SOS giovani
“Finché la barca va lasciala andare”.
Fu così che Orietta Berti sentenziò un costume che ha radici profonde nel nostro bel Paese, in cui l’arte della procrastinazione e del tergiversare ha avuto (e purtroppo, continua ad avere) un ruolo centrale nelle nostre vite sociali.
Visione troppo pessimista? In realtà no.
Siamo i figli di una generazione nata e pasciuta nel boom economico italiano, che ha goduto del fiorire dei sacrifici nati dal piano Marshall e della ricostruzione post bellica, dei succulenti giacimenti petroliferi e della prima era tecnologica. E siamo anche i figli di una generazione che lascia dietro di sé i detriti di Tangentopoli, della magistratura sotto scacco dalla mafia, degli abusi edilizi e sanati a scapito di chi ci sarà in futuro (chi vivrà vedrà, no?).
Ebbene, il fiume di detriti della generazione dei boomers si è sedimentato nelle vite dei giovani, nel futuro. Siamo proprio noi ai quali è stato affidato il compito più arduo: sanare la noncuranza di chi ci ha preceduti. E purtroppo la spensieratezza di Orietta Berti stavolta non tiene: stavolta la barca si è arenata per davvero. Mentre ancora si cerca una quadra per un accordo definitivo sui fondi da stanziare in uno scenario in cui la sfiducia dei cittadini sembra rendere traballante
la situazione politica, si interiorizza con amarezza che il morso distruttivo della pandemia ha inferto il colpo di grazia, con tutte le probabili (e anzi, in troppi casi, tangibili) conseguenze di questo ennesimo tracollo.
L’Italia che affonda, letteralmente annegando in un mare in burrasca di burocrazia e fenomeni atmosferici ove per entrambi, indistintamente, ogni volta siamo costretti a fare la stima dei danni per i cedimenti strutturali, frutto dello stesso sistema.
In un simile scenario catastrofico e quasi apocalittico, c’è chi si rifugia dietro la forza della speranza verso un nuovo futuro, fatto di nuove certezze promesse da chi si arroga il diritto di nascondere i dati e la verità, con tanto di striscioni color cielo azzurro e arcobaleni sorridenti firmati “Ce la faremo, andrà tutto bene!”, chi invece guarda con disincanto ed amarezza un Paese duramente colpito che cerca di rimanere in piedi nonostante gli urti.
Ed anche chi, in un simile contesto, tocca con mano l’inadeguatezza di un sistema che non dà possibilità, che troppe volte non rispetta il dovere sostanziale di uguaglianza tra cittadini. Una fetta di giovani che decide di gettare la spugna ancor prima di iniziare, perché già sicuri di non trovare un lavoro adeguato.
L’intento di questo articolo non è quello di offrire risposte concrete, quanto piuttosto lanciare qualche numero che offra spunti di riflessione.
La disoccupazione giovanile è una piaga che accompagna il nostro bel Paese da decenni ormai, e di questo ne siamo coscienti. Ma ciò che forse non tutti sanno è che a fine 2020 questa è arrivata a sfiorare il 30%; peggio di noi solo Spagna e Grecia. Un numero tristissimo che ci rende i fanalini di coda di un’Europa che, chiaramente, viaggia a velocità desincronizzate.
In base a quanto affermato da un articolo della rivista online Social Europe, le statistiche elaborate a livello europeo (Eurostat) non spiegano perché alcuni paesi abbiano tassi di disoccupazione molto più alti di altri, con la Grecia che registra un tasso di disoccupazione dieci volte superiore a quello della Repubblica Ceca e della Spagna, che ha le stesse dimensioni della Polonia ma quasi cinque volte in più di disoccupati. Tant’è che uno degli aspetti più curiosi evidenziati dall’autore è il tasso estremamente basso di disoccupazione registrato dai paesi dell’ex blocco sovietico.
La crisi finanziaria del 2010 ha condotto molto Paesi europei (i cosiddetti PIGS: Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna) sull’orlo del collasso; eppure, alcuni di essi ne sono “usciti” rafforzati da una corazza di ferro, altri visibilmente oltre che economicamente provati. E allora perché l’Italia e la Grecia non sono state in grado di tagliare i loro tassi di disoccupazione come hanno fatto il Portogallo e l’Irlanda?
In questi paesi, secondo l’autore dell’articolo, sono diversi i punti ai quali si tenta di aggrapparsi per addossare la responsabilità: politiche di austerità promosse da Bruxelles (anche se le stesse politiche dell’UE e della zona euro sono state applicate altrove e hanno favorito un forte calo nei tassi di disoccupazione); governi populisti di destra, xenofobi e nazionalisti (ma, andando a guardare, ancora una volta sono gli Stati membri dell’UE con i record positivi in termini di riduzione della disoccupazione e con la più elevata capacità di creazione di posti di lavoro – Ungheria, Polonia, Austria, Slovacchia e Repubblica Ceca – che hanno portato per primi al governo i partiti più xenofobi e anti europei).
Secondo una stima ISTAT del 2020, è stato calcolato infatti che sono ben 2 milioni in Italia i cosiddetti NEET (Not in Employment, Education and Training), giovani disoccupati e non immessi in alcun tipo di percorso di formazione/istruzione. Giovani tra i 15 e i 29 anni che non lavorano né studiano, e che complessivamente rappresentano circa il 23% della popolazione italiana totale.
In Italia, la distribuzione per titolo di studio mostra una predominanza di NEET in possesso del diploma (49%), seguono i giovani con basso livello di istruzione e con al massimo la licenza media (40%). Decisamente più bassa la quota di NEET in possesso della laurea (11%). C’è di più: purtroppo la concentrazione di questa fascia di popolazione è maggiormente presente nell’area centro-meridionale del nostro Paese.
Inattività giovanile in Italia
Anche in questa circostanza, e secondo un processo logico deduttivo, i fattori sono molteplici ed è opportuno analizzarli in questa sede.
Prima di tutto, il nostro sembra ormai essere diventato un paese che instaura ponti di comunicazione globale, perciò trovare una collocazione in uno di questi canali richiede un background con determinate caratteristiche, limitando quindi l’accesso a chi non possiede precise skills. A rimarcare la dose, la pandemia ha contribuito in negativo ad aumentare questo enorme gap di competenze professionali: la didattica a distanza, in molti casi, non ha fatto che incrementare le differenze tra chi possiede mezzi idonei ed adeguati a continuare la propria formazione e chi invece non ha tali possibilità.
Inoltre -e questo non vuole essere un fattore scriminante, ma al contrario, un passaggio fondamentale su cui porre l’accento per dare importanza e salvaguardia ad una condizione naturale, oggetto di accesi dibattiti e condizione per la quale le tutele non sono mai giustamente adeguate- il forte tasso di inattività femminile deriva anche dalle possibili condizioni di maternità, congedi e cure.
Senza contare un altro gap, nel settore pubblico: la diminuzione, se non la scarsità di offerte di impiego nella PA, che all’estero viene considerata uno tra i bacini privilegiati per un’occupazione di livello medio-alto (anche se il Decreto Rilancio cerca di snellire e semplificare le procedure concorsuali). Non solo: la complessità e la confusione con cui soprattutto ultimamente si gestiscono le procedure concorsuali disincentivano la partecipazione giovanile al “ricambio” negli impieghi pubblici.
Per dare coerenza ed omogeneità al discorso fino a qui affrontato, c’è però un’altra categoria, la cui psicologia ben si collega a ciò che è stato detto in principio: è quella degli scoraggiati, gli “individui disimpegnati” che non cercano lavoro, non partecipano ad attività formative anche informali, non sono toccati da obblighi socio-familiari o da impedimenti di varia natura e per lo più caratterizzati da una visione pessimistica delle condizioni occupazionali (così detti scoraggiati). E questa è esattamente la condizione di disagio che imperversa negli ultimi decenni e che la crisi dovuta al covid ha letteralmente catapultato sotto gli occhi di tutti. La sfiducia, il malessere, l’inadeguatezza.
Alla fine della fiera, è giusto tirare le somme: che cosa ci ha portati a questa passività? È chiaro che le circostanze esterne influenzino inevitabilmente la visione della vita e del futuro, soprattutto se tali circostanze abbiano l’avallo di un clima di disorientamento sociale. Tuttavia, non del tutto sbaglia chi è sostenitore della teoria “homo faber ipsius fortunae”. L’art. 4 della nostra Costituzione recita quanto segue: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.” In forza di tale articolo siamo forniti a livello nazionale, ad esempio, di Centri pubblici per l’impiego, strutture che favoriscono l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro promuovendo interventi di politica attiva del lavoro. Sono servizi che si rivolgono a cittadini disoccupati e occupati in cerca di una nuova posizione lavorativa, cittadini stranieri con regolare permesso di soggiorno in cerca di occupazione, lavoratori beneficiari di sostegno al reddito in costanza di rapporto di lavoro e a rischio disoccupazione.
A tal proposito è utile indagare il rapporto tra il mondo giovanile dei NEET e il sistema dei servizi per il lavoro. Ebbene, il 45% dei giovani NEET non ha mai avuto un contatto con un Centro per l’impiego a fronte del 53% che dichiara invece di averne avuto almeno uno: una platea costituita da individui potenzialmente attivabili, che possono essere accompagnati e seguiti in un percorso di inserimento lavorativo.
È bene ricordare qui che ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro) mette a disposizione dei percorsi di formazione nel rispetto delle competenze di ciascun individuo, nonché promuovendo speciali progetti per la formazione giovanile. Inoltre, per far fronte alla situazione di disagio indotta dal covid, grazie ad un accordo europeo è stato stipulato il “Fondo nuove competenze”, un piano che permette alle imprese di adeguare le competenze dei lavoratori, destinando parte dell’orario alla formazione.
È ormai assodato che scelte e percorsi formativi sbagliati ad oggi possano costare caro, ma è importante sapere che non tutto è perduto e che c’è una possibilità per mettersi in gioco. L’intraprendenza ripaga: è ora di svegliarci e costruire il nostro futuro, nel miglior modo possibile. Iniziamo a provarci.
Fonti: Il sole 24ore; ISTAT; EUROSTAT; Rivista online Social Europe: “Why Such Disparity Between Unemployment Rates In Europe?” by Denis MacShane on 27th July 2018; ANPAL.
Luisa Musto
26/5/2021 https://www.intersezionale.com
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