Storie di badanti. Simona

Simona Dinu

Simona ama i colori, i vestiti allegri, camminare a piedi nudi sull’erba bagnata, la malinconia, quelle canzoni che a un certo punto ti vengono in mente e che sanno di storie e di immagini lontane. Simona vive di musica, di ricordi, ma anche di futuro e di insegnamenti preziosi.

Le piace giocare con le parole, scrivere poesie e la pioggia che cade fresca sulla fronte: «Avevo chiesto una mano nel correggere le poesie che avevo tradotto dal rumeno al signore per il quale lavoravo. Volevo che mi aiutasse a migliorare la forma del mio italiano. Dopo averle lette mi chiamò in cucina, c’era anche sua moglie, e mi chiese se ciò che avevo scritto fosse veramente la mia storia o se mi fossi inventata tutto».

Al mio assenso, dissero: “Allora sei Rom?”. Io avevo già pronta la risposta, gli avrei detto: “Vi è mai mancato qualcosa in casa in questi anni?”. Ma non ce n’è stato bisogno, perché l’esempio personale è ciò che più conta.

Simona Dinu ha 35 anni quando si trasferisce in Italia: «Mio marito Valentin era arrivato poco prima di me, aveva raggiunto sua sorella che era già qua. La nostra situazione economica era sempre stata difficile, ma dopo la morte di mio suocero era peggiorata clamorosamente. In Romania i funerali ti rovinano economicamente. La religione ortodossa ti spinge a fare pranzi e regali, un funerale è come un matrimonio. Il nostro è un popolo molto legato alle tradizioni e bisogna accontentare i defunti. Si tratta di consuetudini non dette e nemmeno scritte, ma dalle quali non ti puoi discostare. Lo fai per loro, lo fai per la famiglia».

Non è tra le più rosee la situazione di Simona e Valentin: «Vivevamo a Bucarest, la sua città. Lui lavorava in una fabbrica di accessori per calzature, il suo padrone era italiano; io per una ditta pubblicitaria, la mia capa aveva visto del potenziale in me e mi aveva fatto fare un corso da segretaria. Imparai a utilizzare il pc e anche a parlare inglese. Sono sempre stata una persona curiosa, anche se non ho potuto studiare».

Simona proviene da una famiglia Rom, che a metà dell’ottocento si fermò in un piccolo paese di campagna di nome Rosiori, vicino Bràila: «Sono cresciuta con due donne, la nonna e la bisnonna, e forse è per questo che sostengo le famiglie non tradizionali. Quelli erano i tempi del comunismo. Io ero discriminata a scuola dagli altri bambini, perché sono Rom. Ricordo che a ricreazione mi mettevo sotto un grande albero, con le spalle appoggiate al tronco, per non farmi picchiare. C’era un bambino in particolare che me le dava; ora è diventato un diacono».

L’adolescenza, invece, la trascorre a Bucarest, da una zia, perché la nonna si era ammalata. «Lì andò meglio, non mi conoscevano. In paese tutti sapevano di tutti e sebbene la mia bisnonna fosse nata nel 1889 a Rosiori e i suoi genitori abitassero lì già da tempo, eravamo comunque visti con un certo sospetto. Per essere accettati, avevano abbandonato le loro abitudini, i vestiti colorati e la lingua romanes. È stato proprio in quel periodo a Bucarest che conobbi Valentin. Eravamo vicini di casa e giocavamo insieme. Quando poi ci rincontrammo anni dopo, ci guardammo con un nuovo sguardo, quello dell’amore».

Simona vive un’infanzia semplice e per molti versi serena: «Ho un ricordo bellissimo della mia bisnonna, si chiamava Tinca. Era molto buona, tranquilla, quando penso a lei provo una sensazione di pace. Teneva le treccine nascoste, le legava sopra la fronte e le copriva. Cuciva i piumini di lana, ed era una musicista». Molti nella famiglia di Simona sono musicisti. Il fratello della nonna suonava il violino, il bisnonno il contrabasso e i fratelli della mamma la fisarmonica.

«Mia mamma era una ribelle, la nonna l’aveva mandata a studiare in una scuola alberghiera a Bucarest, aveva 18 anni quando conobbe mio padre, un gagè, un non rom, e rimase incinta. Per mia nonna fu la ‘vergogna massima’. È stata Tinca a convincerla ad accettare nuovamente mia madre in casa. Credo di aver dormito al massimo un mese in tutta la mia vita insieme a mia madre Rodriga. Lei non ha mai vissuto con me. Mio padre invece, l’ho visto solo una volta quando avevo 16 anni. Lui, in casa, è sempre stato un argomento tabù».

È antica la storia dei Rom. Costretti ad andarsene dall’India, in molti arrivarono in Romania nel 1300 circa e divennero schiavi: «I rumeni sono un popolo molto fiero, non vogliono mescolarsi con nessuno. Veniamo definiti ‘zingari’, una parola che proviene dal greco e significa ‘da non toccare’. È una grande offesa, non esiste questa parola nel nostro vocabolario. Rom significa ‘uomo’. Siamo persone calde, accoglienti, vive, con un forte senso della famiglia. Credo che abbiamo sempre attratto gli altri, ma anche spaventato. Quando ero piccola, venivano tante persone dalla nonna a chiederle incantesimi, a farsi leggere la mano. Questa è una cosa che in molti fanno orgogliosamente. Sulla mano c’è scritta tutta la vita di una persona, non a caso, quando si muore, la mano diventa liscia».

È il 2005 quando Simona raggiunge suo marito a Ravenna: «Siamo arrivati in pullman con un visto turistico. All’inizio mi sembrava tutto così strano. Noi siamo un popolo caldo, che ospita, che rispetta molto quelli che vengono da lontano. Mi sembrava così assurdo che i vicini di casa vivessero con le tapparelle abbassate. Ma poi ho capito che le esigenze degli altri vanno sempre rispettate. La gente ha paura, perché a volte arrivano anche delle persone cattive, la freddezza è un modo per difendersi».

Quando è arrivata Simona non sapeva molto dell’Italia. Conosceva il Papa e l’enorme ricchezza culturale del Paese, ma niente sulla quotidianità. Tuttavia trova subito lavoro come donna delle pulizie, e ciò che la stupisce è quanto le famiglie si fidassero, dopo averla conosciuta.

Avevo 12 paia di chiavi, era il numero di case in cui facevo le pulizie. Mi rendevo conto che ero responsabile non solo del mio comportamento, ma anche di un popolo intero, dovevo dare il meglio di me.

Dopo un anno Simona riesce a portare anche Alex, suo figlio di 4 anni che era rimasto in Romania. Quell’anno senza Alex era stato un anno da incubo. Simona lavora dalla mattina alla sera, con solo il tempo per lavarsi e dormire. «La domenica, invece, mi strappavo i capelli per il dolore di essere lontana da mio figlio, è indescrivibile ciò che ho provato. Un giorno, al telefono, all’ennesima richiesta di mio figlio di tornare a prenderlo, gli dissi che lo avrei fatto, non appena fosse arrivata la neve. Tempo dopo, mi chiamarono da casa per dirmi che Alex era fuori dalla porta da ore e non voleva rientrare: stava nevicando e mi aspettava».

Finalmente, dopo dodici mesi esatti, Simona e Valentin possono andare a prendere Alex. Appena arrivato, l’unica scuola che riescono a trovargli è una materna privata. Nel pubblico non lo prendevano. «Feci i salti mortali per pagarla, non volevo assolutamente sembrare bisognosa. Anche la casa ci costava tantissimo, ne avevamo trovata una in centro. Solo quel proprietario si era fidato di noi, ma pagavamo una cifra molto alta».

Poi Simona fa qualche incontro fortunato: «Per una famiglia andavo a fare la spesa in un fruttivendolo in centro e un giorno chiesi mezzo chilo di uova, la commessa mi domandò se la stavo prendendo in giro, ovviamente intendevo di uva. Da lì siamo diventate amiche e in seguito mi ha anche preso a lavorare. Quando è nato il mio secondo figlio David, ed ero a casa, Maria, la signora del negozio, veniva a casa a portarmi la frutta e la verdura. Io non chiedevo niente, ma lei lo sapeva che non ce la passavamo benissimo, è stata un angelo».

Grazie a Maria, Simona inizia a lavorare per la signora Rosangela, dove lavora tuttora. «Prima c’era anche suo marito, il signore che mi aiutò con le traduzioni, che purtroppo è morto. La signora Rosangela mi chiama ‘la governante’, perché lei è una signorina di 88 anni e non ha bisogno di una badante. Con lei ogni giorno è una lezione diversa. Faceva la maestra e così ricevo gratuitamente tanti insegnamenti sulla storia, sull’arte, sulla vita».

Oggi Simona non nasconde più le sue origini e la sua storia: «Mia nonna mi trasmise quel senso di appartenenza, il valore della famiglia, il rispetto per gli altri e soprattutto per gli uomini. Nella nostra cultura l’uomo è il re della casa. Sin da quando avevo sei anni, lei mi preparava a diventare una donna rom e mi diceva che quando avrei incontrato mio marito sarei stata con lui tutta la mia vita. Allora io le domandavo sbalordita: “Tutta una vita?” e lei rispondeva facendosi il segno della croce. Valentin è un rom e, anche se le nostre abitudini sono cambiate e il nostro modo di vivere si è evoluto, sarà il mio compagno per tutta la vita. Come famiglia siamo molto legati alle tradizioni, alla musica, mio figlio piccolo è musicista e l’altro ha avuto una fidanzata gagè. In balcone abbiamo messo la nostra bandiera. Chi ci conosce sa chi siamo e quali sono i nostri valori. Basta essere invisibili!».

30/7/2021 https://www.lenius.it

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