli, i matrimoni potevano essere annullati, le eredità non si ricevevano, la firma non valeva più, le persone semplicemente non esistevano più. Erano corpi da lavare con una pompa d’acqua dentro docce senza getto.

Centomila uomini e donne erano internati nei manicomi italiani, la maggioranza di essi a vita, quando Franco Basaglia iniziò il suo lavoro a Gorizia nel 1961, e poi a Trieste un decennio più tardi. Il suo lavoro restituì voce, diritti, identità, cittadinanza e soprattutto libertà alle persone sofferenti di disturbi psichiatrici, e ispirò la riforma sanitaria in toto, che veniva anticipata pochi mesi prima nello stesso anno dalla legge 180, poi inclusa nel testo della legge 833.

Nello stabilire il diritto alla salute attraverso un sistema universale, essa affonda le sue radici in ciò che la Costituzione italiana del 1948 aveva previsto: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come individuo che nelle formazioni sociali in cui si dispiega la sua personalità ” (art. 2 Cost.); e ancora: “Nessun trattamento sanitario può essere obbligatorio se non per legge. Pratiche lesive della dignità umana non sono consentite” (art. 32 Cost.).

Ho iniziato a lavorare unendomi al lavoro del gruppo di Basaglia a Trieste pochi giorni dopo la mia laurea in Medicina, due mesi dopo la promulgazione della legge 180, arrivandovi dalla mia Puglia per inseguire il sogno di una medicina che guarda all’uomo sofferente.

Ho scoperto allora che non vi sono soltanto malattie da diagnosticare e pazienti da trattare, ma persone, in carne ed ossa, con la loro storia.

Norberto Bobbio ha definito la legge 180 un provvedimento che trasforma la società, ispirata al valore fondamentale della libertà, della liberazione anche di coloro che nella storia dell’umanità sono stati considerati “non avere il diritto di essere liberati”. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, afferma che “non c’è salute senza salute mentale”.

Oggi l’Italia, tuttavia, sembra ritenere di aver assolto a questo compito con la chiusura definitiva dei manicomi nel 1999 e la chiusura degli ospedali giudiziari (Opg) nel 2017 e l’apertura delle Rems (residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza), non sembra esserci più spazio per politiche e pratiche che portino a compimento quella grande stagione di riforma, che pure sarebbero necessarie.

Nonostante ulteriori risoluzioni del Comitato di Bioetica, la contenzione fisica resta pratica comune, pur ledendo i diritti stabiliti dalla Convenzione delle persone con Disabilità delle Nazioni Unite. Di questa pratica il rapporto finale della Commissione parlamentare sullo Stato del Ssn, adottato nel 2013, ha auspicato la fine, insieme con lo sviluppo di Centri di Salute Mentale aperti 24 ore e progetti personalizzati su tutto il territorio nazionale, che a Trieste, modello internazionale per l’OMS, si sono inverati in un sistema a libero accesso, a porte aperte dovunque e con un deciso “no alla contenzione” esteso anche alla medicina generale.

La straordinaria esperienza di Basaglia a Trieste ha mostrato come le istituzioni totali e i saperi che le giustificano siano inevitabilmente basate sulla violazione sistematica dei diritti umani e sulla negazione delle libertà fondamentali.

La parola dignità risuona oggi nelle convenzioni e nei trattati internazionali che proteggono questi diritti.

La chiusura dei manicomi che la legge 180, ha reso possibile il ritorno delle persone al diritto primigenio, quello di avere una vita degna di essere vissuta.

www.sossanita.org

Intervento svolto in occasione della celebrazione ufficiale per il 40esimo del SSN il 12 dicembre 2018 presso la sede del Ministero della Salute

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