Stereotipi e pregiudizi
Saper guardare e ascoltare la realtà, riconoscendo in ciò che accade il ‘nuovo’, saper dialogare con le diversità, senza restare fissi, seguendo le possibilità di sviluppo del pensiero e del movimento, costituiscono la possibilità di cambiare e far cambiare una realtà ingiusta, squilibrata, di far procedere relazioni umane autentiche.
Il significato della parola pregiudizio, cioè giudizio precedente, basato su decisioni ed esperienze anteriori al giudizio stesso, ha assunto nel tempo altre valenze: giudizio formulato prima di una debita considerazione oggettiva dei fatti, giudizio prematuro. Con questo termine intendiamo però dare luce anche all’aspetto più emotivo, di benevolenza o malevolenza che accompagna un giudizio immotivato. Il pregiudizio nell’ambito dell’approccio alla conoscenza e agli scambi internazionali, in un mondo ‘globalizzato’, può essere considerato una prima forma elementare di razzismo, con il rischio che si possa diffondere come un fungo, quando il pensiero critico è assopito, soggetto alle manipolazioni mediatiche e non si è capaci di analizzare oggettivamente fatti e culture. La società tecnologica, dell’immagine e del predominio dei media, rende più faticosi i percorsi di autonomia del pensiero e la relazione comunicativa con gli altri e le altre, quella relazione che manca quando non si è in grado di contribuire alla costruzione di ragionamenti condivisi e complessi che facciano superare la fissità degli stereotipi.
Quello che mi preme considerare è che il pregiudizio comunque orienta concretamente l’azione, pur essendo immotivato.
Si giunge alla stigmatizzazione di interi gruppi di persone considerati come ‘l’Altro-a’, lo-a straniero-a, quindi, tutto ciò che costituisce un pericolo per la stabilità dello status quo. Ragionare per categorie, facilita il compito di costruire dei campi chiusi, sicuri, lontani dalle possibilità di contaminazioni e di cambiamento. Nascono così ghetti e quindi la segregazione e la messa in dubbio che tutti gli esseri viventi abbiano dei diritti. Quei diritti che dall’affermarsi dell’ Habeas corpus inserito nella Magna Charta nel 1215, sono stati conquistati da lotte popolari, rivoluzioni e riforme legislative. Riguardo al riconoscimento della soggettività della donna, il percorso è stato ancor più lungo e frastagliato, ancora non completato, anzi.
Dunque, come contano i pregiudizi di genere nel campo lavorativo e delle relazioni? Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti, nelle cronache e nelle esperienze personali di donne e di uomini. Il punto è che spesso non vengono percepiti come pregiudizi, cioè come giudizi immotivati che condizionano relazioni e comportamenti. Quindi, si paralizza la possibilità di cambiare e avanzare nella costruzione di una società in cui ogni persona abbia il diritto di essere considerata in base alla sua unicità. Nei rapporti di potere tra generi, il pregiudizio, insieme all’utilizzo di stereotipi, impediscono il riconoscimento dell’altra, dell’identità culturale e del diritto all’esistenza. Si aggiunga la presunzione di superiorità, che porta a sminuire l’altra e a una comunicazione asimmetrica in cui il punto d’incontro non viene neppure ricercato, in quanto il giudizio è stato già stabilito in precedenza.
Le donne nella storia hanno subito le più grandi discriminazioni in ogni tempo: invisibili o sempre minori, streghe o folli; le uniche che hanno potuto godere di privilegi, sono state quelle appartenenti alle famiglie nobili o regali. È quindi anche una questione di classe. Ma non sempre, anche le privilegiate se si opponevano alle regole di una società patriarcale, subivano infatti le dure conseguenze. In tempi di guerra le donne sono sempre divenute oggetto di conquista, di offesa e di umiliazione del nemico, cosa che, se ancora non fosse chiaro, mette in luce l’aspetto più mostruoso e disumano della cultura patriarcale. Saper riconoscere che vi sono punti di vista diversi, che lacomprensione della realtà implica la presa in carico di culture diverse, non omogenee e omogeneizzabili, è un primo passo verso la possibilità di crescita e sviluppo di un pensiero complesso e articolato che accompagni pratiche e azioni atte a superare gli ostacoli messi in campo dai pregiudizi.
Nel quotidiano, possiamo facilmente rintracciare il dominio del pensiero universale maschile anche nella modulistica di molte amministrazioni, in cui neanche viene prevista la desinenza femminile, vicina al maschile nei modelli da compilare. Poi ci sono nomi di professioni che ancora non si vuole declinare ufficialmente al femminile. Vedi sindaca, magistrata, avvocata o qualunque sia una professione o un titolo che indichi un campo in cui la presenza femminile non era prevista fino a poco fa. Tracce di stereotipo. Già, perché anche il linguaggio verbale è importante, nominare qualcosa significa riconoscerla e darle un posto nel discorso; il livello verbale e quello simbolico sono un passaggio importante per l’immaginario che crea e costruisce significati e si confronta con la realtà. Credo che, d’altra parte, quando si pensa di perseguire la parità, o di perseguire l’obiettivo delle pari opportunità, a volte ci sia l’annullamento della diversità maschile/ femminile e non solo; succede quando si pensa che per considerare tutti sullo stesso piano, non ci sia bisogno di parlare di maschi e femmine o di prendere in considerazioni peculiarità. Ma non si possono fare parte uguali tra diseguali, diceva Gianni Rodari… In quei casi, poi accade che si utilizzino solo le forme verbali maschili e si tenda ad appiattire tutte e tutti su un modello astratto di persona. Di nuovo si perde la considerazione delle differenze, di ogni tipo e genere.
Utilizzare stereotipi facilita il ragionamento, pensare in modo complesso è più faticoso; così si cade negli stereotipi che fissano e irrigidiscono il discorso, non consentendo nuovi pensieri e un’ evoluzione. Abbiamo bisogno di uscire dalle gabbie, uscire dallo stato di minorità e affrontare relazioni e discorsi che consentano nuove costruzioni di percorsi condivisi e, insieme, la rimozione di condizioni di ineguaglianza e ingiustizia.
* La Magna Charta Libertatum è stata interpretata a posteriori come il primo documento fondamentale per il riconoscimento universale dei diritti dei cittadini, sebbene essa vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale in cui, durante il XII secolo e XIII secolo, la concessione di privilegi (libertates) da parte di sovrani a comunità o sudditi, offre altri esempi di natura analoga.
* Consentitemi questa azzardata operazione di prendere come schema una celeberrima definizione dell’Illuminismo del grande filosofo E. Kant, per formulare un’esortazione: ” La società fondata sull’eguaglianza, è possibile se l’uomo e la donna escono dallo stato di minorità… che egli- ella deve imputare a se stesso-a. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso-a è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! (…) “.
Laura Nanni
Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute
Articolo sul numero di luglio www.lavoroesalute.org
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