STORIE DI ORDINARIA FOLLIA
Francesca (nome di fantasia*, ndr) è un’addetta alle pulizie presso una sede ministeriale a Roma e svolge questo lavoro da oltre quindici anni alle dipendenze di un’impresa privata. Nell’ aprile dello scorso anno, Francesca ha scoperto di avere un carcinoma invasivo e si è sottoposta a due interventi. Ha iniziato, così, una lunga battaglia contro una malattia terribile, una battaglia che ha significato un cambio radicale di vita: sette mesi di chemioterapia, controlli continui, cure collaterali. Una battaglia che Francesca, con l’aiuto dei medici, dei suoi cari, degli psicologi, sta conducendo in prima linea con tutta la grinta e la forza che la contraddistinguono, riuscendo a sconfiggere anche la depressione che, spesso, in queste situazioni può diventare un ulteriore ed insidioso peso, un elemento destabilizzante non da poco.
In questa lunga battaglia Francesca ha scoperto, però, che esiste un altro ostacolo che non aveva considerato, forse perchè inaspettato e subdolo, un ostacolo che distrugge moralmente più della stessa malattia: l’assenza di un adeguato aiuto da parte dello Stato, la mancanza di garanzie e il rischio reale di perdere il posto di lavoro.
Da quando è in cura, tra interventi e chemioterapia, Francesca si è trovata costretta ad usufruire di 9 mesi di malattia, di cui 6 pagati al 100 % e 3 pagati al 50%. Le norme che regolano i rapporti di lavoro nel settore privato prevedono, però, un tetto massimo di giorni di malattia, pari a 365 giorni in tre anni, calcolati sugli ultimi tre anni di lavoro. Svolgendo un rapido e semplice calcolo, ci rendiamo conto che avendo già usufruito, nel corso del 2014, di 9 mesi di malattia, Francesca corre il rischio reale di essere licenziata qualora dovesse richiedere altri due mesi per svolgere cure e controlli ospedalieri nei prossimi due anni. Ma, come è d’altronde facile immaginare, la situazione risulta davvero terribile poichè due mesi appaiono, verosimilmente, del tutto insufficienti, considerato il decorso ancora lungo che una malattia del genere richiede. E sempre a patto che, in tutto questo, non intervengano ulteriori complicazioni che purtroppo sono molto frequenti in questo genere di situazioni.
L’unica soluzione che rimane a Francesca, quindi, sarebbe quella dell’aspettativa non retribuita per grave infermità. Ma questa è una non-soluzione perché, ovviamente, senza stipendio diventerebbe impossibile sostenere le spese necessarie per poter condurre una vita dignitosa. Dunque è così che Francesca, stanca e malata, è costretta a rientrare in servizio, tenendosi stretti i soli due mesi che le rimangono a disposizione per i prossimi due anni nella speranza di poter resistere il più possibile.
L’aspetto paradossale di tutta questa vicenda è che lei, per poter tornare al lavoro, ha dovuto fingere di stare bene alla visita del medico legale e, ciononostante, il medico del lavoro le ha proibito di svolgere mansioni pesanti. Ma Francesca deve inoltre fare i conti con il suo caporale che, da servo marcio del padrone quale è, nella paura di perdere il suo orticello, le ordina costantemente e senza sentire ragioni di svolgere mansioni pesanti nonostante la situazione grave in cui la dipendente versa.
L’altra assurdità che si palesa agli occhi di Francesca è l’ evidente disparità di trattamento che sussiste tra un lavoratore agli ordini del privato ed un lavoratore alle dipendenze pubbliche. I lavoratori pubblici, in situazioni simili, godono di un regime di “favore” poichè è loro concesso, infatti, di usufruire di 18 mesi di malattia anziché dieci.
L’ulteriore conseguenza è che, facilmente, tali differenze finiscono per alimentare una guerra tra poveri dove, nella logica del mal comune mezzo gaudio, invece di lottare assieme per ottenere maggiori diritti e tutele, si finisce per lottare nella direzione di un egualitarismo al ribasso di cui Renzi si è fatto promotore. “Mai più differenze tra pubblico e privato” significa, per i borghesi, minore tutele per tutti.
Questa triste vicenda riesce a condensare in sè tutti gli elementi negativi di questo sistema basato sullo sfruttamento incondizionato dei lavoratori. Uno Stato che non è più in grado di tutelare i propri cittadini, uno Stato che, anzi, considera le tutele un costo invece di considerarle una conquista di civiltà, che Stato è? Non c’è alcun dubbio: questo è lo Stato dei padroni. Lor signori che scrivono queste norme e delineano le sempre carenti legislazioni in materia di lavoro, lo fanno non perché non abbiano un «cuore», ma perché devono rispondere agli interessi dei propri datori di lavoro: i padroni. I partiti politici della borghesia che oggi si spartiscono le poltrone nelle istituzioni, al fine di preservare in ogni modo questi interessi, non possono che proseguire nelle loro politiche di macelleria sociale, nella promulgazione di leggi sempre più regressive, nell’erosione inesorabile di tutte quelle tutele, anche minime, necessarie alla classe lavoratrice, rivelando in tutta la sua violenza sino a che punto può spingersi, e si spingerà, la turpe logica del profitto e dello sfruttamento incondizionati. E, purtroppo, simili vicende che sono già fin troppe, si moltiplicheranno finché la corsa all’accumulazione dei profitti non sarà bloccata da un grande sollevazione popolare. Solo un popolo cosciente delle proprie condizioni storiche potrà cambiare il verso del movimento, invertendo l’attuale marcia e puntando dritto al progresso.
A Francesca un abbraccio da tutta la redazione di LCF.
* per ragioni legate a possibili ripercussioni padronali, la protagonista di questa triste storia ci ha chiesto di usare un nome di fantasia, Francesca, e per le stesse ragioni non sono riportati maggiori dettagli sul nome della ditta.
Pasquale Vecchiarelli
23/5/2015 www.lacittafutura.it
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