Stigma, burn-out, precarietà: il lavoro (difficile) nei servizi per i migranti

Condizioni di lavoro difficili, precarietà, elevata età media, fenomeni di burn-out e scarsa organizzazione, uno stigma sociale anti immigrati che ne complica le prestazioni e un sistema di servizi che fatica a fare rete, schiacciato dalla logica dell’emergenza. E’ la fotografia delle condizioni di lavoro (e dei bisogni) di chi è impegnato nel sistema dei servizi pubblici per l’immigrazione,  scattata dalla ricerca della Funzione Pubblica Cgil e dalla Fondazione Di Vittorio, dal titolo ‘La condizione delle lavoratrici e dei lavoratori dei servizi pubblici per l’immigrazione’. Il lavoro promosso dalla categoria dei servizi pubblici della Cgil in occasione dell’iniziativa ‘UeCare – L’Europa Solidale’, è stato presentato a Palermo. La Fp Cgil ha coinvolto circa 40 operatrici e operatori. Si tratta di operatori di front-office, educatori e mediatori culturali delle cooperative sociali, impiegati amministrativi ai medici e ai responsabili/coordinatori dei servizi, che attraversano i comparti delle Funzioni centrali dello Stato, degli Enti Locali, della Sanità pubblica e privata e del vasto mondo socio assistenziale e delle cooperative. Appartengono ai circa 65 mila operatori impegnati nel segmento d (che non comprende il contributo delle forze dell’ordine) e che la Fp Cgil ha cercato di analizzare dando loro voce.

Dalla loro diretta testimonianza emerge come, spiega la ricerca, “l’Italia sia ormai stabilmente un Paese di migrazioni ma che non ha mai abbandonato la logica dell’emergenza”. Non sembra, infatti, “che il sistema dei servizi per l’immigrazione si sia adattato a questo scenario inedito per rispondere ai nuovi bisogni dell’integrazione, ad esempio rafforzando sia i servizi di accoglienza (per la quota di nuovi ingressi di persone richiedenti o beneficiarie di protezione internazionale) sia rispetto all’inclusione sociale e all’integrazione della componente di immigrati legalmente residenti da tempo, i quali per gran parte risultano ‘lungo soggiornanti’ se non in procinto di ottenere la cittadinanza italiana”. Secondo il rapporto il sistema italiano dei servizi per l’immigrazione “è il risultato di una incessante opera di collage e stratificazione di interventi, anche eterogenei tra di loro. Il mancato superamento della logica dell’emergenza ha reso particolarmente fragile la ricerca di una connessione coerente tra i vari livelli di intervento, a scapito dell’efficienza complessiva del sistema, nonché dei diritti di lavoratori e dei destinatari dei servizi”.

Tra i nodi critici emersi dalle testimonianze “quelli del lavoro di rete e del coordinamento tra i vari attori del sistema; le inefficienze funzionali e le storture di tipo amministrativo, che si sommano al disegno disorganico del sistema dei servizi”. Così come escono fuori “le contraddizioni e le ambivalenze più generali dell’opzione italiana ai servizi pubblici, tra dequalificazione del lavoro ed esternalizzazioni non sempre virtuose e governate, insieme alle perduranti differenze tra le aree territoriali del Paese”.

Nelle parole dei lavoratori emerge poi con chiarezza un lavoro che non fa rete. Nella ricerca si sottolinea “uno scarso coordinamento e una fragile integrazione tra gli attori del sistema, sia sul piano esplicito (con presenza o meno di coordinamenti formali tra i responsabili dei servizi, presenza di protocolli e procedure condivise, etc.) sia su quello di fatto”. Le attività di accoglienza e integrazione si occupano di persone spesso provate da viaggi drammatici e in fuga da esperienze di violazione dei diritti umani. In un contesto di criticità e lacune dei servizi per l’immigrazione, gli utenti rischiano di vedere vanificati gli sforzi degli operatori a causa di un sistema che può produrre una spirale di esclusione opposta ai suoi obiettivi espliciti (marginalità, disagio sociale, irregolarità, e di conseguenza “paura” e rancore nella popolazione).

Rispetto alle condizioni di lavoro, i bisogni e le rivendicazioni, diversi gli elementi emersi:  scarsi investimenti in formazione insieme a un elevato rischio di burn-out, nonché di sicurezza nel rapporto con gli utenti; la presenza di falle nella tutela contrattuale, specie per i lavoratori della cooperazione sociale; una sostanziale differenza tra il mondo pubblico, con una elevata età media, e un mondo privato, giovane, sovraqualificato e soggetto a una precarietà spinta. Infine complicazioni nella gestione degli appalti con casi di scarsa legalità e, per ultimo, eccessive rigidità nell’organizzazione del lavoro, nella mobilità e nella valorizzazione professionale.

27/9/2018  www.redattoresociale.it

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