SOUMAILA, IL DIARIO DI UN SOPRAVVISUTO
di Alba Vastano
Soumaila lo incontro varie volte nelle piazze di Roma, durante le manifestazioni contro i governi che si susseguono alla velocità della luce e sempre ladri di diritti e contro tutte le forme di mafia ancora dilaganti nel nostro Paese. Mafie legalizzate che arricchiscono i potenti di turno e schiacciano i diritti di chi voce e potere non ha. Infine lo conosco ad un’ iniziativa politica e mi assicuro il suo ultimo libro autobiografico che descrive i disagi e, soprattutto, l’orrore che subiscono i migranti che incappano nelle mafie libiche. Nonostante appaia d’impatto l’evidente fierezza del giovane uomo, di Soumaila mi colpisce il suo sguardo triste che non può cancellare, perché fa parte della sua anima per ciò che ha dovuto attraversare. Occhi che lasciano trapelare tutto il male che ha subìto. Un velo di malinconia profonda che arriva direttamente dalle ferite, forse inguaribili, che ha nell’animo. Ferite che uomini bastardi gli hanno inferto durante il suo viaggio della speranza oltre il mare ambendo ad una vita migliore, libera dalla miseria, dai soprusi, dall’ignoranza, dall’oppressione delle mafie locali.
Soumaila oggi appare un uomo sereno, nonostante la violenza subìta e che ha visto subire nei lager libici dove ha visto morire molti dei suoi compagni, più sfortunati di lui. Soprattutto è un uomo per bene, di grande sensibilità e cultura. Così, anche per esorcizzare il male vissuto, abbraccia la causa della lotta per la giustizia e la libertà di tutti coloro che soffrono e vengono deprivati della dignità per le guerre, le prigionie, lo schiavismo. Scelte politiche che aveva già intrapreso a Bamako (Mali) la sua terra nativa.
Soumaila è anche un poeta, un cantore delle emozioni e del dolore. Lotta per i diritti e le cause degli invisibili e odia i potenti. Raccontando e scrivendo la sua terribile esperienza, il suo calvario dal Mali all’Italia, ci prova ad esorcizzare il male vissuto. Esprime le sue emozioni nelle raccolte di versi ‘Sogni di un uomo” e ‘La nostra civiltà’. E scrive un libro, ‘Le cicatrici del porto sicuro’, un diario in cui annota tutte le devastanti esperienze vissute nel viaggio che lo ha portato in Italia, attraversando strade, città, oasi, sentieri del territorio africano. Attraversando fra mille pericoli il Burkina Faso, il Mali, l’Algeria e la Libia. Fino alla traversata del Mediterraneo, verso le coste italiane. Nel suo ‘diario di un sopravvissuto’ descrive, senza risparmiarsi, le atrocità dei lager libici, ma anche l’iniquità dei sistemi di accoglienza italiani, laddove i richiedenti asilo sostano senza tempo, deprivati della dignità. E’ anche la sua personale esperienza vissuta in Libia, prima di imbarcarsi per l’Italia e, all’arrivo, nei centri di accoglienza in Sicilia, fino all’arrivo nella Capitale. Nel ‘diario’ racconta la sua vita da militante in Mali, da perseguitato politico, da esule e tutti gli orrori che ha visto e vissuto durante il viaggio per la speranza di una vita da uomo libero.
La storia di Soumaila
La politica e la fuga
“All’età di 27 anni indossavo con orgoglio i colori dell’estrema sinistra SADI (Solidarietà africana per la Democrazia e l’Indipendenza) e i suoi sogni di giustizia sociale- scrive Soumaila nel suo diario- ma il partito scelse di riunirsi alla maggioranza presidenziale del borghese Ibrahim Keita. Mi ritrovai in aperto conflitto con la maggioranza. Sono un giovane specializzato in tecnica informatica e laureato in scienze giuridiche… la mia figura, come quella di altri compagni, appariva scomoda. Mi ritrovai così, accusato ingiustamente di un fatto non commesso, quello di aver partecipato, nel 2012, insieme ad una cinquantina di militanti della sinistra, all’aggressione ai danni del Presidente ad interim, Dioncounda Traorè”. Soumaila, accusato di un fatto non commesso e non fiducioso sulla giustizia del suo Paese, fugge in Algeria. “Gli altri imputati, a oggi, sono ancora in carcere, in attesa di processo” precisa il giovane.
In Algeria, in piena crisi sanitaria per l’Ebola, si scatena la caccia all’untore nero. “Quando uscivo per le strade ad Algeri decisi di non prendere più il trasporto pubblico per paura di essere aggredito” ricorda il giovane maliano nel suo diario. Racimola una piccola somma per il lavoro prestato all’ambasciata turca, lascia Algeri e s’incammina a piedi verso Ghadames, la prima città dopo il confine libico. Poi Tripoli e finisce nel carcere di Bouslim simbolo della repressione sotto Gheddafi, dove, ad oggi, si accumulano le centinaia di migranti che la guerra sta spingendo per fuggire in Europa.
Il carcere di Bouslim
“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case/ Voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici/Considerate se questo è un uomo che lavora nel fango/Che non conosce pace/ che lotta per mezzo pane/ Che muore per un sì o per un no/…. Considerate se questa è una donna senza capelli e senza nome/ senza più forza di ricordare…./ Meditate che questo è stato, Vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore….” Primo Levi
Leggendo il racconto di Soumaila, riguardo la sua drammatica esperienza in carcere, non si può non assimilarla ai lager nazisti e si evince dalla storia che l’orrore non è finito con lo smantellamento di Auschwitz. L’orrore continua ad essere perpetrato nei campi libici, dove i migranti attendono i viaggi della speranza che, spesso, si trasformano in viaggi della morte. Così come a Guantanamo e in tutti gli altri luoghi di detenzione, come nelle nostre carceri, dove muore la dignità dell’uomo.
“In quei giorni ho visto l’orrore umano – scrive Soumaila – Dormivamo in trenta in una cella prevista per due persone. Donne, bambini e minori nelle situazioni che non auguro a nessuno, neanche a chi tenta di uccidermi. Donne costrette a prostituirsi, al piacimento delle guardie del carcere. Le portavano di notte, fuori, non si sa dove. Non ho mai avuto il coraggio di chiedere a queste donne dove le portassero, né a fare cosa. Me ne sono accorto un giorno quando ci hanno chiesto chi volesse fare sesso, pagando, c’erano delle donne a disposizione… avrei scelto la morte piuttosto che infliggere umiliazioni e cicatrici più profonde al dolore di queste persone. Bambini che piangevano tutta la notte per mancanza delle loro mamme. Ci davano da mangiare una volta al giorno. Un panino e una bottiglia d’acqua. Un compagno di cella, lì da due anni, ci spiegava che lo facevano per indebolirci, finché non potevamo avere la forza di lottare e ribellarci”.
Fra mille avversità, fuori dal carcere,continua l’odissea di Soumaila , intenzionato a raggiungere l’Italia. Esce dall’inferno di Bouslim, ma non gli vengono restituiti i documenti. Con la complicità di un amico incontra degli Italiani che lo aiutano ad organizzare il viaggio. Anche qui limitano la sua partenza contrarietà, disagi e violenze subìte in una sosta di un mese e mezzo in un campo, in attesa dell’agognato viaggio della speranza.Lo scoraggiamento invade il giovane maliano che si sente sconfitto e il suo sogno impossibile da realizzarsi.
Campo scafisti libici- L’inferno
Non solo Bouslim. E’ qui che il giovane maliano vive la sua esperienza più disumana, con un orrore che si perpetra costantemente su tanti poveri uomini, donne e bambini con l’unica colpa di fuggire dall’inferno e aspirare ad una vita dignitosa. “All’inizio eravamo chiusi in un lager, poca gente, un’ottantina di persone per finire, in breve tempo, in più di duecento, nascosti nel cantiere di una villa, ai piedi di un fiume inquinato – racconta il giovane maliano nel suo diario – Umiliati, picchiati, derubati di quel poco che avevamo. Volevo documentare tutto quest’orrore, così nascosi il mio cellulare all’interno di una fessura scavata nella suola della mia scarpa destra. Se avessero scoperto ciò, avrei rischiato tanto, non soltanto il cellulare, ma la mia stessa vita… duecento persone insieme dovevano stare nel silenzio totale, chi commetteva un piccolo rumore, veniva picchiato o lapidato come un animale. Siamo stati un mese e mezzo, dormendo per terra senza fare la doccia, le cimici e la scabbia erano le nostre compagne…”
Il Mare Mediterraneo
Finalmente si parte su un gommone colmo di persone all’inverosimile. Il mare e la speranza davanti, la paura di non farcela nel cuore. Pianti, preghiere e urla di paura. Gelo che penetra fin nelle ossa di uomini, donne e bambini. Era la notte del 26 dicembre del 2014 e il gommone colmo di vite disperate affronta il Mediterraneo.
“…cominciò a piovere, la paura emergeva, un mare che non ha limiti- scrive Soumaila-, nei quattro lati si potevano vedere solo mare e cielo che s’incontrano. Una cosa strana, su questo mare di notte si vedevano tante luci. Questo mare è pieno di navi, non è deserto, perché le persone devono morire o qualcuno vuole che sia così?…”
Il salvataggio e l’Italia
Freddo, paura di morire, di non farcela. Gente allo stremo. Bambini terrorizzati aggrappati alle loro madri. Giovani uomini e donne con il terrore negli occhi ad un passo dalla morte. Succede un piccolo miracolo. Una nave mercantile maltese li avvista, si avvicina al gommone ormai sul punto di rovesciarsi e prende i migranti a bordo.
“Ci salvarono la mattina verso le ore 7 e passammo tutta la giornata a bordo della loro nave, fino verso le ore 6 del pomeriggio quando venimmo trasferiti su una nave della Marina italiana… poi arrivarono alcuni gommoni, sempre della Marina Italiana, ci fornirono dei giubbotti di salvataggio, poi ci trasportarono in gruppi di cinque sulla loro nave – scrive Soumaila -Ci tolsero tutto, il cellulare per chi lo aveva e da quel momento diventai il numero B49….m’infastidiva che nessuno mi avesse chiesto come mi chiamavo, ma mi dovetti adeguare e ogni volta che chiamavano questo numero, sapevo che ero io”
Sicilia
“Ci trasferirono in un albergo nella provincia di Agrigento – continua a raccontare Soumaila nel suo diario– c’era un gestore arrogante che si permetteva anche di dire che, se non ci fossero stati loro, noi saremmo morti di fame, che venivamo dalla giungla. Un anno dopo venni a sapere che fu arrestato per corruzione…”
No, qui non c’è il Paradiso in terra. Anche qui le mafie dilagano. Anche qui il povero migrante costretto a scappare dal suo Paese è il diverso che viene a delinquere . Anche qui c’è un razzismo esponenziale. Anche qui solo gli Italiani. Anche qui ‘ Migrante tornatene a casa ’. Anche qui viene perseguitato chi aiuta i migranti per una vita dignitosa (ndr. Vedi l’accanimento delle istituzioni verso Mimmo Lucano). Anche qui odio e disprezzo verso chi non ha nulla,verso chi scappa dalla guerra e dalle mafie o per il diritto internazionale di migrare alla ricerca di un’esistenza dignitosa.. Anche qui non viene riconosciuto il diritto ad una vita migliore dignitosa. Soprattutto se il migrante è tanto povero che automaticamente viene connotato e marchiato come un disonesto che attenta ai nostri beni. Ed è connotato come persona priva di moralità, come uomo privo di freni inibitori, che non ha nulla da perdere, e quindi diventa automaticamente uno stupratore di donne di proprietà dello Stato italiano. Come se le donne qui fossero sempre considerate persone da rispettare, come se non venissero oltraggiate e violentate da uomini italianissimi, considerando il crescente numero di violenze di genere e femminicidi per mano made in Italy.
L’Italia sembra proprio connaturata per il ‘non passi lo straniero’, ma c’è anche del buono nel nostro Paese. Ci sono migliaia associazioni a tutela degli indifesi, di chi non ha voce, di chi non ha nulla. Ci sono i partiti di sinistra radicale che lottano per il ripristino di tutti i diritti costituzionali, in particolare in difesa dell’art. 3, quale principio di uguaglianza e contro ogni forma di razzismo. Insieme a Soumaila e a tutti coloro che credono nel valore della democrazia, della giustizia e della libertà vinceremo le mafie, vinceremo il razzismo, perché ogni persona da qualsiasi parte del mondo può e ha il diritto di aspirare a migliorare la propria esistenza. Noi ci siamo, insieme siamo tanti. Ce la faremo. Grazie Soumaila, grazie per il diario che hai scritto. Grazie per ciò che hai avuto il coraggio di documentare e per la testimonianza dell’orrore, grazie ai fermo immagine nei campi lager libici, rischiando la vita ogni momento. Grazie per la dedica sul tuo diario che custodisco preziosamente. ‘ Ad Alba, non abbiamo muri, ma cuori’ Soumaila- 3/7/22.
Fonte: ‘Le cicatrici del Porto sicuro- Il diario di un sopravvissuto’. Autore: Soumaila Diawara
Prefazione di Gennaro Avallone,, professore di Sociologia presso l’università di Salerno
Alba Vastano
Giornalista
Collaboratrice redazionale del mensile Lavoro e Salute
8/10/2022
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